Emilio Molinari in Contropiano Anno 1 n° 1 – 26 maggio 1993
Emilio Molinari, Senatore dei Verdi, ha partecipato alla delegazione che si è recata in Libano e tra i 400 espulsi. Ci ha inviato le sue valutazioni dopo il rientro in Italia della delegazione del Comitato per lo Stato indipendente di Palestina.
400 persone deportate in una valle sperduta, che un tempo veniva chiamata Valle dello scorpione, costrette a vivere in condizioni tremende, nelle tende, nell’inedia, sostenuti solo dalla solidarietà dei palestinesi rifugiati nel Libano e dei libanesi dei villaggi la cui povertà è altrettanto tremenda.
400 intellettuali, medici, ingegneri, laureati e studenti, la classe dirigente di un popolo, prelevati dalle loro case senza alcuna imputazione speciale, senza alcun processo, rei soltanto di appartenere ad un movimento politico-religioso e spediti lassù in terra di nessuno, dovrebbero costituire un problema per il mondo civile, dovrebbero stimolare la sensibilità dei tanti garantisti italiani, dovrebbero perlomeno valere un atto di solidarietà internazionale. La solidarietà: questa è stata la prima e principale motivazione che mi ha spinto ad accettare l’invito del Comitato per il riconoscimento dello Stato di Palestina e del Fronte per la liberazione della Palestina e, sia chiaro, senza identificarmi in queste organizzazioni e cosciente che in questa scelta sarei stato il solo parlamentare delle delegazioni e in una compagnia palesemente di parte anche all’interno delle contraddizioni della stessa OLP.
Eppure io credo che un verde, proprio perché libero dai condizionamenti ideologici e dalle logiche degli schieramenti, aveva il dovere di fare questo atto: portare direttamente la solidarietà con chi subisce un sopruso, porre il problema dei diritti umani violati, ricordare che le risoluzioni dell’ONU vanno rispettate per chiunque.
Lo dovevamo fare noi verdi, dal momento che gli altri parlamentari a quanto pare si sono fermati di fronte ai numerosi veti diplomatici. Dai veti dell’OLP timoroso nel patrocinare una iniziativa di solidarietà con i 400 esponenti di HAMAS, che potesse compromettere il difficile equilibrio della conferenza di pace, la quale volente o nolente chiudeva con il problema dei deportati. A quelli del governo libanese altrettanto timoroso di irritare la confinante Israele se avesse rilasciato salvacondotti per la valle di Mars el Ziurs. Il Ministro degli Interni Libanese, esponente di un partito progressista molto vicino a Jumblat ed ai palestinesi – che abbiamo incontrato a Beirut e con il quale abbiamo a lungo parlato, è stato chiaro a questo proposito: “mi spiace senatore, ma se vi rilascio un permesso per visitare i deportati faccio scoppiare un incidente diplomatico ed avrei contro tutti”.
Perciò abbiamo dovuto arrangiarci clandestinamente, camminando di notte, aiutati dall’organizzazione dei palestinesi del Fronte Democratico e dai libanesi dei villaggi di confine. Questo ci ha permesso di vivere una esperienza umana e politica importante, di vedere e toccare con mano l’enorme solidarietà che attorno ai 400 deportati si è determinata in quella zona, di come l’azione di Israele finisca, sui tempi lunghi, con l’essere il veicolo su cui viaggerà e si estenderà il fondamentalismo islamico, demonizzato, isolato, escluso da ogni rapporto diplomatico. Il fondamentalismo islamico lì in terra di nessuno, nell’emblema dei 400, diventa un punto di riferimento per molti, moltissimi.
Ma altre considerazioni mi sento di trarre da questo viaggio e dagli incontri con forze politiche libanesi, con dirigenti del Fronte Democratico, con organizzazioni di base dei palestinesi dei campi di Beirut, con l’ambasciatore italiano in Libano De Michelis. Primo: portare la solidarietà e porre il problema dei diritti umani ed internazionali è già fare un’azione politica internazionale. Dico questo perché dai viaggi che faccio a mie spese, torno sempre più convinto che mentre la dimensione della politica si fa ogni giorno di più internazionale, che ti entra in casa direttamente con l’immigrazione del sud del mondo, con l’aprirsi dei conflitti in Europa, con il costituirsi del soggetto Europa di converso, assistiamo ad un ripiegarsi della politica su se stessa al proprio interno, nei particolarismi, nei localismi, negli egoismi.
Sembra che, caduta l’ideologia, sia anche caduta la capacità di pensare ed agire nella dimensione generale, ma reale dei problemi.
Oggi al nostro paese manca una politica internazionale. Manca al governo, ma manca anche al parlamento, ai partiti soprattutto alla sinistra e ai verdi. Se Rifondazione Comunista sembra pensare alla politica internazionale attraverso i rapporti di ciò che rimane del movimento comunista nel mondo, il Pds e per certi versi i Verdi sembrano scoprire il clintonismo e sconcertati non sanno scegliere tra l’Europa di Mastricht e di Schengen e il nuovo ordine mondiale, condannandosi così ad una paralisi dell’iniziativa internazionale. La Rete sembra per il momento ignorare questa dimensione dei problemi.
Ciò che voglio dire è che dopo la fine del mondo diviso in due blocchi, la ricerca e l’iniziativa per dar vita ad una politica ed a una cultura internazionale nuova, che sia fuori e alternativa ai conflitti intercapitalistici, che sappia coniugare la solidarietà con le parti più escluse ed emarginate del mondo, con la nuova dimensione dei problemi ambientali, con i problemi della pace e degli assetti istituzionali democratici da dare al governo del mondo, ristagna in una sorta di pigrizia che sembra colpire un po’ tutti. Stentiamo a trovare percorsi strategici e soggetti a cui riferirci. Faccio un esempio: il nostro paese, e con questo ritorno al viaggio nel Libano ed ai palestinesi, è qui nel Mediterraneo. È in questo mare che passa la linea di demarcazione tra Europa di Mastricht e di Schengen e il sud del mondo. È in questo mare che si determina una sorta di terra di nessuno tra questi due mondi, dove si giocano i confini tra ricchezza e miseria, dove nascono i conflitti e le spaccature delle entità nazionali, come nei Balcani oggi e nell’Italia magari domani. Sulle rive di questo mare si affacciano i due mondi e l’Italia è cerniera tra questi o sviluppa una politica o è parte attiva, o da soggetto passivo rischia di essere travolta.
Quale politica perciò per questa arca? È possibile prescindere dalla definizione di un rapporto col mondo arabo, con la cultura musulmana, con la religione islamica? E questo rapporto può a sua volta prescindere dalla questione palestinese? Può l’Italia rimanere appiattita sui semplici interessi di Israele, a sua volta ridotta e immiserita nell’ambito del nuovo ordine mondiale ad essere presidio militare dell’occidente in mondo arabo?
La conferenza di pace, anche se mi auguro possa dare qualche risultato positivo, non risolverà il grosso dei problemi dei palestinesi e quindi dell’area.
Nel solo Libano ci sono 400.000 palestinesi, senza diritti di nessun genere, primo tra tutti quello del lavoro, che peseranno sul futuro di questo paese. Per dirla con l’ambasciatore italiano a Beirut, c’è l’urgenza per il nostro paese, che con il Libano ha un commercio di 800 milioni di dollari all’anno, di intervenire nella politica di questo paese e nel suo processo di formazione istituzionale, ponendo con forza la questione appunto la questione del riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi.
Questo sarebbe già qualcosa che interrompe l’immobilismo della politica internazionale e potrebbe essere il parlamento stesso ad attivarsi in tal senso chiedendo incontri con i Palestinesi, l’ambasciatore italiano a Beirut e il nuovo ministro degli esteri. Non dimentichiamo la questione palestinese, col passare degli anni delle umiliazioni subite e dei massacri è diventata via via, questione del mondo arabo e poi questione dell’ISLAM.
Si può pensare di fermare il fondamentalismo islamico con la repressione? Si può pensare alla costa sud del Mediterraneo come ad un presidio militare (sul modello algerino) teso ad impedire al fondamentalismo di affermarsi con le elezioni democratiche? Possiamo pensare che l’unico modo per impedire le azioni disperate ovunque sia quello di decapitare un’idea. un popolo, una cultura, dei propri intellettuali deportandoli in zone deserte?
Questi problemi che stanno nell’ordine della foce nel Mediterraneo, danno corpo anche alla possibilità di progettare un nuovo soggetto: il Mediterraneo solidale. Da far confliggere pacificamente e dialetticamente con questa aberrazione pure in difficoltà che è l’Europa Fortezza di Mastricht.
Un’idea questa del Mediterraneo, non nuova per la verità, lasciata cadere, che io trovo però più che mai d’attualità con ciò che succede oggi nel bacino di questo mare e congeniale all’impianto del pensiero verde. Dentro a questa idea di Mediterraneo Solidale e Pacifico c’è lo spazio, anzi è un tutt’uno con i problemi di vita biologica di questo mare e delle sue coste. Ci sono i contenuti e i terreni di battaglie comuni. Dai problemi delle petroliere. dei fiumi che si immettono ecc. Un modo per arrivare al mondo che sta nell’altra sponda che depotenzia i conflitti razziali e religiosi per sviluppare altri assieme contro gli interessi distruttivi.
C’è infine un altro aspetto sul quale vorrei riflettere, un interrogativo: chi sono per noi ambientalisti e forse per l’intera sinistra, i soggetti a cui far riferimento? Mi convinco sempre più che non possono che essere che quei profili esclusi dal nuovo ordine mondiale.
Quelli che anche all’interno dello stesso mondo della miseria non hanno nemmeno una terra ed una collocazione.
Sposando queste cause forse possiamo comunicare in questo nuovo mondo, cominciare a ricostruire una nuova politica internazionale, nuove iniziative con cui dare impulso al vivere di un soggetto politico, ambientalista, pacifista, solidale che sia sul serio transnazionale. Ma per far ciò, mi sembra si debba ribaltare un “pochettino” la cultura che sembra dominare oggi sia la Sinistra che i verdi, e cioè che si debba stare sempre con la maggioranza, con i Vincitori, col senso comune dominante. per dirla con una vecchia canzone, dobbiamo piantarla con “L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto….”