da Le ragioni dei comunisti oggi. Tra passato e futuro. Un contributo al dibattito
Va detto che in questi anni di “transizione” stiamo vivendo un paradosso storico.
La crisi del socialismo reale, il crollo, inaspettato per tutti ed anche per l’occidente, del partito comunista dell’URSS sembravano aver sancito la superiorità del sistema capitalista. Questo infatti negli ultimi 10/15 anni aveva saputo gestire e pianificare il proprio sviluppo e nel contempo tenere testa allo scontro con le forze rivoluzionarie nel mondo ed al confronto nucleare con l’Unione Sovietica, fino a determinarne la scomparsa.
In realtà passata l’euforia cominciano ad emergere i segni di una crisi tanto profonda quanto inattesa.
La crisi monetaria europea, la competizione economica feroce, la disoccupazione strutturale, una serie di tendenze economico/sociali, il riemergere della Germania, del Giappone e degli Stati Uniti come i poli di una nuova contraddizione economica internazionale riportano a nuova vita una serie di analisi e di punti di vista che sembravano ormai superati storicamente.
In altre parole si ripropone il problema, e non solo per la sinistra di classe ma per gli esponenti stessi della borghesia, della natura del capitalismo e delle sue contraddizioni.
Il rischio di una vittoria di Pirro in termini storici comincia ad emergere, magari solo come ipotesi, con chiarezza quando la crisi attuale dimostra che la ritrovata irrazionalità dello sviluppo, la tendenza alla guerra, la ripresa dello scontro di classe anche nei paesi avanzati fanno parte dei dati costitutivi del capitalismo.
Vincere sul comunismo per poi ritrovarsi tutte le contraddizioni che hanno generato il comunismo stesso è evidentemente un problema non da poco.
E’ indubbio che gli elementi che stanno emergendo in questi ultimi anni sono sicuramente nuovi rispetto al quadro dell’ultimo cinquantennio dopo il 1945 e la seconda guerra mondiale, ma ci rimandano anche alle analisi fatte dai classici del marxismo a cominciare da Lenin.
Questa miscela di “vecchio” e “nuovo” diviene perciò un terreno fondamentale di ricerca, di analisi e di definizione di un aggiornato impianto teorico fondamentale per chi crede ancora nella transitorietà storica del capitalismo e nella trasformazione sociale.
DAL DOPOGUERRA AGLI ANNI ‘80
Non si può né capire né collocare in uno sviluppo l’attuale fase economica se non si definisce l’iter storico degli ultimi 50 anni.
Evidentemente qui non si tratta di fare una analisi storico economica dettagliata ma di sistematizzare ed interpretare le fasi che hanno portato alla situazione attuale – cioè di collocare gli attuali problemi economici in uno sviluppo storico.
La fine della seconda guerra mondiale ha segnato anche la fine della crisi del sistema capitalistico che aveva caratterizzato gli anni che vanno dal ‘ 15 al ‘45.
La ripresa economica durata tutti gli anni ‘50 e 60 ha ridato fiato all’occidente ed all’imperialismo soprattutto USA. Quello è stato forse l’unico periodo in cui il mondo capitalista è stato unipolare.
Gli Stati Uniti hanno infatti trascinato tutta l’economia occidentale dalla Germania, all’Europa, al Giappone.
I grandi monopoli USA hanno esteso il controllo in tutto il mondo sostituendo il vecchio imperialismo inglese e francese e ricavando quantità enormi di profitto che hanno moltiplicato il loro potere in modo impressionante.
E’ inutile qui ricordare gli eventi politici e militari di quegli anni in Europa e nel Terzo Mondo.
Va detto anche che i monopoli hanno dimostrato una grande capacità di pianificazione dello sviluppo economico e di gestione politica che ha messo in secondo piano l’irrazionalità dello sviluppo dell’economia capitalista, almeno in questa fase storica, capacità nuova che è stata peraltro sottovalutata dai paesi socialisti e dal movimento rivoluzionario in generale.
Il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, il GATT, le politiche sociali, l’uso dello stato americano integrato negli obiettivi economici, politici e militari dai centri finanziari, sono stati gli strumenti utilizzati per gestire la crescita economica determinando una totale egemonia americana nel campo occidentale e fronteggiando i paesi socialisti ed i movimenti rivoluzionari nel mondo.
A sostegno di quanto scritto può essere ricordato che in quegli anni, nel settore manifatturiero, gli Stati Uniti hanno prodotto più di Germania e Giappone messi assieme, sono stati fatti accordi ( Bretton Woods) che hanno stabilito di fare riferimento per gli scambi al dollaro, divenuto così l’unica moneta per il commercio mondiale (Tabelle Al A2 A3).
TABELLA A1
Ripartizione per aree della produzione manifatturistica mondiale. 1960/1971 (percentuali)
Anno | Europa occ | America sett. | Giappone | Paesi socialisti | Paesi in via di sviluppo |
1960 | 31.6 | 37.8 | 3.9 | 18,1 | 6.9 |
1965 | 30.1 | 36.9 | 4.8 | 19.6 | 6.9 |
1970 | 29.8 | 30.7 | 7.8 | 22.6 | 7.3 |
1975 | 27.8 | 27.0 | 7.1 | 27,7 | 8.6 |
Fonte: Unido.
TABELLA A2
Da “L’evoluzione del sistema monetario internazionale” pag. 105 di B. Tew
Gli articoli dell’accordo che istituì il Fmi […] prevedevano la possibilità che un paese mutasse il rapporto di parità della propria valuta nei confronti delle altre quando la bilancia dei pagamenti avesse evidenziato sintomi di sostanziale disequilibrio. I tassi di parità venivano dunque modificati solo saltuariamente generalmente al termine di un periodo di costante squilibrio dei conti con l’estero. Era inoltre convinzione diffusa che, a causa dell’importanza assunta dagli Stati Uniti nell’ambito del commercio mondiale e del ruolo del dollaro come strumento di pagamento a livello internazionale, gli Stati Uniti non avrebbero modificato il proprio tasso di parità nei confronti delle altre monete. In ogni caso, poiché la maggior parte dei paesi procedeva sul mercato dei cambi alla fissazione del tasso di cambio della propria valuta nei confronti del dollaro, gli Stati Uniti non potevano essere sicuri del fatto che ad una variazione del prezzo dell’oro facesse riscontro una variazione corrispondente del valore del dollaro in termini di altre valute.
Rapporto dell’Us Council of Economie Advisers, gennaio 1973
TABELLA A3
Investimenti all’estero e relativi redditi nel periodo 1950-1963(milioni di dollari).
Investimento netto diretto | Redditi dell’investimento diretto (in entrata) | |
1950 | 621 | 1.294 |
1951 | 528 | 1.492 |
1952 | 850 | 1.419 |
1953 | 722 | 1.442 |
1954 | 664 | 1.725 |
1955 | 779 | 1.975 |
1956 | 1.859 | 2.120 |
1957 | 2.058 | 2.313 |
1958 | 1.094 | 2.198 |
1959 | 1.372 | 2.206 |
1960 | 1.694 | 2.355 |
1961 | 1.599 | 2.768 |
1962 | 1.654 | 3.050 |
1963 | 1.888 | 3.059 |
Totale | 17.382 | 29.416 |
Il punto di rottura di questo “stato di grazia” per gli USA avviene a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70; in quel periodo maturano gli elementi che mettono in crisi la sua egemonia nel mondo. Sostanzialmente questi elementi sono di due tipi, il primo interno ai paesi occidentali, il secondo in relazione alla crescita del potenziale militare dell’URSS e dei movimenti rivoluzionari nel Terzo Mondo.
Gli anni ‘70 sono stati anni di ripresa e rafforzamento, anche in occidente, del movimento operaio, anzi, in alcuni momenti è sembrato anche che fossero anni rivoluzionari. In realtà quel movimento operaio, soprattutto europeo, cresceva in un contesto storico completamente diverso da quello della prima e della seconda guerra mondiale. Mentre il primo era il risultato di crisi sociali tragiche che avrebbero prodotto fame e guerre, la ripresa di lotta degli anni ‘70 avveniva in un contesto di pace sostanziale e di sviluppo.
Infatti è difficile oggi, retrospettivamente, sostenere che gli anni ‘70 non fossero anni di sviluppo e di promozione sociale per settori consistenti anche di lavoratori nei vari paesi occidentali. Basti pensare alla capacità di recupero dimostrato dal potere politico ed economico nei confronti dei movimenti di opposizione in quel periodo. La storia del PCI di quegli anni ne è una chiaro conferma.
La crescita del mercato mondiale vedeva di nuovo la Germania ed il Giappone, divenuti addirittura creditori nei confronti degli USA, alla testa di una ripresa economica assieme a molti altri paesi europei. La frattura che c’è stata all’interno del sistema capitalista all’inizio degli anni ‘70 è stata la rottura dell’egemonia economica degli Stati Uniti.
La fine del cambio fisso del dollaro nel ‘71 sancisce di fatto il diminuito peso dell’economia americana in termini assoluti nel mondo ed, in prospettiva, anche la fine dell’egemonia politica e militare (Tabelle B1 B2 B3).
TABELLA B1
Alcuni dati comparati del mondo occidentale
TABELLA B2
Da “L’evoluzione del sistema monetario internazionale” pag. 175 di B. Tew
Dal momento che il maggior paese in deficit, gli Stati Uniti, non poteva modificare il proprio tasso di parità senza mettere seriamente in pericolo il funzionamento del sistema monetario internazionale, e dato che i maggiori paesi in surplus si mostravano riluttanti ad aggiustare il tasso di cambio delle proprie monete, lo stato di squilibrio del sistema dei pagamenti internazionali si aggravò progressivamente nel corso della seconda metà degli anni ’60 fino ad arrivare ad un punto di rottura a metà del 1971,.^ quell’epoca il disequilibrio divenne cosi ampio da indurre un’on- .data di pressioni speculative che portarono alla conversione di miliardi di dollari in altre valute nel giro di pochi giorni, Questi flussi valutari ebbero l’effetto di incrementare notevolmente il volume delle passività degli Stati Uniti nei confronti di autorità monetarie straniere, diminuendo nel contempo le riserve ufficiali statunitensi. Si manifestò cosi in tutta la sua rilevanza un problema che era venuto maturando nel corso degli anni ’60: come mantenere il regime di convertibilità stante il continuo aumento dello stock di dollari detenuti da istituzioni ufficiali straniere e la continua diminuzione delle riserve ufficiali (specialmente oro) degli Stati Uniti.
Report of the Council of Economie Advisers gennaio 1973
USA: Tassi annuali medi di crescita del PIL
Da qui la crisi degli anni ‘70 che ha visto ravviarsi di processi di ristrutturazione causati da un lato dalla politica americana della svalutazione del dollaro, finalizzata a sostenere la competitività delle merci degli USA, e dall’altro dalla crisi del petrolio che provocò gravi difficoltà alle economie antagonistiche dell’Europa e del Giappone.
Questa conflittualità attuala attraverso guerre monetarie e commerciali si è protratta fino agli anni ‘80 quando la politica Reaganiana ha impresso una nuova svolta alla situazione.
L’altro elemento di crisi generale, particolarmente pericoloso per gli USA, è stato lo sviluppo del movimento rivoluzionario nel Terzo Mondo, che in quella fase aveva sostituito come peso politico lo scontro di classe e sociale all’interno dei paesi sviluppati, cd il rapporto tra questi e l’Unione Sovietica.
Da Cuba al Vietnam all’Africa fino al Nicaragua e all’Iran stava entrando in crisi il controllo politico e militare degli USA nelle aree strategiche considerate fino ad allora alla stregua di riserve di caccia e di sfruttamento.
Non erano state messe in discussione ancora né l’America Latina, dove le guerriglie furono di fatto sconfitte già negli anni ‘60, né c’erano state serie difficoltà in regioni controllate dagli USA.
Certo è che se allo scontro con i movimenti rivoluzionari si fossero aggiunte le contraddizioni economiche crescenti con i paesi sviluppati, le difficoltà degli Stati Uniti erano destinate ad aumentare fino a mettere in crisi il ruolo egemonico di quel paese.
Il punto di modifica qualitativa con il trentennio precedente è stata invece la svolta Reaganiana degli anni ‘80. una svolta reazionaria nel senso più classico che purtroppo non solo ha saputo fare i conti con le contraddizioni all’interno del campo occidentale in quella fase, ma ha ottenuto i risultati inaspettati che tutti ben conosciamo.
I motivi del salto di qualità sono stati essenzialmente economici in quanto la pressione dei concorrenti europei e giapponesi, da una parte, ed i movimenti di liberazione, e dunque la crisi sul controllo delle materie prime avevano messo gli USA con le spalle al muro. Ricordiamo ancora bene i continui fallimenti della presidenza Carter.
La svolta Reaganiana non è stata solo militarista ed autoritaria ma è stata anche “progressiva” in quanto si è posta di nuovo come punto trainante dello sviluppo economico, scientifico etc. come era stato negli anni ‘50 e 60.
In realtà questa funzione “progressiva” non aveva però più gli spazi di crescita “naturali” del capitalismo che erano stati coperti nel trentennio precedente.
Ovvero una tale funzione era possibile solo ricorrendo a “stimoli economici” che non potevano più essere quelli interni determinati dalla ricostruzione del dopoguerra e dall’allargamento del mercato ai punti sviluppati del capitalismo.
Lo stimolo esterno introdotto negli anni ‘80 è stato quello della privatizzazione, dello smantellamento del Welfare State, dell’indebitamento del bilancio pubblico ed infine delle spese militari.
Il passaggio seguente è stato quello dell’eliminazione delle risorse dedicate all’uso sociale per indirizzarle verso i processi di valorizzazione del capitale.
E’stata quindi avviata una fase di deregolamentazione del mondo del lavoro: licenziamenti, lavori precari e dequalificati, fine delle tutele sociali ecc.
Anche la politica del debito estero verso il Terzo Mondo ha avuto come obiettivo l’accentuazione del trasferimento delle risorse verso il centro per potenziare i processi economici, produttivi e finanziari programmati.
Dunque una prima questione è stata quella di fare i conti con uno stato sociale e con rapporti frutto di un equilibrio di classe ormai superato ed ingombrante, rispetto alle necessità che si andavano determinando.
Dopodiché lo sviluppo è stato stimolato con una politica del bilancio pubblico che ha fatto divenire gli USA la famosa “locomotiva” dell’economia intemazionale ed il paese con il maggior debito estero.
Ovvero tutto il mondo di fatto esportava negli Stati Uniti dove la domanda veniva gonfiata enormemente attraverso vari strumenti.
Ad esempio la detassazione per i ceti medio/alti, il sostegno alla ricerca tecnologica per aumentare la produttività e dunque la competitività dell’industria americana, l’enorme sforzo bellico preparato con la ormai acclarata truffa delle guerre stellari, gli alti tassi di interesse per il risparmio privato (Tabelle CI C2 C3).
TABELLA C1
Saldi delle bilance commerciali e correnti di Stati Uniti, Germania e Giappone (miliardi di dollari)
TABELLA C2
Saldo corrente, domanda relativa e tasso di cambio reale dei tre principali paesi industriali
TABELLA C3
Saldi di bilancia dei pagamenti di parte corrente di alcuni paesi, 1978-1986 (miliardi di dollari)
Ovviamente per questa politica “Keynesiana” di segno opposto non è stato sufficiente eliminare le spese per lo stato sociale ed abbassare ferocemente il costo del lavoro ma è stato necessario anche indebitare in modo apparentemente irreversibile, almeno fino ad oggi, lo stato americano.
Inoltre va considerato che ad aumentare il ruolo degli USA era anche l’enorme massa di capitale finanziario speculativo attratto dai tassi di interesse.
Va detto anche che tale massa era la prova che le risorse finanziarie enormi che si erano accumulate non trovavano più sbocco nell’economia reale, cioè nella possibilità di realizzare profitti adeguati agli investimenti nella produzione di merci.
La “bolla finanziaria” che si determinò da questa condizione fu così grande che la sua esplosione causò il crollo di Wall Street dell’87, crollo che a molti apparve come una ripetizione della crisi del ’29.
Questa politica, aggressiva da tutti i punti di vista, ha ottenuto il risultato di eludere la crisi degli anni ‘70 riportando sotto l’egemonia economica, politica e militare degli USA gli altri paesi e di bloccare militarmente la crescita dei movimenti di liberazione ed addirittura di contribuire in maniera determinante alla crisi dei paesi dell’EST e dell’URSS.
Questa sintetica ricostruzione ed interpretazione delle fasi economiche che vanno da gli anni ‘50 fino agli anni ‘80 non vuole essere una inutile ricostruzione scolastica. Non esiste un capitalismo teorico che prescinda dalle condizioni date oggettivamente.
Il capitalismo è una formazione sociale collocata in uno sviluppo storico che va analizzata e valutata nella sua dinamica e contesto reale.
Allora capire se esistono spazi per una alternativa a questa formazione sociale è possibile solo attraverso l’individuazione della fase e delle condizioni che questa formazione vive concretamente.
Limitarsi a dire che l’imperialismo è l’attuale fase di sviluppo ed è la fase suprema del capitalismo e magari soffermarsi sulla caduta tendenziale del saggio di profitto non ci aiuta a mettere in relazione le ipotesi teoriche con la pratica politica.
Dunque collocare l’attuale situazione in uno sviluppo, che va compreso, analizzato e verificato nel dibattito, è fondamentale per capire le contraddizioni attuali, le forze che si svilupperanno, i tempi di questo sviluppo, le possibilità organizzative reali, e dunque le possibilità di esistere per una politica di classe e comunista.
LA SITUAZIONE ATTUALE
A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 abbiamo assistito a quello che è stato definito il crollo del muro, ovvero la crisi che ha travolto i paesi socialisti e dopo di loro quasi tutti i punti di resistenza nel Terzo Mondo; per non parlare ovviamente della trasformazione che hanno avuto i comunisti e la sinistra nell’occidente sviluppato.
Anni di controrivoluzione che ancora continua, storicamente tragici, un buco nero in cui sono stati risucchiati in tempi incredibilmente brevi 70 anni di storia, e che hanno permesso di dire che il capitalismo è l’unica società possibile, ed eterna, per cui è inutile che gli sfruttati vadano oltre certi limili perché qualsiasi alternativa è un vicolo cieco.
Passati gli anni della sbornia e dell’enfasi e tornati a fare i conti con la realtà concreta le borghesie e i grandi centri finanziari stanno trovando delle amare sorprese. Infatti la situazione è ben lontana da qualsiasi ipotesi di pacificazione sociale e di pace intemazionale.
I dati sono sotto gli occhi di tutti; una disoccupazione che aumenta e che si svela sempre più strutturale e non congiunturale, una competizione economica tra i paesi sviluppati sempre più accesa e feroce, gli stati nazionali indeboliti dopo le politiche degli anni ’80, una tendenza alla speculazione sempre più accentuata, la guerra come possibilità concreta di risoluzione dei conflitti di interesse (per ora solo nella periferia dello sviluppo); molti altri e quasi tutti negativi sono i dati che emergono dopo la “vittoria” degli anni ’89/91.
E’ necessario dunque analizzare e capire questa situazione, individuare le cause che hanno portato a questo punto e ritrovare così le motivazioni profonde della necessità della trasformazione sociale.
Il primo dato che va compreso è quello del livello dello sviluppo storico del capitalismo. La crisi del socialismo dà sicuramente nuovi margini di manovra e possibilità di sviluppo al capitalismo ma questo avviene dopo 50 anni di crescita, seppure contraddittoria, dell’economia capitalista.
Questo significa che comunque l’occidente dovrà fare i conti con uno sviluppo maturo e con tutto quello che ne consegue.
I segni della crisi, come abbiamo già scritto, risalgono agli anni ’70, da allora l’oligarchia che governa il mondo ha dimostrato una enorme capacità ed altrettanti enormi mezzi di intervento.
Lo sviluppo indotto dal deficit pubblico degli anni ’80 ha permesso di superare una fase critica in modo brillante ma i problemi apparentemente superati oggi si ripropongono in pieno.
In sostanza quello che è all’ordine del giorno è la contraddizione tra lo sviluppo enorme delle forze produttive ed i fini della produzione determinati dagli interessi privati.
L’ACCUMULAZIONE FLESSIBILE
Il “boom” economico degli anni 1945-1973 è legato ad una organizzazione del lavoro di tipo fordista-keynesiano, che inizia sperimentalmente e non senza ostacoli nei primi decenni del secolo negli USA, affermandosi pienamente con il New Deal di Roosevelt e con la mobilitazione bellica, diffondendosi all’Europa ed al resto del mondo.
Questo modello si basa sull’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo), che aumenta la produttività attraverso la suddivisione di ogni processo di lavorazione in movimenti semplici, secondo rigorosi criteri fondati sullo studio dei tempi e dei movimenti.
Accanto al taylorismo, per la sua stessa effettiva funzionalità, si rendono però necessari un intervento statale di tipo keynesiano (grandi opere pubbliche, intervento fiscale e monetario di regolazione del mercato, mediazione sociale, ecc.), un’organizzazione sindacale di massa che elimini ogni radicalismo politico ed ogni resistenza professionale e una politica delle grandi aziende che garantisca grandi investimenti produttivi, innovazioni tecnologiche e livelli salariali tali da consentire l’ampliamento dei consumi di massa.
Questo modello, peraltro vincente per quasi un trentennio, non è privo di contraddizioni interne (diseguaglianze sociali, frustrazione delle aspettative, scarsa qualità della vita, ecc.), generatrici di conflitti. Ma il limite fondamentale del modello fordista-keynesiano risiede nella sua rigidità.
Rigidità negli immobilizzi a lungo termine e negli investimenti, che necessita di una crescita stabile dei consumi e impedisce un’adeguata flessibilità dei progetti. Rigidità del mercato del lavoro, sostenuta dal peso politico dei sindacati.
Rigidità degli impegni economici statali per lo sviluppo del Welfare State.
L’unica valvola di sfogo è rappresentata dalla politica monetaria. Questa viene gestita in maniera spregiudicata, in particolare da USA e Gran Bretagna, quando, con la saturazione dei mercati, nella seconda metà degli anni ‘60. in una fase di forte lotta di classe che travalica l’ambito salariale, inizia a montare un’ondata inflazionistica che porta al crollo dei mercati immobiliari e, a partire dal 1973, quando si coniuga con lo “shock petrolifero”, scatena una crisi mondiale che annulla gli effetti del boom postbellico.
La risposta capitalistica alla recessione del ‘73 è centrata sulla strategia dell’accumulazione flessibile, cioè sul superamento di tutti gli elementi di rigidità del modello fordista-keynesiano. (Tab. D1 – D2 – D3 – D4).
TABELLA D1
Tassi medi di crescita per i paesi capitalisti avanzati a partire dal 1820.
TABELLA D2
Tassi annuali di crescita economica in alcuni paesi capitalisti avanzati e nei paesi dell’OCSE nel periodo 1960-1985
TABELLA D3
Alcuni indici fondamentali dell’accumulazione flessibile negli USA. 1974-1987
TABELLA D4
Percentuale di occupati nei diversi settori. La struttura dell’occupazione in alcuni paesi a capitalismo avanzato nel periodo 1960-1981 mette in evidenza la crescita del settore dei servizi.
Agricoltura | 1960 | 1973 | 1981 |
Australia | 10,3 | 7,4 | 6,5 |
Canada | 13.3 | 6,5 | 5,5 |
Francia | 22,4 | 11,4 | 8,6 |
Germania occ. | 14,0 | 7,5 | 5,9 |
Giappone | 30,2 | 13,4 | 10,0 |
Gran Bretagna | 4,1 | 2,9 | 2,8 |
Italia | 32,8 | 18,3 | 13,4 |
Spagna | 42,3 | 24,3 | 18,2 |
Svezia | 13,1 | 7,1 | 5,6 |
USA | 8,3 | 4,2 | 3,5 |
OCSE | 21,7 | 12,1 | 10,0 |
Industria | |||
Australia | 39,9 | 35,5 | 30,6 |
Canada | 33,2 | 30,6 | 28,3 |
Francia | 37,8 | 39,7 | 35,2 |
Germania occ. | 48,8 | 47,5 | 44,1 |
Giappone | 28,5 | 37,2 | 35,3 |
Gran Bretagna | 48,8 | 42,6 | 36,3 |
Italia | 36,9 | 39,2 | 37,5 |
Spagna | 32,0 | 36,7 | 35,2 |
Svezia | 42,0 | 36,8 | 31,3 |
USA | 33,6 | 33,2 | 30,1 |
OCSE | 35,3 | 36.4 | 33,7 |
Servizi | |||
Australia | 49,8 | 57,1 | 62,8 |
Canada | 53,5 | 62,8 | 66,2 |
Francia | 39,8 | 48,9 | 56.2 |
Germania occ. | 37,3 | 45,0 | 49,9 |
Giappone | 41,3 | 49,3 | 54,7 |
Gran Bretagna | 47,0 | 54,5 | 60,9 |
Italia | 30,2 | 42,5 | 49,2 |
Spagna | 25,7 | 39,0 | 46,6 |
Svezia | 45,0 | 56,0 | 63,1 |
USA | 58,1 | 62,6 | 66,4 |
OCSE | 43,0 | 51,5 | 56,3 |
In questa prospettiva sono da interpretare l’autonomizzazione e la crescita dell importanza del sistema finanziario, lo sviluppo del settore dei servizi (in particolare di quelli rivolti all’impresa), la “deregulation” e le conseguenti politiche di smantellamento e privatizzazione del Welfare State, ma soprattutto la ristrutturazione produttiva che ha sostituito l’organizzazione scientifica del lavoro taylorista con l’organizzazione flessibile del lavoro toyotista: la cosiddetta “Qualità Totale”. Tracceremo qui solo uno schema sommario delle principali caratteristiche della nuova organizzazione del lavoro, ma è nostra intenzione approfondirne l’analisi ed avviare un dibattito collettivo nel prossimo futuro.
Nella composizione organica del capitale, il peso crescente del capitale costante (valore dei mezzi di produzione) a scapito del capitale variabile (valore della forza lavoro), ha determinato, con l’introduzione delle tecnologie informatiche, un salto qualitativo, consentendo la produzione per piccoli lotti di molti tipi di prodotto, in assenza di scorte, incorporando nella produzione stessa il controllo della qualità dei prodotti, eliminando i tempi morti nel processo lavorativo.
Queste nuove tecnologie richiedono tecniche professionali altrettanto flessibili, cioè una grande versatilità ed adattabilità dei lavoratori a svolgere mansioni diversificate nello spazio e nel tempo.
Il decentramento produttivo assolve due compiti: spostare la produzione in aree sottosviluppate (Silicon Valley in USA, Fiandre in Francia, Italia centro-orientale, ma anche Terzo Mondo) formando nuovi reparti di lavoratori privi di esperienze di lotta e al tempo stesso indebolendo i settori con un patrimonio consolidato di vertenze; inoltre, lo smembramento delle grosse concentrazioni operaie in una rete di piccole e medie industrie, di laboratori artigiani e aziende familiari, inibisce la combattività, l’organizzazione e la coscienza dei lavoratori, consentendo la reintroduzione di rapporti di lavoro preindustriali (paternalismo, caporalato, lavoro a domicilio ecc.) che acquisiscono una nuova funzionalità grazie al processo parallelo di centralizzazione finanziaria e direzionale. Alla stessa stregua vanno considerate le forme di lavoro “autonomo” e il sistema di appalti e subappalti.
La deregolamentazione del rapporto di lavoro, cioè l’abolizione sostanziale della contrattazione collettiva, oltre che nei casi già citati, passa anche attraverso l’adozione di assunzioni a tempo determinato, a part-time verticale (solo per determinati periodi dell’anno) e orizzontale (solo per poche ore tutti i giorni dell’anno), a contratti di formazione-lavoro.
Tutto ciò necessita del pieno controllo dell’azienda sul sindacato.
La disoccupazione strutturale rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’occupazione flessibile.
In realtà, più che la categoria (keynesiana) di “disoccupazione”, risulta valida come strumento interpretativo di questa realtà la categoria (marxiana) di un “esercito industriale di riserva”, in quanto non si tratta di un fenomeno negativo congiunturale, legato a scompensi nel mercato del lavoro, ma di un fenomeno funzionale alle esigenze del comando capitalistico sulla forza-lavoro.
La produzione just-in-time elimina i grossi stoccaggi di merci, consentendo un’accelerazione del processo di circolazione dei capitali, ma per fare ciò necessita di una sorta di stoccaggio della forza-lavoro: le periferie metropolitane sostituiscono i magazzini di merci.
In estrema sintesi, possiamo considerare il mercato del lavoro come costituito da:
- Un nucleo centrale che in cambio di alcune garanzie occupazionali, salariali, di carriera, pensionistiche e previdenziali, offre una assoluta fedeltà all’azienda, oltre che la massima flessibilità in termini di mansioni e mobilità territoriale, intensità e durata del lavoro. Questo nucleo diviene sempre più esiguo anche per effetto della tendenza al trasferimento aH’esterno anche delle funzioni di progettazione, marketing e gestione finanziaria.
- Un primo gruppo periferico, composto da lavoratori a tempo pieno, meno qualificati e sottoposti ad un’altra rotazione.
- Un secondo gruppo periferico, composto da lavoratori part-time, con contratti a tempo determinato o di formazione, ecc.
- Un’area esterna, composta da lavoratori autonomi, dipendenti di ditte appaltatrici e subappaltatrici, lavoro interinale, ecc.
- Una massa crescente di “poveri”, cioè di popolazione cronicamente emarginata dal lavoro e dal reddito, confinata nei ghetti delle metropoli e nelle campagne desertificate del Terzo Mondo.
IL MERCATO BLOCCATO
Non c’è alcun dubbio che la capacità produttiva raggiunta dall’attuale livello di sviluppo è enorme. La scienza, la tecnologia, la scolarizzazione di massa, le strutture di servizio, le potenzialità non usate di tutti questi fattori caratterizzano una fase storica dove le forze produttive potrebbero dare una risposta alle necessità primarie di tutta l’umanità.
Di fronte ad un tale sviluppo delle forze produttive per mantenere un saggio di profitto “massimo” ci sarebbe bisogno di uno sviluppo del mercato, ovvero della domanda, adeguato.
In realtà è proprio questo il punto di crisi attuale infatti il nodo è che, per come si è sviluppato il capitalismo e per i suoi meccanismi interni, oggi esiste un mercato bloccato.
Nel mondo solo una parte fortemente minoritaria dell’umanità fa parte del “mercato”. Questa parte riguarda i paesi sviluppati dell’occidente, il Giappone ed una percentuale minima (il 10%?) delle borghesie nazionali nel “Sud” e nell’Est del mondo. Sembra naturale, stando così le cose, che per allargare il mercato e la domanda basterebbe coinvolgere il resto dell’umanità.
In realtà questo è impossibile per vari motivi strutturali.
Il primo è sicuramente che il resto del mondo è, e deve rimanere, una terra di rapina per i paesi sviluppati.
Il debito estero verso il Nord, la produzione di materie prime e di merci ad alto contenuto di forza lavoro, implicano l’impossibilità di alti salari e di sviluppo sociale.
Va detto che quel 10% di mercato sviluppato nei paesi del Terzo Mondo fa parte dei ceti privilegiati, borghesie nazionali oppure settori speculativi o illegali come all’Est, che non hanno una funzione produttiva ma servono da controllo politico e sociale e da raccordo con le economie imperialiste.
Il secondo è la politica degli alti prezzi praticata dai centri monopolistici.
La grande capacità di accumulazione finanziaria dimostrata dal capitalismo ha origine dalla massa enorme di plusvalore prodotta ma anche dalla possibilità di manovrare sui prezzi in modo incontrollato.
La competizione intemazionale tra i grandi centri monopolistici, implica anche accordi continui che vengono stipulati tra le varie società per impedire guerre tra i prezzi e dunque tagli seri ai profitti.
Anche vedendo le statistiche di questi ultimi 40 anni il dato costante che emerge è quello dell’inflazione ovvero dell’aumento dei prezzi.
Le polemiche sono sempre state o sui tassi di inflazione troppo alti, come negli anni ‘70, oppure sui differenziali di inflazione tra le varie monete, come avviene oggi. Però nessuno ha mai messo in discussione il continuo ed ininterrotto aumento dei prezzi.
Questo non significa che non ci siano state guerre dei prezzi in settori specifici e competizioni accese, significa solo che in termini generali la tendenza all’aumento non è stata mai ribaltata.
E’ ovvio che una tale politica impedisca l’allargamento del mercato oltre i poli sviluppati.
C’è una controprova di questa affermazione che viene dalla localizzazione degli investimenti delle grandi società multinazionali.
Mentre nel ‘68 gli investimenti nelle aree industriali erano del 69% e del 31% nel Terzo Mondo, oggi il rapporto è dell’83% nei paesi sviluppati e dell’ 11% nel resto del mondo (L’oro e la spada – 1993 Comitato Golfo).
Questa tendenza dimostra chiaramente come il cosiddetto “mercato” sia oggi ben definito con poche possibilità di sviluppo oltre le proprie aree.
Il terzo elemento di blocco del mercato generale è la stasi che si è raggiunta all’interno del mercato stesso.
Gli anni ‘50 e ‘60 sono stati anni di sviluppo da tutti i punti di vista, le possibilità interne al mercato ed il mercato stesso si sono allargati.
Oggi quella situazione, storicamente definita, non esiste più, i margini di sviluppo interno sono sempre più ristretti.
In questi ultimi anni i profitti sono stati ricercati non nello sviluppo quantitativo del mercato ma nelle cosiddette nicchie di per se limitate.
Anzi va detto anche che tra il ‘92 ed il ‘93 sono emersi segni recessivi talmente evidenti, che stanno portando alla riduzione della base produttiva, alla riduzione della crescita del terziario, all’aumento della disoccupazione.
Se questa è la “fotografia” attuale passando al “filmato” delle dinamiche future non possiamo dire che la situazione cambi.
Il problema che oggi assilla i capitalisti è quello dello sviluppo della domanda. Storicamente in queste fasi di crisi si rende necessario l’intervento esterno, dello stato che rilancia la domanda e la sviluppa.
Questo è accaduto dopo il ‘29 sia negli USA che in Germania sebbene in modi molto diversi e con segni politici alternativi.
Oggi l’intervento esterno si presenta molto problematico nei suoi strumenti storici. Il primo è la spesa pubblica che però è oggi indebolita dal deficit pubblico accumulato negli anni ‘80 sia dagli USA che dall’Europa che dalla Germania a causa dello sforzo che sta facendo in questi ultimi anni per l’unificazione con l’Est.
Questo tipo di intervento è perciò estremamente debole e inadeguato ad affrontare la crisi attuale.
L’altro strumento storicamente usato è la guerra generale rigeneratrice delle energie capitaliste come ci ha insegnato la prima ma soprattutto la seconda guerra mondiale.
In realtà oggi anche questo strumento è in crisi perché il “nemico del comunismo” scomparso in termini statuali ed i “nemici storici” come Germania e Giappone non sono in grado, né vogliono visto che hanno guadagnato più dalla pace che dalla guerra, per ora far guerra a nessuno.
Questo non significa che avremo un’epoca di pace, tutt’altro, ci sarà invece il moltiplicarsi delle guerre periferiche utili a sostenere l’industria, vedi la guerra all’Irak e la ricostruzione del Kuwait, e per contendersi tra centri imperialisti il controllo delle aree strategiche nel mondo.
Dunque non avremo una guerra dei “cento anni” ma gli anni delle cento guerre.
In altre epoche storiche il volano decisivo della crescita economica era la capacità della società di trovare all’interno i propri meccanismi di sviluppo, cioè, in termini marxisti, la capacità di determinare la riproduzione allargata.
In un recente congresso del MIT tenuto a Boston è stato affermato che per rilanciare l’economia “sarebbe necessaria una innovazione tecnologica di portata comparabile alla costruzione della ferrovia, o alla elettrificazione o alla nascita dell”industria automobilistica. Ma non c’è in giro nulla di simile, almeno quanto a dimensioni.”(sole 24 ore 16.9.93)
Quello che è impossibile riprodurre è sostanzialmente il rapporto tra la dimensione del capitale mondiale, i mezzi tecnologici per la produzione le dimensioni potenziali dello sviluppo stesso. Cioè di fronte ai capitali disponibili da investire, il profitto derivante da uno sviluppo limitato obiettivamente e storicamente diviene cronicamente inadeguato.
Questo limite rimanda all’interno la contraddizione del mancato sviluppo generale e diviene la contraddizione tra i soggetti, che hanno un interesse privato, economico prima e poi politico e statuale.
Schematizzando i ragionamenti possiamo dire che stanno maturando gli elementi di una contraddizione profonda; da una parte lo sviluppo enorme delle forze produttive che sta facendo i conti con l’incapacità, per i limiti quantitativi del mercato mondiale, di valorizzazione del capitale impiegato.
Dall’altra uno sviluppo del capitale monetario, una sovrapproduzione di capitali, che avrà sempre più difficoltà ad avere interessi che vanno oltre i profitti del sistema produttivo, il quale, a sua volta, non utilizza appieno la propria capacità di produzione e di valorizzazione.
Infine si è determinato un limite sempre meno elastico allo sviluppo del mercato e della domanda generale.
LE CONTRADDIZIONI TRA I POLI SVILUPPATI
Un altro dato nuovo che emerge dopo l’89/91 è la riproposizione ai livelli più alti della contraddizione tra i paesi imperialisti maggiori, il dato storico dello scontro tra gli imperialismi era stato messo in secondo piano dopo la seconda guerra mondiale.
Da quel momento il problema maggiore era lo scontro con il comunismo, la classe operaia ed il proletariato internazionale.
Questo però non era solo un dato politico ma anche strutturale, infatti sia l’Europa che la Germania, ed il Giappone non erano in grado di entrare in conflitto economico con gli USA.
Questo problema però emerge già dagli anni ‘70, senza rimettere in discussione l’egemonia americana, e si trascina in modo più o meno latente per tutti gli anni 80.
Oggi questo fatto si impone di nuovo all’attenzione mondiale, tra l’altro in una maniera storicamente gravida di pericoli in quanto i soggetti che svolgono un ruolo imperialista sono gli stessi che hanno causato la prima e la seconda guerra mondiale.
Lenin ha centrato con la sua analisi la natura della contraddizione e possiamo dire che Io sforzo che dobbiamo fare oggi è quello di adeguare tale analisi alla realtà attuale.
Le questioni che abbiamo affrontato prima intendevano definire il quadro generale della situazione dei paesi capitalisti. Questo quadro che dall’esterno è caratterizzato da tendenze unitarie per tutta l’economia, visto dall’interno mostra molte altre difficoltà.
Infatti nel momento in cui la crescita mancata impedisce uno sviluppo coordinato, ed emergono i limiti strutturali, si riaffaccia l’irrazionalità del capitalismo. Ovvero il coordinamento, la cooperazione tra economie funzionano fino a quando per tutti c’è guadagno. Nel momento in cui questo dato si modifica tutti gli sforzi vengono indirizzati verso i concorrenti e la cooperazione diviene una lotta senza esclusione di colpi.Questo comportamento ha cause molto materiali che si ripropongono nella realtà attuale.
SVILUPPO INEGUALE
Come negli altri momenti storici la definizione dei poli imperialisti antagonisti ha radici nello sviluppo diverso delle economie.
Gli indici economici, dalla crescita ai profitti all’occupazione etc., dimostrano che i maggiori sistemi economici vivono ormai in aree separate con sviluppi diseguali. La crisi delle istituzioni economiche unitarie di questi ultimi 50 anni è ormai evidente.
Il Fondo monetario, il Gatt, i vertici dei G7, si dimostrano sempre più strumenti inadeguati alla nuova situazione, ed in mano agli americani, che vengono contrastati ed osteggiati in modo più o meno evidente.
Sempre più si parla del pericolo della rinascita del protezionismo nel commercio internazionale, la crisi stessa interna all’Europa del sistema monetario segna il punto di frattura tra le aree economiche .
Come le placche continentali che con il loro movimento riescono a separare le terre emerse, le aree economiche strategiche separano i vecchi schieramenti e gruppi di interessi.
Allora oggi è evidente che l’Inghilterra fa riferimento agli Stati Uniti, che la Francia rimane isolata dalla pressione congiunta degli USA e della Germania le quali hanno messo in crisi volutamente l’asse Franco/Marco, che l’Italia ancora una volta, tra bombe, crisi politiche e riequilibri dei gruppi di potere, rischia di rimanere indecisa sulle sue alleanze come nella prima e nella seconda guerra mondiale.
GLI STATI
Una retorica persistente, da destra e da sinistra, in questi ultimi anni ha cercato di parlarci di un mondo unito e pacifico che pensava solo al benessere dei suoi abitanti.
L’ONU, le istituzioni finanziarie, etc. avrebbero garantito questo processo unitario.
La realtà si sta preoccupando di smentire questa visione idilliaca e sta dimostrando la crisi degli strumenti unitari e l’impossibilità del “governo mondiale” da tutti auspicato.
I nuovi soggetti politici non sono gli strumenti multinazionali ma i vecchi stati più o meno modificati. E’ vero che scorrono ormai immensi capitali per tutto il mondo senza limiti e con libertà di speculazione, si parla di circa 3000 miliardi di dollari, ma è anche vero che attualmente il capitale non può ancora sganciarsi dalla sua base nazionale. Gli elementi che confermano questo dato sono molti.
Infatti, sebbene Io stato Keynesiano sia al suo termine, lo stato ha ancora una sua funzione con le politiche di spesa pubblica, con le politiche sociali, fiscali etc.; cioè con le politiche sulla domanda che riguardano anche la questione delle barriere doganali.
I comportamenti della Francia nel negoziato sull’agricoltura del Gatt sono una prova di quanto pesi ancora la difesa del mercato nazionale.
Indicativi sono anche gli sbarramenti “naturali” che pongono i Giapponesi verso l’ingresso delle merci straniere.
Il ruolo dello stato è ancora fondamentale rispetto al militarismo ed al colonialismo.
Dopo l’89/91 si è accesa una febbre interventista che per prima ha colpito gli Stati Uniti.
La guerra contro l’Irak, le vicende della Somalia, della Cambogia, della ex Jugoslavia, etc. hanno visto per la prima volta interventi in armi oltre che degli USA, della Francia e deH’Inghilterra, dell’Italia, della Germania e del Giappone.
Anzi si è cominciato a vedere anche una conflittualità armata, ma ancora indiretta, tra vari paesi, tra l’Italia e gli USA nella Somalia e tra la Francia e gli Usa in Africa occidentale dove in questo periodo vari sconvolgimenti politici e militari stanno rimescolando le carte.
E’ oggettivamente difficile prevedere la fine del ruolo degli stati nazionali in questo quadro.
Va rilevato anche che se gli accordi tra i vari paesi sul piano economico, politico etc. in qualche modo ancora tengono, quelli sul piano militare sono scarsi e in crisi.
Ad esempio la Nato non è stata in grado di svolgere un ruolo effettivo rispetto alla crisi Jugoslava.
Di nuovo sul piano economico esiste un ritrovato ruolo dello stato determinato dalla nuova situazione nei rapporti di forza tra le classi.
Da tempo sentiamo parlare di competizione economica tra i “sistemi paese”, ovvero ora che lo stato non è più soggetto al ruolo di mediatore tra le classi deve divenire uno strumento diretto della Borghesia e dello sviluppo capitalista.
Le risorse dello stato devono essere tutte indirizzate verso la vittoria nella competizione internazionale; la ricerca, la tecnologia, la scuola e l’università, trasporti, telecomunicazioni, privatizzazioni, opere pubbliche e molti altri settori economici sono i punti su cui stato e capitale privato si integrano strettamente. L’importanza che Clinton, nel bilancio statale, dà alla ricerca scientifica finalizzata alla produttività generale del sistema ne è una chiara dimostrazione.
E’ difficile pensare che tali investimenti possano essere finalizzati ad un generico sviluppo e non allo sviluppo di quel determinato paese e dunque di quella determinata borghesia imperialista.
Infine va detto che gli stati per come si presentano oggi, e sebbene si continui a parlare di USA, Germania e Giappone, non sono identici a quelli precedenti alla seconda guerra mondiale. Infatti una politica di integrazione regionale si sta palesando in modo chiaro.
Gli USA che costituiscono il NAFTA assieme a Canada e Messico, l’Europa che si forma comunque al di là dei progetti originari e degli accordi di Maastricht il Giappone che ha determinato con i suoi capitali la crescita economica della Corea del Sud, Taiwan, Singapore ecc., sono i segnali che mostrano attorno agli stati storici un movimento di mutazione.
Però tale movimento non modifica la natura dei paesi imperialisti ed i loro rapporti reciproci e con il resto del mondo.
Dunque i soggetti politici e statuali nel quadro internazionale stanno divenendo le nazioni/regioni che perpetuano gli stessi meccanismi, nella sostanza se non nella forma, delle nazioni che hanno caratterizzato la storia di questi duecento anni di capitalismo.
LE CONSEGUENZE SOCIALI DI QUESTO QUADRO
L’insieme dei fatti che abbiamo citato, cioè l’accumulazione flessibile, il mercato bloccato, lo sviluppo ineguale e il ruolo degli stati e degli imperialismi, sta producendo una trasformazione radicale della situazione interna ai paesi e nei rapporti internazionali. Queste sono enormi nella loro dimensione e nella qualità ma per semplificarle possiamo evidenziare alcuni filoni su cui si dislocano le conseguenze sociali di questa situazione.
La prima è quella dei processi di proletarizzazione.
Questi hanno avuto un impulso enorme a livello internazionale ed i paesi del Terzo 1ondo hanno visto sconvolta la loro struttura sociale.
La riduzione di questi paesi a produttori di materie prime, e di debitori verso l’occidente, insieme alla distruzione dell’economia di sussistenza, operata scientificamente, ha spostato centinaia di milioni di persone dalle enormi distese continentali dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina nelle metropoli del terzo mondo.
Questo inurbamento ha determinato la formazione di un proletariato vasto laddove esistevano le piccole proprietà agricole.
Ormai le metropoli più grandi non sono più nel Nord del mondo ma nel Sud.
Questo processo sta investendo anche la Cina nella quale masse di persone emigrano verso le città costiere dove cresce l’economia di mercato.
Più contraddittorio è il discorso sui paesi sviluppati e sui cosiddetti “ceti medi”. In questi decenni lo sviluppo del terziario ha permesso la crescita sempre più estesa di settori sociali intermedi, cioè non costretti alla produzione di merci.
Cioè è avvenuto che il reinvestimento dei profitti ha modificato la società nei paesi sviluppati indirizzando la forza-lavoro verso i settori non legati direttamente alla produzione ed elevando i redditi; questo è accaduto sia per rafforzare il blocco sociale egemonizzato dalla borghesia sia per dare una spinta ai consumi e far crescere la domanda.
Il consumismo non solo come atto materiale ma come cultura imposta per mantenere sempre alti i livelli di produzione.
Alcuni affermano che questa è la smentita storica al processo di proletarizzazione sostenuta da Marx.
Quello che è accaduto non è affatto una smentita perché se è vero che la classe operaia si è ridotta numericamente, (ma questo è coerente con l’analisi marxista), è anche vero che il carattere dipendente e proletario del lavoro si è esteso in maniera smisurata.
Se esaminiamo il terziario e i servizi vediamo che la grossa parte del lavoro ha subito un processo di proletarizzazione, valga l’esempio dei servizi pubblici e della pubblica Amministrazione.
Nel privato il terziario si è sviluppato soprattutto nelle qualifiche più basse.
Anche nei settori avanzati i processi di parcellizzazione e di dipendenza del lavoro arrivano addirittura fino ai settori della ricerca scientifica.
Quello che ha impedito l’affermazione e l’emergere della vera natura dei rapporti sociali attuali è stata la cosiddetta società del benessere che ha nascosto il carattere proletario del lavoro attraverso la capacità di egemonia della Borghesia attuata con lo sviluppo economico e la gestione delle ricchezze.
In questi anni abbiamo sentito teorie che affermavano, spesso in modo ideologico, la crescita dei lavoro autonomo, della piccola imprenditoria ecc.
In realtà per i livelli di monopolio raggiunti è impensabile che la formalità giuridica corrisponda anche ad una libertà effettiva dei lavoratori cosiddetti autonomi. Accanto al processo di proletarizzazione, sviluppatosi lentamente ma incessantemente, si è accentuato in questo ultimo quindicennio un processo di impoverimento generale. Questo processo è iniziato anch’esso dal Terzo Mondo con la politica di rapina del FMI.
Oggi questo è arrivato nelle aree sviluppate anche se con diverse manifestazioni.
La disoccupazione di massa nei paesi OCSE, il degrado sociale e la fine del Welfare State decisa dalla borghesia, la privatizzazione dei servizi pubblici sono i caratteri che stanno segnando la fine della società del benessere.
Va detto che queste tendenze non riguarderanno solo alcuni paesi ma tutto l’occidente e l’oriente sviluppato.
Questo dato ha innanzitutto una conseguenza sulle condizioni di vita di chi vive di lavoro dipendente ma ricade anche sulla dinamica economica generale.
Infatti i licenziamenti per le ristrutturazioni, i tagli alla spesa pubblica ed agli interventi sociali limitano il reddito e dunque le possibilità di vendita per le merci nei punti sviluppati.
Questo significa che il mercato manifesta addirittura una riduzione proprio nelle sue “roccaforti”.
Infine va detto che il consumo di energie e risorse nell’attuale guerra economica e nello sfruttamento senza limiti e pianificazione, sta portando ad una devastazione ambientale che si fa sentire in modo sempre più pesante.
Questo sfruttamento brutale a fini privati è ancora più evidente nelle aree sottosviluppate dove lo stravolgimento di equilibri naturali non trova oppositori in grado di reagire.
Questi processi che abbiamo citato cominciano a manifestarsi in modo sempre più evidente.
Se gli anni ‘80 sono stati di ristagno e di sconfitta delle lotte adesso cominciano ad emergere fatti che potrebbero portare una tendenza inversa.
Possiamo dire che su iniziativa della borghesia, può riemergere il conflitto di classe che qualcuno vorrebbe vedere morto ma che invece la forza delle cose ripropone. Questa ripresa della lotta di classe va detto che non è chiara dal punto di vista politico ed ideologico (addirittura può sfociare a destra verso il fascismo più o meno palese) né lineare nel suo sviluppo.
Questo si presenta però come un dato politico che rompe con la storia di questo ultimo decennio.
Quando ci riferiamo alla “ripresa” della lotta di classe va chiarita una questione.
In effetti, per noi, la lotta di classe non è certo scomparsa in questi decenni, anzi questa è stata il motore dello sviluppo delle più o meno recenti vicende storiche.
La rivoluzione del ‘17 ha di fatto internazionalizzato lo scontro di classe e lo ha fatto divenire anche scontro tra stati.
Il Terzo Mondo è stato in questi ultimi cinquanta anni il terreno concreto su cui si è materializzato lo scontro, mentre nei paesi maturi dal punto di vista capitalista si è avuto un assorbimento dello scontro di classe sia in termini economici che politici. E’ però indubbio che questo conflitto è stato la causa prima degli sviluppi, anche progressivi, che il capitale internazionale ha determinato.
La crisi e la fine del socialismo reale rimodificano i termini della questione creando una nuova condizione alla lotta di classe.
Questa infatti viene riproposta oggi all’interno dei paesi imperialisti in base alle esigenze economiche che abbiamo cercato di analizzare.
Dunque, assistiamo alla “ripresa” dello scontro di classe nei poli sviluppati, ma con un rapporto stretto con la situazione intemazionale che presenta il Sud e l’Est non più come parti separate ma facenti parte di una dinamica economica unitaria. Dunque il Sud e l’Est non come mondi esterni ma come periferie, dove sviluppo e sottosviluppo convivono nelle stesse aree.
IL CONFLITTO ECONOMICO
Parallelamente allo scontro nella società si sta accentuando quello tra poli capitalisti. I dati di questa conflittualità sono visibili su tutti i giornali e le pubblicazioni economiche.
La guerra contro i Giapponesi sui prodotti dell’industria vede Europa ed Americani impegnati a fondo nel ristrutturare le loro produzioni, nell’organizzare meglio le reti di vendita ecc.
La guerra più o meno segreta e più o meno militare attorno al petrolio vede gli USA utilizzare tutti gli strumenti per controllare questa fonte di energia che condiziona l’Europa, il Giappone e tutte le economie mondiali.
Gli scontri nel GATT a tutti i livelli tra le varie aree economiche che non trovano accordi sulla divisione dei mercati, oppure trovano accordi formali e precari L’esportazione vista da tutti come il toccasana per riequilibrare la bilancia commerciale, per ridare fiato alle economie nazionali e sviluppare l’occupazione.
Infine la guerra delle monete e dei capitali che sta determinando crisi internazionali, mancanza totale di ogni regola nello scambio economico e commerciale.
Quanto e come questi dati economici si intrecceranno con quelli politici e militari non è ancora dato di sapere ed a questo penserà la storia dei prossimi anni.
Comunque appare certo che la conflittualità in atto tra capitali, e noi pensiamo anche tra stati, non sembra essere un dato contingente e transitorio.
UNA SINTESI SENZA CATASTROFISMO
Analizzando i dati economici e politici, seguendo lo sviluppo degli avvenimenti dentro i singoli paesi e quelli internazionali emerge con chiarezza che l’unico strumento di comprensione del mondo moderno è quello che è stato creato da Marx e definito rispetto all’epoca dell’imperialismo da Lenin.
Sicuramente questa visione del mondo ha bisogno di aggiornamenti di analisi di motivazioni valide ma lo schema di pensiero fornisce effettivamente, con gli adeguamenti necessari, una capacità di interpretazione corretta del mondo e delle sue dinamiche reali al di fuori delle apparenze.
L’analisi che abbiamo cercato di delineare in modo organico in questa parte del documento, anche se non sostenuta con tutti i dati che sarebbero necessari, intende partire proprio da quella visione e ci sembra che colga alcuni movimenti di fondo della situazione generale.
La stagnazione del mercato, la ripresa dello scontro di classe nei poli sviluppati, le contraddizioni tra i poli imperialistici ed altri elementi ancora sono i fatti che spingono, dal nostro punto di vista, il capitalismo verso una nuova fase di crisi storica. Questo ragionamento però se vuole essere, oltre che dato strettamente teorico, anche indicazione concreta di lavoro deve tener conto dei tempi e dello sviluppo reale di queste contraddizioni.
Ovvero non possiamo associare all’analisi per quanto giusta un atteggiamento catastrofista che vede nei tempi brevi una svolta radicale della situazione.
La storia di questi ultimi anni ci fa capire quanto difficile e lungo è il cammino della rivoluzione. Cammino che può addirittura tornare sui suoi passi se non si risponde in modo corretto ai problemi che si presentano.
Dunque se vediamo queste contraddizioni nella fase attuale vediamo anche i potenti strumenti che ha il capitale internazionale per intervenire e per modificare, per quanto possibile, la situazione.
Le contromisure che è possibile mettere in atto sono ancora molto forti e capaci di rinviare i processi.
Innanzitutto se è vero che esiste un conflitto di interessi forte non è affatto vero che siamo alla rottura completa del quadro che ha segnato gli anni precedenti.
Il FMI, il GATT, il Gruppo dei 7, l’ONU, la NATO sono strumenti in crisi ed in via di ridefinizione ma permettono ancora una pianificazione, anche se sempre più limitata, dell’economia, degli scambi commerciali, della divisione internazionale del lavoro.
I conflitti economici non sono divenuti ancora conflitti aperti tra i vari blocchi ed anzi si sta operando affinché non si arrivi a questo sbocco.
La conclusione di questo processo sarà molto più determinante delle forme che si manifestano oggi nelle relazioni internazionali.
Anche i nuovi mercati ad Est, inclusa la Cina, danno delle possibilità di sviluppo ulteriori.
Le materie prime dell’ex URSS, la manodopera a basso costo dall’Europa orientale fino alla Cina, la nascita di ceti speculativi, minoritari in termini relativi nella popolazione ma che comunque allargano in assoluto i mercati di sbocco per le merci occidentali e giapponesi sono tutti elementi che permettono il rinvio delle contraddizioni.
Un altro elemento che impedisce oggi di risolvere verso un cambiamento sociale le attuali contraddizioni è la mancanza, ed il fallimento storicamente troppo vicino, di una società alternativa.
L’effetto di questo dato politico è devastante, infatti l’integralismo religioso in varie parti dei mondo, i nazionalismi, i “tribalismi” e cioè la frammentazione della forza che “oggettivamente” avrebbe interesse alla trasformazione socialista determina una situazione disperata e senza sbocco.
La crisi jugoslava e dell’ex URSS, l’accordo suicida sulla Palestina, gli scontri in Angola, Mozambico, Somalia. Cambogia ecc. hanno tutti questa motivazione di fondo.
Questo aiuta la politica coloniale e di sfruttamento dell’imperialismo che agisce così da unico referente a livello mondiale.
Anche i processi di proletarizzazione, di impoverimento, di devastazione ambientale producono una condizione generale di disagio e sofferenza estesa su scala mondiale che da sola però non è in grado di modificare alcunché.
Solo una capacità soggettivamente rivoluzionaria potrebbe partire da queste contraddizioni per innestare processi di trasformazione.
Purtroppo oggi proprio questa soggettività è in crisi, ne questa é sostituibile con ideologie umanitarie generiche, ecologiche, progressiste ecc.
Infine non va esclusa la possibilità di sviluppo tecnologico e scientifico che dia nuovi spazi alla ripresa economica.
Certo non è facile trovare uno sbocco di questo tipo per il capitale ma non dobbiamo dimenticare che gli anni ‘80 hanno in parte permesso con l’uso di massa dei computer e dell’automazione di rilanciare l’economia nei paesi sviluppati.
Non dobbiamo dimenticare nemmeno che proprio sul fronte della ricerca e della scienza si stanno indirizzando energie consistenti da parte delle maggiori imprese multinazionali e da parte degli stati.
Quella che si sta giocando oggi è proprio la partita tra la riaffermazione della natura storicamente transitoria del capitalismo e la capacità di questo di “superarsi”.
Questo potrebbe significare che, nonostante questa fase di grande disordine economico, sociale e politico, il capitale globale possa essere effettivamente in grado di divenire la base materiale di crescita di un mondo unipolare.
Invece l’altra possibilità può essere quella di demandare di nuovo il superamento delle contraddizioni interne ad uno scontro, ad una guerra, economica o militare a seconda delle condizioni obiettive, che metta di nuovo storicamente in discussione il capitalismo.
In questo senso le controtendenze citate possono solo rinviare nel tempo i nodi da affrontare.
Non è facile fare una scelta e riteniamo che è fondamentale per i comunisti sviluppare a fondo l’analisi scientifica su queste questioni.
Per quanto ci riguarda ci sembra che la seconda ipotesi, cioè quella dello scontro tra gli imperialismi, sia quella che vada presa in considerazione per orientare la nostra pratica politica anche quotidiana.
Questo lo diciamo non solo guardando i dati economici attuali ed i conflitti in corso, ma analizzando anche lo sviluppo di questi ultimi cinquanta anni.
L’egemonia americana degli anni ‘50 e ‘60, la crescita dell’Europa e del Giappone fino a rimettere in discussione il potere americano e del dollaro negli anni ‘70, il tentativo di gestione collegiale a “presidenza” americana dell’economia, fino alle attuali contraddizioni tra i punti alti dello sviluppo capitalista, fanno emergere una tendenza alle crisi economiche e militari rinviate fino ad oggi solo grazie al ricatto americano della lotta contro il comunismo ed i movimenti di liberazione del terzo mondo.
CREDITS
Immagine in evidenza: Cimitero di guerra, Colleville-sur-Mer, France
Autore: Thomas Bormans, 19 maggio 2022
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Immagine originale ridimensionata e ritagliata