in Contropiano Anno 1 n° 2 – 30 giugno 1993
L’operazione “Restore Hope” in Somalia appare emblematica del modello interventista sul piano militare e neocoloniale su quello economico con cui verranno gestite le relazioni tra il ristretto club delle potenze dell’area capitalista sviluppata e il terzo mondo. È indubbiamente un ritorno al passato che, volenti o nolenti, era stato superato nell’epoca del bipolarismo Est/Ovest, delle lotte anticoloniali e dello sviluppo del Movimento dei Non Allineati.
La divisione in aree di influenza non poteva non riattivare una nuova fase di spartizione neocoloniale del mondo, delle sue aree più ricche di risorse e di quelle in cui esistono punti strategici (porti, sbocchi al mare). In questo quadro appare evidente che Panama non avrebbe mai riottenuto la sua sovranità sul canale. Allo stesso modo, il Corno d’Africa resta un’arca strategica di primaria importanza per gli interessi delle potenze occidentali. Il controllo della rotta del petrolio nel sud del Mar Rosso (attraverso i porti di Gibuti, Berbera, Massua) è un obiettivo a cui le nuove e vecchie potenze coloniali non intendono rinunciare. La Francia già controlla Gibuti (tenendovi anche un contingente militare e unità navali); gli Stati Uniti avevano il controllo di Berbera grazie agli accordi con Siad Barre; il nuovo governo eritreo ha garantito l’uso internazionale di Massaua e lo sbocco al mare anche al nuovo governo etiopico alleato degli Stati Uniti.
Al ruolo strategico del Corno d’Africa si sono aggiunte le verifiche positive delle perforazioni petrolifere e di gas effettuate sul territorio della Somalia. Quattro compagnie petrolifere americane (CONOCO, AMOCO, Phillips, Chevron), una francese (ELF) e una italiana (AGIP) avevano ottenuto prima da Siad Barre e poi dai vari dirigenti emersi dopo la cacciata dei tiranni le concessioni per avviare l’estrazione di gas e petrolio. Infine, il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno inserito la Somalia nella lista dei paesi “a rischio” nel quadro della nuova crociata avviata contro l’instabilità.
La penetrazione del movimento islamico nel Corno d’Africa ha destato l’allarme dell’amministrazione USA.
Alla luce di questi fatti, la Somalia ha cambiato posizione nella gerarchia dei paesi strategici e delle priorità da tenere assolutamente “sotto controllo”. L’accelerazione imposta dagli Stati Uniti al resto del mondo capitalista per intervenire in Somalia ha costretto le altre potenze ad impegnarsi per non rimanere fuori dalla spartizione del Corno d’Africa e per impedire lo sviluppo di dinamiche non coincidenti con gli interessi strategici occidentali.
L’ONU si rivela sempre più come copertura e cassa di compensazione tra le esigenze di supremazia degli USA e le esigenze di controllo delle aree strategiche comune a tutte le potenze occidentali.
Il carattere strettamente militare dell’operazione “Restore Hope” era chiaro ancora prima che i contingenti militari stranieri sbarcassero in Somalia. Il 30 novembre ’92 Boutros Ghali ha affermato testualmente: “Non c’è alternativa, solo un’operazione militare sotto il controllo dell’ONU può salvare la Somalia”, ma l’aspetto militare è smaccatamente nelle mani del comando statunitense, come del resto imposto da Bush prima di inviare i marines a Mogadiscio. L’obiettivo non dichiarato dell’occupazione militare della Somalia è quello di porla sotto una sorta di protettorato occidentale che esproprii leaders locali o, al massimo, li sostituisca con qualche “quisling locale”, come denuncia Mohamed Aden Sheikli (Liberazione, 18 dicembre ’92).
Secondo il “Washington Post”, esiste già un piano preciso per porre la Somalia sotto protettorato internazionale temporaneo. L’amministrazione USA smentirà l’esistenza di questo piano, ma è una “smentita che comunque non convince”, commenta il Corriere della Sera del 31 dicembre.
La rivelazione del “Washington Post” coincide con il punto di vista di altri osservatori.
Il polverone umanitario che circonda l’occupazione militare della Somalia non impedisce a coloro che appoggiano questa operazione di dichiarare apertamente i loro obiettivi. “Per gentilezza d’animo si parla di intervento umanitario, ma in realtà è una occupazione militar-coloniale, un regime di tutela, protettorato e mandato fiduciario che la comunità internazionale assume in modo solidale”, ammette Alessandro Corneli (Sole 24 Ore, 3 dicembre ’92).
CREDITS
Immagine in evidenza: Restore Hope. Posto di blocco dei Marines a Mogadiscio
Autore: PH1 (AW) JOSEPH DOREY, 20 December 1992
Licenza: public domain
Immagine originale ridimensionata e ritagliata