in Contropiano Anno 1 n° 1 – 26 maggio 1993
Il Sindacato unico di stato sembra proprio essere l’effetto più rilevante in ambito sindacale della riforma elettorale maggioritaria sancita plebiscitariamente con il referendum del 18 aprile.
Per certi aspetti non si tratta effettivamente di altro se non della razionalizzazione di uno stato di cose vigente da anni, per non dire da decenni: il monopolio della rappresentanza è stato istituito formalmente con l’articolo 19 della Statuto dei Lavoratori già nel 1970, la “concertazione” trilaterale fra Confindustria, governo e CGIL-CISL-UIL è pratica corrente fin dall’accordo “Scotti” del 1983 sul costo del lavoro, da 10-15 anni non si svolgono le elezioni dei delegati sindacali nella stragrande maggioranza delle aziende. L’elenco delle pratiche neo-corporative consolidate nel nostro paese potrebbe proseguire ancora a lungo, ma le ipotesi di “sindacato unico” che si stanno concretizzando rappresentano un salto qualitativo la cui portata può essere compresa solo tenendo presenti da una parte gli aspetti economici legati alla ristrutturazione produttiva, e dall’altra gli aspetti politici connessi alle riforme istituzionali.
L’affermarsi di una nuova forma di sfruttamento, il cosiddetto “modello giapponese” , quanto mai adeguata a trasformare la fluidità del lavoro in liquidità di capitale, ovvero trasformare in più profitti una gestione della forza lavoro libera da ogni condizionamento.
Questo “modello” , che si sta imponendo ovunque deve la sua fortuna alla coincidenza della flessibilità del lavoro con la flessibilità delle macchine: da una parte le tecniche di gestione e direzione del processo di lavoro aumentano lo sfruttamento. D’altra parte la grande rivoluzione industriale dell’automazione e del controllo ha prodotto un nuovo sistema di macchine estremamente versatile.
Questa combinazione comporta una flessibilità del salario di cui rimane garantita una quota sempre più piccola, subordinando il rimanente alla capacità effettiva di sostenere lo sforzo produttivo massimo da parte del lavoratore. Tutta qui la famosa “economia partecipativa”: un’economia di ricatto dei padroni sui lavoratori, in cui, secondo le parole del suo massimo teorico, Taichi Ohno “il successo sta nel pieno controllo dell’impresa sul sindacato” (in Giappone solo chi è stato dirigente sindacale può diventare dirigente d’impresa).
Su queste trasformazioni nella base produttiva si inseriscono le manovre che non si limitano a ridiscutere brutalmente la distribuzione della ricchezza a sfavore dei lavoratori e dei settori più deboli della società, ma rimettono in discussione anche le norme stesse della gestione della società e della politica. Dunque il problema che si vuole risolvere con le riforme istituzionali che si stanno proponendo è quello di continuare a gestire una società con margini economici sempre più limitati, dove il clientelismo della DC e del PSI, il consociativismo del PCI/PDS, la crescita del deficit pubblico, sono divenuti “strumenti di lusso” inutilizzabili, dalle contraddizioni economiche e sociali scaturisce direttamente l’ipotesi di un sistema politico dove la minore democrazia sia direttamente proporzionale alla minore ricchezza della società.
Assieme al vecchio sistema proporzionale, si vuole cancellare anche la rappresentanza dei settori sociali che saranno travolti dalla crisi economica. A questi settori va tolta assolutamente la possibilità di trovare un punto di sintesi e di riferimento politico istituzionale, in quanto questo potrebbe essere dirompente per un progetto che prevede il benessere economico solo per i settori sempre più ristretti della società.
Le riforme istituzionali sancite dal referendum del 18 aprile sono l’equivalente di quello che è accaduto in questi anni sul piano sindacale. Infatti i sindacati confederali di fronte alla crisi di rapporto con i lavoratori in questo decennio non hanno mai risposto aprendosi alle richieste, ma hanno sempre più rafforzato il proprio ruolo istituzionale.
Hanno fatto questo perché hanno compreso che la loro forza, se volevano mantenere le posizioni di potere raggiunte, non si poteva più basare sulla rappresentatività dei lavoratori ma sul loro controllo.