in Contropiano Anno 1 n° 2 – 30 giugno 1993
L’operazione “Restore Hope”, avviata nel dicembre 1992 dai governi delle maggiori potenze occidentali in Somalia, sta rivelando il suo volto più brutale. Massacri, caccia all’uomo, bombardamenti, rastrellamenti caratterizzano ormai una missione che sin dall’inizio era difficile accettare come “umanitaria”.
Prima che i contingenti militari americano, francese, italiano, belga, pakistano cominciassero a operare, come era facilmente prevedibile, non erano mancate ambiguità e complicità anche nelle forze della sinistra (vedi il PDS) o in quel movimento pacifista che pure si era battuto contro la guerra del Golfo.
La trappola della “ingerenza umanitaria” aveva già funzionato nel 1991 con l’enclave per i curdi nel territorio iracheno e poi in Jugoslavia. Chi non aveva compreso allora il pericolo di questo nuovo modello di interventismo militare non ha saputo neanche intuire per tempo il vero significato dell’operazione “Restore Hope” in Somalia. La Somalia sarà un nuovo Vietnam? Il paragone sembrerà un po’ azzardato. Ma il rischio di una situazione di guerriglia e ribellione di massa a difesa della sovranità nazionale della Somalia contro la presenza militare e neocoloniale straniera sta ormai dentro la realtà dei fatti, ed esse sarà necessario garantire sostegno politico, diplomatico e materiale.
Anche in questa occasione, a sinistra e nel movimento pacifista, qualcuno ha storto il naso. Il leader della Alleanza Nazionale Somala, Aidid, è, come Saddam Hussein, Gheddafi, Milosevic, Noriega, il nuovo “nemico” degli interessi statunitensi e occidentali in Somalia, ma non è certo un interlocutore ideale per la “sinistra europea”. Del resto, dopo la crisi del Movimento dei Non Allineati – parallela alla fine del bipolarismo Est/Ovest – i nuovi leader che emergono dal Terzo Mondo sono assai diversi da quelli del ciclo di lotte anticoloniali ed antimperialiste dei decenni scorsi (da Ho Chi Minh ad Agostino Neto, da Lumumba ai barbudos cubani). La sinistra ha già dimostrato di non sapersi relazionare con questa nuova realtà. Dalla guerra delle Malvine all’invasione di Panama, dai bombardamenti sulla Libia alla disgregazione della Jugoslavia, c’è stata una incapacità politica di comprendere il significato oggettivo degli avvenimenti e di prendere un’iniziativa politica e di massa conseguente sul terreno antimperialista.
Purtroppo e per fortuna, la Somalia (come la Jugoslavia) rappresenterà un test decisivo per verificare la capacità di una nuova sinistra internazionalista di dimostrarsi adeguata alla nuova realtà. In primo luogo, perché l’Italia è direttamente e pesantemente coinvolta sul piano politico, militare ed economico; l’imperialismo italiano pone nuovi e serissimi problemi sia all’interno della nostra società sia nella mobilitazione tesa ad impedire le conseguenze del ruolo imperialista dell’Italia. In secondo luogo, perché occorre liberare al più presto la sinistra e il movimento “per la pace” dai residui dell’egemonia eurocentrista e pacifista che ha imperversato dagli anni ’80 in poi (l’equidistanza, la nonviolenza come valore assoluto, il modello occidentale come modello universale, la pace come questione sovrastrutturale).
La richiesta del ritiro immediato del contingente militare italiano dalla Somalia e la condanna dell’operazione “Restore Hope” sono due discriminanti sulle quali non si possono più accettare distinguo o ambiguità. Il ruolo dell’ONU e delle operazioni “umanitarie” sono ormai talmente evidenti che i bizantinismi e gli “auspici” a cui abbiamo assistito in questi anni appaiono inservibili al movimento per la pace e inaccettabili per una mobilitazione conseguente.
In questo senso, la Somalia ci auguriamo che sia un Vietnam un po’ per tutti: per i militari e i governi occidentali innanzitutto ma anche per quella cultura neoriformista che ha permesso alle classi dominanti in Italia di realizzare il processo di normalizzazione interna propedeutico al nuovo ruolo imperialista dell’Italia.