in Contropiano Anno 1 n° 1 – 26 maggio 1993
I siderurgici tedeschi scioperano per far rispettare gli aumenti salariali promessi con la riunificazione. È il primo sciopero dopo la vendita delle imprese dell’est agli imprenditori dell’ovest ma anche agli stranieri. Tra i padroni vi sono anche gli italiani. Il caso della Riva.
Lo sciopero degli operai siderurgici nella ex Germania Est vede impegnati i lavoratori superstiti dopo la gigante operazione di privatizzazione/ristrutturazione delle imprese: portata avanti dalla Treuhand che ha praticamente licenziato i 2/3 della manodopera preesistente.
Ma la crisi della siderurgia attanaglia tutto il settore ed in tutta Europa. Le decisioni della Commissione CEE prevedono forti tagli occupazionali e di capacità produttive entro il 1993. In Germania, il presidente della Unione Siderurgici prevede che per “rimettere in equilibrio la produzione sarà necessario cancellare tra i 25 e i 30.000 posti di lavoro nei länder dell’ovest ed altri 10.000 in quelli dell’est”. I grandi gruppi come Krupp, Thyssen, Hoesch stanno licenziando ed hanno chiuso il ’92 con forti perdite. In questo quadro, Kohl e gli industriali tedeschi, concretizzando un’ipotesi che circolava da quasi un anno, hanno annullato unilateralmente l’accordo che avrebbe dovuto portare le paghe base dell’est allo stesso livello di quelle dell’ovest (ma solo le paghe base e non gli altri meccanismi, NdR).
Il costo del lavoro nella Germania Est è poco più della metà di quella ovest, con l’accordo siglato nel 1991 sarebbe dovuto arrivare all’80% “reale” nel 1994. Negli altri paesi dell’Europa dell’Est (Cecoslovacchia, Ungheria ecc.) il costo del lavoro è fino a venti volte inferiore a quello della Germania occidentale. Su questa frammentazione, i padroni intervengono senza pietà minacciando chiusure di impianti, spostandoli, chiudendoli per riaprirli appena oltre frontiera avendo a disposizione l’intera Europa dell’est.
Tra i nuovi padroni dell’industria nella ex RDT, non ci sono solo le banche e i konzern tedeschi “occidentali” ma anche molte società e multinazionali straniere.
Dopo la furia privatizzatrice del dopo ’89, 510 imprese sono passate in mano a consigli di amministrazione che risiedono al di fuori della Germania. Tra queste figurano anche 25 società italiane tra cui spicca la industria siderurgica Riva con sede a Milano.
La Riva ha investito nella ex RDT circa 220 miliardi di lire acquisendo due stabilimenti siderurgici a Brandeburgo ed Henningsdorf. Dei soldi investiti, un terzo è servito all’acquisto e i due terzi per ristrutturare gli impianti. Le società straniere che hanno investito nella Germania orientale hanno ricevuto agevolazioni dal governo tedesco e dai governi dei singoli länder (sovvenzioni dell’8% a fondo perduto che all’inizio del processo di privatizzazione erano del 12%), in cambio dovevano garantire “i livelli occupazionali” per almeno la metà degli organici.
In realtà la Riva, ma anche tutti gli altri, hanno ridotto drasticamente l’occupazione negli impianti rilevati. Nei due stabilimenti sotto controllo “italiano”, i lavoratori sono rimasti in 1.700, in precedenza erano 8.000 cioè è rimasto meno di un lavoratore su quattro.
Nonostante questi feroci tagli occupazionali, il “Sole 24 Ore” del 4 Maggio ci rivela che “i due impianti acquistati sono tra i pochi nei nuovi länder che funzionano a pieno ritmo”. Lo stesso quotidiano riporta le dichiarazioni del presidente del Consiglio di Fabbrica che denuncia il fatto che la Riva si sia rifiutata (come gli altri imprenditori tedeschi e stranieri) di pagare gli aumenti di salario previsti dall’accordo tra governo, padroni e sindacati tedeschi di due anni fa (26% per l’anno in corso) eppure afferma il sindacalista “gli impianti tirano e la capacità produttiva è quasi al massimo”.
I siderurgici della Germania est sono in sciopero per far rispettare l’accordo sugli aumenti salariali, i padroni multinazionali minacciano la serrata e nel frattempo cercano di spezzare il fronte dello sciopero ricorrendo a vari mezzi.
La direzione della Riva utilizza i metodi del “modello FIAT”, cioè gruppi di lavoratori che dichiarano di voler lavorare e denunciano gli scioperanti che gli impediscono l’esercizio del loro diritto al lavoro.
Un sindacalista della IG Metall, Michael Boehrm, denuncia la difficoltà dei contatti con la direzione della società italiana e in modo particolare del “padrone” Emilio Riva. “Tramite alcuni suoi collaboratori cerca continuamente di disturbare il pacifico corso dello sciopero con provocazioni da operetta all’italiana”, Boehm si riferisce ai tentativi di gruppi di “lavoratori volontari” che cercano di forzare i picchetti creando tensioni e problemi, questi lavoratori devono anche firmare una dichiarazione a favore dell’interruzione dello sciopero. Altrettanto sembrano fare camion e veicoli che vorrebbero scaricare la merce all’interno delle due fabbriche.
Questa situazione degli stabilimenti della Riva nella ex RDT è emblematica del modello di relazioni economiche e sindacali che è alla base degli investimenti occidentali nei paesi dell’Est Europa. Ma è anche un modello che i padroni considerano ormai “universale” ed applicabile in ogni realtà. Un dirigente italiano della Siemens, Raffaele Durante, membro della delegazione per l’Italia della Treuhand sembra avere le idee piuttosto chiare. A suo avviso, quello che è avvenuto nella Germania Est “è una grande lezione per il necessario processo di privatizzazione di cui ha urgente bisogno l’Italia, per la quale andrebbe costituita una agenzia sul modello tedesco” (Corriere Economia, 4 Novembre ’92). Forse l’internazionalismo proletario sarà caduto in disuso, ma i siderurgici dell’Ilva o dell’IRI e quelli tedeschi sono sicuramente nella “stessa barca” e combattono contro gli stessi squali.
IL. GRUPPO RIVA: UN MODELLO DI MULTINAZIONALE “ITALIANA”
La Riva, gruppo siderurgico con sede a Milano, è uno dei gruppi più inseriti nella nuova frontiera industriale della Germania Est. È già un gruppo abbastanza internazionalizzato che realizza il 65% del suo fatturato all’estero. Sui 1.869 miliardi di fatturato del 1992, ben 1.079 sono stati realizzati negli stabilimenti situati in Spagna, Belgio, Francia e Germania Est. Gli impianti di Henningsdorf e Brandeburgo hanno fatturato 312 miliardi (il 30% del fatturato all’estero). Il gruppo occupa oggi 5.780 addetti di cui ben 3.070 all’estero. La Riva ha trasferito in Germania Est alcune lavorazioni che precedentemente si realizzavano in Francia ed Italia affinché siano più vicine ai mercati sbocco. La Riva ha comprato per 55 milioni di marchi lo stabilimento di Brandeburgo e per 47 milioni di marchi quello di Henningsdorf. In quest’ultimo, fino al 1989, lavoravano 5.141 persone oggi la Riva ne occupa solo 873; a Brandeburgo ne lavoravano quasi 3.100 e oggi solo 850.
Lo stabilimento di Brandeburgo ha prodotto nel 1992 706.000 tonnellate di acciaio e 648.000 tonnellate di vergella; l’impianto di Henningsdorf ha prodotto 388.000 tonnellate di acciaio e 311.000 di tondino. La direzione punta ad arrivare ad una produzione “a regime” pari a 1,8 e un milione di tonnellate di acciaio e 1,2 e 1,6 milioni di tonnellate di laminati.
Entrambi gli stabilimenti della Riva occupano meno di 1.000 dipendenti, per cui i sindacati non sono rappresentati nei Consigli di sorveglianza degli impianti. “Henningsdorf sembra destinata a rimanere un esperimento riuscito nel drammatico laboratorio industriale della Germania Est” commenta il “Sole 24 Ore” del 21 Febbraio. “Italiani brava gente?”