Eurobang/2
Autore: Cararo, Casadio, Martufi, Vasapollo, Viola
Pagine: 208
Prima edizione: ottobre 2001
Editore: Media Print
ISBN-10: 8888512020
ISBN-13: 978-8888512020
Prefazione
Chi negli ultimi dieci anni ha avuto l’occasione di prendere un aereo per andare nell’Europa dell’est, di viaggiare nelle aree di confine tra “oriente e occidente” o di gironzolare nei porti della dorsale adriatica, si sarà facilmente reso conto della differenza di movimento con i decenni precedenti la caduta del muro di Berlino. I traffici di merci, gli scambi commerciali, il trillo dei telefonini dei managers, degli imprenditori, dei faccendieri con pochi scrupoli e degli “uomini di panza” delle vecchie e nuove mafie che vanno e vengono nelle ormai centinaia di “Trevisoara”, è diventato un fenomeno visibile ad occhio nudo oltre che nelle relazioni annuali della Banca d’Italia o dell’Istituto del Commercio Estero. Quello che anni fa era made in Italy ormai è parte di una produzione “nomade” che colloca i suoi investimenti, i suoi reparti e le sue fasi di lavorazione in un territorio che travalica i confini nazionali nella sua rincorsa alla “competitività” e al massimo profitto.
Capi di abbigliamento firmati o automobili, servizi informatici o flussi di materie prime, semilavorati o elettrodomestici, vengono prodotti in catene di montaggio diffuse in aree geoeconomiche sempre più omogenee, rifinite e valorizzate nei centri del sistema e poi distribuite in reti di vendita a livello internazionale
Ci si è posto allora il problema concretissimo di capire come tale fenomeno si connettesse con i cambiamenti produttivi, sociali e culturali avvenuti nel capitale e nel lavoro del nostro paese. Non solo. Mentre prendeva corpo la corsa all’est, l’Italia subiva anche al proprio interno trasformazioni profonde. L’integrazione nell’Unione Europea, il pesante viaggio verso una moneta unica “dall’Atlantico agli Urali”, la tempesta di privatizzazioni e flessibilità del lavoro che si è abbattuta sulla società italiana, rivelava la profondità delle connessioni tra una “anomalia italiana” in via di superamento e la realtà della competizione globale.
Questo libro, un lavoro collettivo di studiosi, ricercatori e sindacalisti in un certo senso “militanti”, va inquadrato in un percorso di analisi e inchiesta in corso ormai da alcuni anni.
E’ un libro che segue un lavoro precedente (“Eurobang”) e precede un lavoro ormai in fase di conclusione, che elaborerà le risposte di migliaia di lavoratori ad un questionario che non ha solo fotografato la realtà del lavoro ma ha cercato di sviscerarne anche la soggettività, le reazioni ai cambiamenti, la disponibilità al conflitto sociale, l’atteggiamento politico e sindacale.
No/made in Italy colloca dunque la sua ricerca a metà tra l’analisi delle ambizioni della “Grande Europa” in competizione con gli Stati Uniti e con le variabili del polo asiatico e l’inchiesta sul campo tra i lavoratori. E’ una collocazione necessaria, perchè questo libro serve ad inquadrare e documentare il protagonismo dell’Italia nella competizione internazionale, ma anche le conseguenze che questo innesca nella composizione e nella identità sociale dei lavoratori italiani.
Occorre infatti essere pienamente e seriamente consapevoli che “l’Italietta” è cambiata, che l’Italia non è più l’anello debole del sistema e che la divisione internazionale del lavoro ha modificato sotto i nostri occhi la composizione di classe nel nostro paese. E’ un passaggio culturale significativo quello che viene richiesto ai lettori, perchè in questi anni abbiamo assistito a troppe derive mitologiche e ad altrettante iconoclastiche. Per alcuni la realtà è immodificabile, altri la manipolano come arnese da scasso per demolire ogni resistenza alla “pedofilia economica” con cui il capitale dilaga e approfitta della debolezza, della ingenuità o delle incertezze dei settori sociali subalterni.
Diventa allora necessario indagare, documentare, ragionare, discutere sulla base di ipotesi confortate da dati di fatto, su dinamiche che non sempre sono visibili oggi e ad occhio nudo ma che già domani potrebbero rivelare il loro dispiegarsi concreto, travolgendo – come spesso accade – chi si è attardato sulla mitologia o chi sceglie sempre l’avventura del “nuovo” scoprendosi o convertendosi poi in vittima o apologeta di vecchi ma micidiali meccanismi di dominio.
Che l’Italia sia diventata “altro” rispetto ai decenni precedenti se ne sono accorti in pochi nel mondo e nei settori che ci interessano. Forze progressiste in altri paesi continuano a guardare all’Italia con un’indulgenza straordinaria ed ormai ingiustificata. La guerra scatenata insieme alla NATO contro la Jugoslavia non era un atto “umanitario” (una motivazione che continuiamo a ritenere perversa) ma “le carte” con cui l’Italia ha rivelato ai partner e ai concorrenti di essere interessata alla corsa verso la nuova frontiera dell’Europa dell’est. Gli investimenti italiani (IDE) ormai corrono e concorrono nei paesi dell’oriente e del sud al pari delle altre potenze economiche (sempre le stesse) che stanno animando il passaggio di fase dalla globalizzazione alla competizione globale. Il “mito della crescita” alimenta ormai apertamente ambizioni e proiezioni sulla scacchiere internazionale. “In questo scenario si colloca l’Italia, che entra così a pieno titolo nella competizione tra Europa e USA che punta sul dominio dell’Eurasia con caratteristiche geopolitiche e geoeconomiche realizzate con la collocazione degli IDE” scrive nel primo capitolo di questo libro Luciano Vasapollo (“Il nomadismo delocalizzativo italiano nella competizione globale”). La collocazione ed i flussi degli investimenti italiani non rispondono alla casualità ma coincidono con i corridoi ed i varchi apertisi nel mercato mondiale e con le crescenti reti produttive che hanno dato vita alle filiere mondiali di produzione. Ma il carattere globale della competizione, costringe tutto il sistema ad adattarsi alla sfida competitiva. Il secondo capitolo, curato da Rita Martufi (“L’internazionalizzazione produttiva italiana. Caratteri e dinamiche delocalizzative”) documenta ampiamente e nitidamente tutti i meccanismi e le aree di riferimento della internazionalizzazione dell’economia italiana (dagli IDE all’import/export).Un concetto, quello della internazionalizzazione produttiva, che – sostiene Rita Martufi – è diventato molto più complesso e articolato rispetto al passato.
Se l’Italia sta ormai dentro la competizione globale, ad essa si è dovuta adattare non solo la struttura produttiva ma l’intero sistema. “Il Sistema Italia, l’Azienda Italia, la Fortezza Europa, la Superpotenza Europa, etc.” sono categorie, slogan, acronimi, con cui in questa fase storica le classi dominanti e i loro opinion maker hanno cercato di accreditare l’idea di una Italia e di una Europa che devono muovere tutti i loro apparati nella competizione globale, incluso quello decisivo dello Stato. E proprio allo “Stato competitivo” è dedicato il terzo capitolo – curato da Sergio Cararo – in cui vengono riassunte le tappe con cui, contro l’illusione di uno stato universale e superpartes per i propri cittadini, si è invece affermato il Profit State, il comitato d’affari che ha portato via via anche l’Italia a “perdere la propria innocenza” rafforzando il carattere coercitivo dei propri apparati statali e partecipando negli ultimi dieci anni a spedizioni e aggressioni militari contro altri paesi.
Ma le modifiche produttive, le delocalizzazioni in altre aree, la fine dell’idea stessa di uno stato sociale, le avventure militari contro altri popoli, non hanno provocato solo modifiche contabili o nella bilancia dei pagamenti, esse anticipano e accompagnano una modifica significativa della composizione di classe. I lavoratori salariati nell’industria e nei servizi sono stati sottoposti ad una offensiva pesante e profonda iniziata negli anni Settanta ma ben visualizzata con la lotta e la sconfitta operaia ai cancelli della Fiat nell’ottobre del 1980. Da quella offensiva, negli anni successivi, non sono stati risparmiati i lavoratori “autonomi” di prima e di seconda generazione. La reintroduzione de facto del sistema del cottimo, la “liberalizzazione” e la corsa sfrenata alla competitività sfata ogni leggenda sul lavoro indipendente e ne colloca ampi segmenti in una posizione sempre più simile a quella di chi lavora “sotto padrone”.
La fine della rigidità della forza lavoro e la sua condanna a tornare ad essere una variabile dipendente dal capitale, si è intrecciata con i cambiamenti strutturali avvenuti nel paese e nell’area economica in cui l’Italia è inserita ovvero l’Europa. I lavoratori nel “cuore pulsante” di uno dei principali poli geoeconomici mondiali, cioè lì dove lo sviluppo delle forze produttive è diventato più impetuoso grazie alle tecnologie e allo sviluppo scientifico, hanno subito modificazioni quantitative e qualitative rilevanti nel loro rapporto con la produzione di merci o di servizi, ma ciò non ha modificato affatto i rapporti sociali di produzione, anzi li ha peggiorati a loro svantaggio. Alcuni leggono tale processo come novità. In questo senso “Il rischio di leggere gli eventi contemporanei come eccezionali, è una distorsione “ottica” da quale ci dobbiamo difendere per poterci mettere in condizione di dare una dimensione reale, “misurabile”, dunque non “religiosa”, degli eventi che si svolgono” sostiene Mauro Casadio che cura il quarto capitolo di questo libro (“Dall’operaio-massa al lavoratore unico. Una nuova composizione di classe?”) “il salto produttivo di questi ultimi venticinque anni, cioè dal Fordismo al c.d. Postfordismo, non è una novità dello sviluppo capitalistico. Presenta caratteri certamente nuovi ma è un evento che si è manifestato più volte negli ultimi duecento anni di storia ed è sempre stato in relazione agli sviluppi scientifici, tecnologici e di organizzazione del lavoro” . Anche su questo, più che le suggestioni, occorre lasciar parlare i dati di fatto.
La delocalizzazione produttiva ha così trasferito la produzione di massa basata sul lavoro vivo nelle nuove periferie industriali del mondo, concentrando al massimo nel cuore, nelle “metropoli”, nei poli geoeconomici centrali, le fasi a maggiore valore aggiunto, il design, l’assemblaggio, il marchio (il famoso”logo” la cui denuncia ha suscitato entusiasmi, boicottaggi, mobilitazioni ma anche fortune editoriali), la commercializzazione e la distribuzione. Ma la flessibilità e la nuova organizzazione del lavoro non hanno solo privato i lavoratori delle garanzie e delle certezze lavorative, salariali o previdenziali, li hanno privati di una parte immateriale ma importante di se stessi: l’identità sociale. A questo è dedicato il quinto capitolo di “No/made in Italy” curato da Filippo Viola. In esso viene esaminato il processo che ha portato alla “necessità di riallineare l’identità sociale con il nuovo sistema di produzione, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà”. In un’epoca in cui le risorse materiali e quelli immateriali vengono entrambe rese schiave dallo stress della competizione globale, il capitale non si accontenta più di estrarre pluslavoro e plusvalore dalle attività manuali e mentali dei lavoratori, ambisce anche alla loro anima.
Si pone allora un problema fin qui sottovalutato ma chi si è andato imponendo anche nella attività sindacale, sociale o politica di questi anni: la soggettività o se volete la “coscienza di classe” dei lavoratori e dei settori sociali dominati dal capitale. Nel sesto capitolo (“La soggettività possibile”) anch’esso curato da Mauro Casadio, si affaccia l’ambizione di porre tale questione al posto che gli è dovuto nel conflitto sociale nelle società a capitalismo avanzato.
In quali segmenti del lavoro e su quali terreni sia possibile oggi ricostruire una soggettività alternativa alla spoliazione di identità sociale operata dal modello capitalistico sui lavoratori e i settori popolari, è diventato un terreno sul quale misurarsi concretamente per cercare di ricomporre un blocco sociale antagonista al sistema dominato dal capitale.
Se si è compreso e seguito l’ordine di marcia e di ricerca dei capitoli di questo libro, si può comprendere meglio perchè esso sia la necessaria connessione tra il primo lavoro di analisi/inchiesta (“Eurobang”) ed il terzo in preparazione ( i risultati dell’inchiesta sul campo tra i lavoratori) ovvero tra l’analisi dei dati economici strutturali dell’area europea in cui si è integrata l’Italia e la verifica sul campo di come vivono, lavorano e di cosa pensano i lavoratori nel nostro paese.
E’ sulla base di questo lavoro che in Italia le forze politiche, sindacali e sociali possono trovare in questo libro indicazioni utili di riflessione e documentazione per rimettere in moto un progetto di cambiamento sociale radicale di questo sistema. Un sistema che oggi, finalmente, vede crescere nel mondo una area sociale critica che ne contesta eticamente e politicamente gli effetti ma ne legge ancora in modo confuso (ed in alcuni casi reticente) le cause. Questo libro fornisce su tale snodo un contributo non formale.
No/made in Italy può essere letto, studiato e radiografato anche come testo a sé, autosufficente per sostenere alcune ipotesi ed affermare alcune tesi, ma il fatto di essere il capitolo di un progetto di lavoro più ampio, da un lato ne rafforza i presupposti e le verifiche, dall’altro suggerisce ai lettori di esaminarlo nuovamente e con maggiore attenzione insieme alle altre due parti della analisi/inchiesta sistematizzata con “Eurobang” già pubblicato e con quello in preparazione.
Ottobre 2001