Il governo Prodi continua la marcia verso Maastricht
Contropiano Anno 5 n° 4 – 15 ottobre 1997
Le scelte strategiche del governo acutizzano il processo di polarizzazione sociale in atto in tutta Europa. La crisi minacciata da Rifondazione è già rientrata. Si pone ormai seriamente il problema della rappresentanza politica
“Sarebbe veramente inopportuno che il governo cada sulla finanziaria e che debbano essere indette nuove elezioni”. Questo è quanto scriveva testualmente un recente rapporto sulla situazione italiana di una big della finanza mondiale come la Goldman Sachs. Ma la realtà, almeno per ora, sembra dissipare ogni preoccupazione per il grande capitale finanziario.
Il governo Prodi può nuovamente proseguire senza eccessivi contraccolpi la sua marcia verso una devastante stabilità economica che logora mese dopo mese la resistenza dei lavoratori e dei settori popolari. E’ un governo che si fa forte della invidiabile pace sociale assicuratagli dai sindacati e dai partiti “di sinistra” e dimostra una innegabile capacità di conquistare – per amore o per forza come nella recente e brevissima crisi – un vasto consenso intorno al suo progetto.
E’ per questo che le scelte strategiche sulle privatizzazioni, la previdenza sociale, la flessibilità del lavoro e dei salari, l’ adeguamento all’ Unione Monetaria Europea e la finanziarizzazione dell’ economia, non hanno subito nè subiranno scostamenti o rallentamenti significativi.
Prodi e il suo esecutivo avevano dichiarato che non avrebbero portato in Europa un “paese morto” ma i dati sociali – ovvero quelli sistematicamente occultati dai dati macroeconomici – indicano una realtà estremamente preoccupante che conferma le peggiori previsioni.
I morti ed i feriti lasciati sulla strada che porta a Maastricht sono numerosi e delineano sempre più una amerikanizzazione della società italiana che vede ormai una fortissima polarizzazione tra i settori sociali che guadagnano dalla finanziarizzazione dell’ economia e quelli che ne vengono travolti.
Il dibattito sui costi sociali del “risanamento economico” sviluppato intorno al welfare state e le famose indicazioni della Commissione Onofri, appare fortemente viziato.
Da un lato ci si consola della cristalizzazione della povertà in Italia che riguarda più o meno due milioni di famiglie. Si è proceduto allo scioglimento della imbarazzante Commissione per lo studio della povertà costituita nel 1984 e la si è sostituita con le rilevazioni Istat, le quali hanno emesso un consolante verdetto sul fatto che nonostante riguardi quasi sette milioni di persone….la povertà non è cresciuta.
Dall’altro la “questione povertà” viene utilizzata strumentalmente per spianare la strada ai progetti sul no profit come sostituto dello Stato sociale e gallina dalle uova d’oro per il compromesso economico ed ideologico tra capitale finanziario, Lega delle Cooperative, imprese cattoliche e segmenti di ex sinistra antagonista redenti sulla via del keynesismo.
Ma la povertà o meglio il pauperismo (come lo chiamerebbe Marx) non è un incidente di percorso della politica economica del governo, è piuttosto il costo sociale previsto ed inevitabile delle scelte strategiche adottate in questi anni di dominio neoliberista.
Il governo Prodi e gran parte della sinistra di governo nel nostro paese non si oppongono a tali scelte, anzi, le accompagnano e spendono il loro patrimonio politico per eliminare ogni conflitto possibile sulla strada dell’Euro. Lo stesso Bertinotti, stando a quanto abbiamo letto in una sua intervista sul Corriere della Sera del 20 maggio ‘97, considera ormai questi processi ineluttabili.
Siamo più poveri, ma non bisogna dirlo
La penultima Legge Finanziaria, quella dei 62.000 miliardi varata con l’appoggio di Rifondazione, avrebbe diminuito i redditi dei lavoratori in misura più consistente di altri settori sociali.
Secondo l’Istat, il reddito disponibile al netto di compensazioni nel 1997 si sarebbe ridotto in media del 2,28. Per i lavoratori dipendenti la riduzione è stata del 2,76, per i lavoratori autonomi dell’1,53. Per gli operai la riduzione sarebbe del 2,04 e per i pensionati del 2,05.
Gli aumenti dell’IVA previsti nella nuova Legge Finanziaria, non potranno che accentuare questo logoramento del reddito disponibile, mentre i tagli ai servizi eroderanno quote ancora più consistenti di salario sociale. Dunque la retorica sull’inflazione bassa appare del tutto fuori luogo.
A questi dati – che dovrebbero far riflettere seriamente molti compagni troppo indulgenti verso il governo Prodi – si accompagna una crisi finanziaria delle famiglie sempre più acuta.
Un rapporto curato da Centro Einaudi, BNL e Doxa, rivela che alla fine del ‘96, il 41% delle famiglie italiane non aveva risparmiato neanche una lira, mentre le quote di risparmio (per le quali l’Italia andava famosa) sono state messe da parte non per gli investimenti tradizionali sulla casa ( si sono infatti ridotti i mutui, i fidi bancari e l’indebitamento complessivo delle famiglie) ma per le preoccupazioni fiscali e sui trattamenti pensionistici del futuro.
Il fisco di Visco: guai ai poveri!!
In presenza di questa situazione sociale non certo “brillante” per un governo progressista, assumono un rilievo strategico le misure fiscali adottate dal Ministro delle Finanze Visco che introducono anche in Italia i criteri americani, i quali in sostanza elevano le tasse ai poveri e le riducono ai ricchi. Infatti le nuove aliquote dell’Irpef si alzano dal 10% al 19% per i redditi fino a 15 milioni e si riducono dal 51% al 46% per i redditi superiori ai 130 milioni. I redditi in mezzo ovvero i classici redditi da lavoro da 30 a 60 milioni tartassati da sempre restano condannati a pagare una aliquota che varia dal 27 al 34%.
L’altra “perla” della riorganizzazione fiscale di Visco, è la riduzione del prelievo per le imprese (la famosa Dual income tax) che passa infatti dal 53,2% al 43,2% per le società che si quoteranno in Borsa o effettueranno aumenti di capitali o distribuzione di utili.
Prosegue dunque l’operazione di sottrazione di risorse dal lavoro per consegnarle alla rendita finanziaria, lo conferma il dato secondo cui il monte salari degli ultimi quindici anni è sceso dal 48% al 41% del PIL.
Altrettanto emblematici del ruolo strategico dello strumento fiscale, sono gli aumenti delle imposte indirette (IVA soprattutto) contenuti nella Legge Finanziaria. Le migliaia di miliardi che verranno incassati dallo Stato, in teoria verranno “spalmati” su tutta la società, in pratica tramite l’aumento dei prezzi accentuano la riduzione del reddito disponibile dei settori popolari.
E’ vero che “i prezzi aumentano per tutti”, ma un conto è portare a casa un milione e mezzo al mese ed un conto portarne a casa cinque o dieci volte tanto. Inoltre, i lavoratori dipendenti non possono in alcun modo evadere o scaricare l’IV A che pagano sui beni e servizi che acquistano.
Infine, ma non per importanza, la famosa “Eurotassa” sembra che sia andata a colpire in proporzione maggiore i lavoratori dipendenti che gli “imprenditori” ed in modo particolare i lavoratori del settore pubblico e dei servizi diventati un pò i capri espiatori dei furori risanatori dei vari Ciampi, Bassanini, Visco etc.
I lavoratori dipendenti hanno pagato in media 323mila lire di Eurotassa (con un picco di 446mila lire nel Lazio dove appunto c’è una maggioranza di lavoratori pubblici), mentre gli imprenditori hanno pagato in media 296mila lire con un picco di 379.mila lire in Trentino e di 354mila in Lombardia. Per onestà occorre dire che sono state le categorie dei professionisti ad aver pagato di più, ma si tratta solo di un milione di persone in tutta Italia, mentre i lavoratori dipendenti sono circa 15 milioni. Alla faccia dell’ equità fiscale!!!
I diktat del FMI e la resistenza della società reale
Nelle ultime settimane di settembre, sui giornali sono stati riportati in grande rilievo tutti i riconoscimenti internazionali alla politica economica del governo Prodi. Dalla BundesBank all’ OCSE e al Fondo Monetario Internazionale, tutte le principali istituzioni del capitale finanziario hanno dimostrato di apprezzare il risanamento economico dell’ Italia.
Ma oltre ai complimenti sono arrivati i consueti diktat: tagliare le pensioni, smantellare lo Stato sociale, ridurre il debito pubblico per arrivare all’ appuntamento con l’ Euro. E il governo Prodi si è fatto forte di questi incitamenti per riprendere l’offensiva contro i salari, le pensioni, i servizi sociali nel quadro di quel teatrino dell’assurdo che sono le “trattative con le parti sociali”.
Non abbiamo mai nutrito alcun dubbio sul fatto che governo, Confindustria e CGIL,CISL,UIL arrivassero al consueto accordo-bidone su pensioni e stato sociale. Quella della concertazione resta una regola ferrea e fondamentale di questo esecutivo. Ed infatti chi tocca Cofferati muore!
Ma tra la gabbia di ferro della concertazione e la realtà sociale emergono divaricazioni. Diventa per questo interessante segnalare i risultati di un sondaggio condotto dall’Istituto Poster e dalla rivista Limes per conto della FIM CISL.
In questo sondaggio veniva richiesta l’ opinione su questioni rilevanti come la libertà di licenziamento per le imprese, la privatizzazione dei servizi pubblici e l’elevamento dell’età pensionabile.
C’è un vuoto di “rappresentanza politica” di classe
Appare evidente come i dati di questo sondaggio siano decisamente controcorrente rispetto agli obiettivi su cui convergono il governo Prodi, sindacati confederali e Confindustria. I soliti chierici hanno commentato questi dati come “paura del mercato” e posizioni conservatrici ancora radicate nella società italiana. Ma se osserviamo anche i dati della composizione sociale dei romani che a giugno hanno votato no alle privatizzazioni nei referendum su Acea e Centrale del Latte (su questo vedi l’articolo nelle altre pagine), emerge con chiarezza che esistono vasti settori popolari che in Italia non credono all’Euroforia dell’ Ulivo né alla vulgata neoliberista dominante, ma che non hanno né trovano più rappresentanza politica reale nel panorama esistente. Ciò è valido sia “a sinistra” che a “destra” nel senso tradizionale.
A conferma di questo segnaliamo i dati sulla partecipazione elettorale nelle elezioni locali tenutesi a giugno in molte importanti città italiane come Milano, Torino etc.
Nelle 15 città in cui si è votato, il non voto è cresciuto in media del 4,4% con punte del 9,9% nel Nordest. Nei comuni più piccoli (106) il non voto è cresciuto del 4% con punte del 7,3% anche qui nel Nordest. In quelle elezioni, sia Rifondazione che Alleanza Nazionale – al contrario di quanto diffuso sui mezzi di comunicazione – hanno perso voti in termini reali.
“Non vogliamo morire keynesiani”
La sinistra di classe non può che cominciare ad esaminare con rigore questa realtà. Se infatti la situazione politica appare penosa, la situazione sociale appare invece estremamente interessante. E’ su questa che occorre lavorare ed intervenire a fondo e con serietà se non “vogliamo morire keynesiani” come ci invitano ormai a fare Cossutta e Bertinotti. Nel prossimo futuro ci aspetta dunque “una lunga marcia” che prevederà accumulazione di forze e rapide incursioni nel campo nemico. La questione principale che riemerge con forza è l’autonomia degli interessi di classe dei lavoratori da quelli del capitale. E’ partendo da tale questione che per la sinistra di classe si riapre un fase dinamica che dovremo saper cogliere senza velleità ma con estrema lungimiranza.
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Immagine in evidenza: Old car
Autore: Tofan Teodor, 16 dicembre 2019
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