La solitudine di D’Alema, l’ascesa di Haider, il collasso di Khol….
Contropiano Anno 8 n° 1 – 15 febbraio 2000
Le classi dirigenti che hanno gestito il passaggio all’unificazione economica dell’Europa attraversano una fase di serie difficoltà. Hanno monopolizzato la politica per un decennio ma appaiono del tutto inadeguate a gestire la fase della competizione globale. La dittatura dell’economia non ha più bisogno della politica – sostiene Rudi Dornbusch – e allora che volto avrà la classe dirigente del nuovo secolo?
I fatti degli ultimi mesi ci rivelano dei processi che stanno via via liquidando le classi dirigenti che pure si erano candidate a rappresentare – meglio di altre – il passaggio a una nuova fase storica. Vedere crollare un monumento della vecchia Europa conservatrice come Kohl sotto i colpi della corruzione è senza dubbio emblematico. Ma se Atene piange Sparta non ride. In Francia già alcuni mesi fa Strauss-Kahn – il ministro socialista dell’economia – era stato costretto a dimettersi con l’accusa di corruzione. Poi è venuta fuori la questione dei fondi neri della società petrolifera ELF ai politici. Adesso impazza l’inchiesta sugli appalti nelle scuole. In Gran Bretagna le difficoltà politiche di Blair sono emerse con tutta la loro forza nonostante gli indicatori economici positivi. “Il progetto di far dipendere ogni decisione dal buon andamento dell’economia ha iniziato a mostrare i lati negativi, mettendo Blair in difficoltà” segnala il Sole 24 Ore, che pure verso il leader inglese è sempre stato incensatore e lusinghiero. In Italia, la limitatezza tattica dell’esecutivo di D’Alema si è rivelata con tutta la sua pesantezza in occasione dell’ultima crisi di governo.
Ma la crisi delle leadership oggi al comando nei principali paesi europei appare per ora senza alternative credibili. Il crollo di Kohl non annulla certo la mediocrità di Schröder; l’insipienza di Berlusconi e Fini emerge a ogni passaggio delicato; la frantumazione dei conservatori inglesi o dei gollisti francesi rivela tutta l’inadeguatezza del ceto politico esistente a gestire con efficacia gli interessi strategici dei nuovi grandi monopoli che si stanno spartendo il mondo. Questo ceto politico, in sostanza, “costa” troppo.
L’economista americano Rudi Dornbusch ha chiarito in una recente intervista a Repubblica che “la politica ormai non conta più” di fronte alle esigenze e ai ritmi della dittatura dell’economia (quella che cinque anni fa su Contropiano definimmo “Dittanomics”). Se accettiamo questa tesi come credibile, viene da sé che buona parte dell’armamentario politico utilizzato fino ad oggi diventa inservibile.
A far quadrare il cerchio è arrivata la “doccia fredda” di Haider in Austria. La sua partecipazione al governo non dimostra solo quali possano essere gli effetti collaterali dell’avventurismo europeista, ma rivela anche la relativa facilità con cui il vecchio ceto politico possa essere sostituito da uno nuovo e dai caratteri decisamente inquietanti. L’isteria con cui i paesi europei hanno reagito alle vicende austriache conferma la crisi di questo progetto e della classe dirigente che lo ha voluto e guidato fino ad ora. Per gestire il passaggio allo Stato sovranazionale europeo occorrerà operare forzature ancora più profonde di quelle operate fino ad ora.
La solitudine di D’Alema
In questi mesi avevamo ritenuto che Massimo D’Alema, divenuto primo ministro, avesse un progetto strategico e le capacità per realizzarlo. Abbiamo semplificato il tutto ritenendo che la sua alleanza con una parte dei poteri forti della finanza preludesse a una sua investitura come espressione politica degli stessi. Abbiamo denunciato la partecipazione italiana alla guerra d’aggressione contro la Jugoslavia come un salto di qualità di questa leadership dentro il processo che ha portato l’Europa a costituirsi come polo imperialista maturo. Dobbiamo ammettere che abbiamo sopravvalutato la “politica” e sottovalutato i processi strutturali in corso. Abbiamo cioè fatto nostro un vizio molto nazionale e molto “di sinistra” che ci ha fatto perdere di vista l’urgenza di indagare più a fondo le modificazioni che stanno operando nella realtà sociale.
Assumendo la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, Massimo D’Alema rivendicava a sé e alla sua politica, la direzione dei governi degli ultimi cinque anni: Dini, Prodi e infine se stesso. Rivendicava in sostanza che la politica d’urto che ha devastato socialmente il paese per portarlo nella Zona Euro è stata resa possibile dall’assunzione di responsabilità di governo da parte del maggior partito della sinistra e del suo leader. Questa rivendicazione è speculare a quella fatta dallo stesso D’Alema in sede di Congresso dei DS: la strategia del partito può solo coincidere con la politica del governo. Di fronte alla celebrazione del nulla avanzata da Veltroni, i DS non potevano che accettare questo orizzonte come l’unico definito e possibile. Il fatto che questo progetto avesse dentro la guerra contro la Jugoslavia, l’arresto di Öcalan, la flessibilità del lavoro e dei salari (come riconosciuto dal Centro Studi della Confindustria), le privatizzazioni e il boom dei profitti per i grandi monopoli, non ha destato contestazioni degne di nota.
Ma se D’Alema si dimostra vincente quando tutto sommato gioca in casa, non lo è altrettanto quando si è dovuto misurare con i passaggi strutturali della nuova fase.
Questa fase ruota intorno a due o tre feticci: globalizzazione, mercato e stabilità politica. Il resto del frasario che opinion makers ben pagati gettano nel blob quotidiano delle comunicazioni di massa è solo contorno.
D’Alema si è scottato le mani su tutti i fronti, collezionando una serie di contraccolpi che lo hanno reso meno brillante e un po’ più cupo.
- In questi anni, i poteri forti della finanza hanno preso tutto quello che c’era da prendere in termini di agevolazioni fiscali, privatizzazioni, assetti azionari, flessibilità del lavoro e del salario. Quando D’Alema ha cercato di entrare in ballo “baciando in bocca” Cuccia per giocarlo contro Agnelli sulle telecomunicazioni e sui nuovi assetti bancari, è rimasto con il cerino acceso in mano. Ha cercato di costruire una generazione di businessman e aziende in “area DS” (dall’ENEL al Monte dei Paschi di Siena, dall’Unipol alle società di servizi locali) ma questi rispondono ormai a input sempre più indipendenti dalla politica. Per chiudere in una bottiglia gli “spiriti animali” del capitalismo non basta certo convertirsi al pensiero unico neoliberale.
- La promessa della stabilità politica – precondizione necessaria per garantirsi la tolleranza dei poteri forti – ha visto un D’Alema travolto dai suoi stessi giochi. Prima è fallita la Commissione Bilaterale sulle riforme istituzionali di cui aveva voluto essere presidente. Poi ha imbarcato e riciclato tutto il riciclabile del vecchio ceto politico per tenere in piedi “il suo governo”. Le vicissitudini del Trifoglio, le esternazioni di Mastella, gli sgorbi partoriti dal rimpasto dei ministeri hanno rivelato a gran voce che “il Re è nudo”.
Una modernizzazione guidata da cannibali
Il progetto di D’Alema si è così dimostrato del tutto tattico e capace solo di tirare avanti giorno per giorno. In presenza di una realtà che vede accentuarsi la competizione tra Stati Uniti ed Europa, la crescita vertiginosa di nuovi, grandi monopoli privati che rispondono solo alle loro regole del gioco, il dominio degli “spiriti animali” del capitalismo in ogni sfera della società e in ogni area del mondo, la solitudine di D’Alema diventa un fattore di fragilità destinato a non durare ancora per molto. In Europa è iniziato il “tramonto dei faraoni” e la loro scomparsa trascinerà con sé gran parte della sovrastruttura politica costruita in questo decennio di transizione. Le nuove classi dirigenti saranno più cattive di quelle che abbiamo conosciuto e a cui ci siamo abituati. Ma sarebbe un errore fatale rimpiangere quelle sulla via del tramonto perché sono esse (come nel caso di Craxi e di D’Alema) coloro che hanno spianato la strada a una modernizzazione capitalista guidata da “cannibali”. Ed è con questi che ci dovremo misurare nel nuovo secolo.