Intervista a Fausto Bertinotti
in Contropiano Anno 1 n° 1 – 26 maggio 1993
Vorrei chiarimenti sul legame, che tu stesso poni tra la tua decisione di uscire dal PDS e l’ultima scelta fatta dal PDS di entrare nell’area di governo.
Penso che, con il Governo Ciampi, è avvenuto un fatto importante nella storia politica del Paese; questo Governo, naturalmente, non è un “fungo”, cioè non nasce improvvisamente ma continua e consolida una tendenza già in atto con il Governo Amato il quale, sostanzialmente, godeva di consenso e sostegno extraparlamentare.
Ciampi da questo punto di vista ha fatto un passo ulteriore con un Governo istituzionale che, non casualmente, è un Governo “del Governatore” perché espressione della stabilità della moneta: in realtà è il mercato che si fa governo assumendo caratteristiche sempre più impersonali. Infatti, vengono spazzate via persino le mediazioni dei Partiti di Governo, che pure erano brutte mediazioni. In questa condizione l’astensione del PDS costituisce, secondo me, un errore molto grave perché non consente di svelare la natura tecnocratica di questo Governo e, soprattutto, non avendo alcune grandi discriminanti programmatiche – il reinserimento della scala mobile: scelte chiare sul terreno dell’occupazione e del lavoro: la ricostruzione dello stato sociale contro la demolizione aperta da Amato – il PDS ha finito per avallare un’operazione che a me sembra francamente pericolosa. Per questo credo occorresse dare un segnale di scelta di campo e questo campo secondo me è il campo dell’opposizione di sinistra dove ritengo si debba lavorare per ristabilire un rapporto tra la politica e la condizione sociale e riaprire una speranza alla gente di poter tornare ad essere protagonista della politica.
Come interpreti la scelta del PDS? Pensi che sia una scelta momentanea o che venga da lontano?
Penso sia una scelta che, diciamo, porta a compimento una traiettoria e va ad esaltare la sua funzione governativa. Soprattutto, però, è questa astensione sul governo che costituisce, a mio avviso, il pericolo maggiore perché favorisce la passivizzazione culturale delle masse, che non si trovano più di fronte a delle scelte economiche e sociali su cui distinguere nettamente le parti e fare una battaglia con gli uni contro gli altri.
Quando parli di sinistra di opposizione, che tipo di caratteristiche pensi essa debba assumere e, soprattutto, su quali punti di riferimento nuovi o invece già esistenti, pensi debba basarsi?
Io identifico la sinistra di opposizione con quelle forze che, in qualche misura, si sono già messe in campo nella campagna per il no nel referendum del 18 aprile e penso che questa sinistra di opposizione debba compiere una analisi severa e approfondita della sconfitta che ha subito e, contemporaneamente, mandare un segnale di speranza, di rifiuto della rassegnazione, individuando delle vere e proprie campagne di battaglia politica. La prima di queste battaglie è, secondo me, la raccolta delle firme per il referendum sull’abrogazione dell’art. 19, cioè per la decratizzazione del sindacato; altre di queste campagne e di questi obiettivi possono essere messi in campo con la costruzione di un’area, di un’aggregazione in cui le diverse forze che vi fanno parte, pur mantenendo le proprie caratteristiche e il proprio profilo, concorrano a costruire una soggettività politica.
Rispetto alla questione dell’articolo 19, i referendum per i quali si stanno raccogliendo le firme sono due, uno parziale e uno totale; tu con quale sei più d’accordo?
Io dall’inizio di questa vicenda ho detto la mia, dal punto di vista dei contenuti, ma la mia preferenza – che per altro è nota ai compagni con cui ne ho parlato – è irrilevante: il problema è oggi, secondo me, raccogliere le firme sui referendum, fare i banchetti comuni, mantenendo l’intesa anche con i COBAS. È assurda una sterile divisione quando abbiamo un numero di firme bassissimo. Il punto fondamentale è organizzare le firme, fare i banchetti: là dove si fanno c’è un consenso dei lavoratori che firmano tutti i quesiti. Bisogna andare avanti, non attardarsi su sterili divisioni quando siamo all’indomani di una sconfitta drammatica come quella del 18 aprile.
C’è comunque una differenza fra i due referendum…
Ma noi non facciamo un referendum perché pensiamo che risolva la questione, ma per sollecitare una nuova legge che garantisca ai lavoratori la possibilità di votare la rappresentanza liberamente scelta e di poter stabilire se un accordo vale o non vale a seconda del consenso o no dei lavoratori. Questo è l’essenziale.
La tua scelta coinvolge o meno la tua appartenenza alla CGIL?
No, certo che no! Nella CGIL noi di “Essere Sindacato” facciamo da tempo una lotta per l’autoriforma della CGIL, anche con un impegno diretto a stabilire rapporti con i movimenti e con tutto quello che esiste nel mondo del lavoro. Questo mio impegno non è certo modificato dalle mie scelte che riguardano la sfera della politica.
Intervista rilasciata a Radio Città Aperta di Roma