dal Documento Politico per l’Assemblea nazionale della Rete dei Comunisti, Roma, 23 marzo 2002
1. LA NOSTRA IPOTESI DI RAPPRESENTANZA
Nella impostazione di una ripresa dell’iniziativa dei comunisti, e nella valutazione data sulla disarticolazione dei tre fronti principali della lotta di classe, ci siamo impegnati negli anni ’97/’98 in un progetto organizzato che affrontasse il nodo della rappresentanza politica del blocco sociale antagonista.
Nello specifico avevamo l’obiettivo di costruire un “fronte politico-sociale” che desse una risposta ad una evidente assenza di rappresentanza politica di settori sociali e di classe sempre più ampi, penalizzati da politiche economiche e sociali di stampo neoliberista e dalla modifica maggioritaria della rappresentanza istituzionale che riduceva il rapporto tra esigenze popolari e istituzioni. Per questo abbiamo costituito l’Unione Popolare e Azione Popolare, che hanno seguito percorsi preliminari diversificati, dandoci una identità di classe non comunista ed un programma con caratteristiche di radicalità politica sociale, culturale e di indipendenza netta dagli schieramenti bipolari. L’obiettivo di queste strutture era quello di consolidare una base sociale non tanto in funzione delle scadenze elettorali, con le quali ci siamo comunque misurati pur nella coscienza della sproporzione delle forze, quanto per avviare un processo di radicamento e di identità politica che creassero nel tempo, ed evidentemente senza “fretta”, le condizioni per una espressione politica più alta ed avanzata.
In 3/4 anni di attività sono state fatte iniziative di lotta, avanzati progetti di legge nazionali e regionali, costituito strutture ed avviato rapporti politici con realtà politiche organizzate che condividevano il nostro punto di vista sulla rappresentanza. Inoltre, abbiamo sviluppato un lavoro di analisi sociale che aveva, in qualche modo, individuato con chiarezza gli interlocutori nei settori popolari, nel lavoro dipendente ed in quella parte di lavoro autonomo sottoposto alla pressione della riorganizzazione produttiva e statuale.
In questi anni abbiamo avuto anche verifiche “oggettive” generali che andavano nel senso da noi individuato. Le politiche del centrosinistra che hanno tracciato un confine netto rispetto agli interessi di classe, la crescita dell’astensionismo iniziata con l’applicazione del sistema maggioritario ed infine la crisi del PRC che, con il sostegno al governo Prodi e la successiva fase di scontro interno, aveva disatteso aspettative politiche e sociali.
Questo nostro progetto avviato con l’obiettivo di fare una verifica politica, si è trovato a fare i conti con un salto della situazione, che evidentemente era maturato negli anni ma che si è manifestato in modo chiaro dal 13 maggio 2001, ma non solo, sul piano elettorale.
Il primo elemento che ha mostrato una modifica della situazione precedente è stato il risultato stesso delle elezioni, sia nel suo significato generale sia su quello del PRC. Che il centrosinistra fosse destinato alla sconfitta era abbastanza evidente già prima delle elezioni e, quindi l’elemento di novità non è stato certo il cambio tra Ulivo e Casa delle Libertà che in un sistema bipolare è fisiologico. Gli elementi di novità riguardano un livello di analisi non direttamente partitico o di alleanza. I caratteri più evidenti sono stati il rientro in limiti fisiologici dell’astensionismo dopo anni di dilatazione di questo fenomeno, dimostratosi così più aleatorio e meno politico di quanto sembrava fosse in precedenza; l’accorpamento al centro dell’elettorato italiano complessivamente inteso (il risultato dei partiti di centro, sia di sinistra sia di destra, è passato dal 37% al 53%); infine la sconfitta dei terzi poli di D’Antoni e Di Pietro che hanno dimostrato il funzionamento pieno del bipolarismo e la fine delle vecchie dinamiche elettorali proporzionalistiche. Anche il risultato elettorale del PRC è stato diverso dalle previsioni, incluse quelle della direzione del partito che chiaramente temeva un calo elettorale sotto la soglia del 4%. La politica del PRC dopo il ‘96 aveva oscillato tra il sostegno al governo Prodi, soprattutto nella fase delle finanziarie più pesanti per Maastritcht, e lo scontro con il centrosinistra, che ha portato alla fuoriuscita del padre fondatore del PRC, Armando Cossutta. A questa rappresentazione contraddittoria a livello nazionale, fino a poco prima del 13 maggio erano continuate le trattative per raggiungere l’alleanza elettorale, si aggiungeva una solida politica di alleanze in quasi tutte le regioni ed enti locali con il centrosinistra arrivando al paradosso di appoggiare a Roma Veltroni, uno dei maggiori sostenitori della aggressione alla Jugoslavia nel ’99. Una politica altrettanto ambigua il PRC l’ha seguita sul piano sindacale, dove il rapporto con la CGIL, anche nei momenti peggiori della concertazione, non è stato mai rimesso in discussione veramente.
Di fronte ad una situazione del genere la tenuta del PRC al 5% è stato un fatto tutto sommato inaspettato e, comunque, ha dimostrato che la gran parte della sinistra reale in Italia si è riconosciuta in una posizione politica non di indipendenza chiara e netta rispetto al centrosinistra, dimostrando di subire ancora il condizionamento dell’unità antiberlusconiana.
In questa sede non ci interessa dare giudizi di merito sulle vicende politiche elettorali; d’altra parte la nostra posizione sulla necessità della indipendenza politica dal sistema bipolare è nota da tempo. Ma poiché riteniamo che questi risultati sono stati il prodotto non tanto di strategie politiche, ci riferiamo soprattutto alla sinistra ma non solo, ma di una modifica delle condizioni strutturali del nostro Paese, vorremmo partire da questa per “leggere” le vicende elettorali e per ricollocare il nodo della rappresentanza politica nel nuovo contesto che si è venuto a determinare.
Il dato da cui partire per analizzare la situazione nuova rispetto agli anni ’90, che si è creata sul piano politico e sociale, è l’accorpamento al centro dell’elettorato italiano. Questo fatto crea diversi effetti, che già si sono visti negli sviluppi politici avuti successivamente. Intanto la difficoltà dei DS che trovano nella Margherita un competitore imprevisto sul piano elettorale. L’altro effetto è l’affermazione della politica bipartisan sulle questioni centrali, quali ad esempio quelle sulla guerra o sull’Europa. Queste politiche si sono rafforzate con il governo Berlusconi, in quanto l’Ulivo, ed i DS, non possono fare errori nella gestione di una politica strategicamente supina al capitale.
L’effetto di questa condizione si ripercuote immediatamente nel sistema elettorale con il consolidamento del bipolarismo che, semmai, potrebbe tendere ad una accentuazione dei caratteri autoritari del sistema istituzionale, magari verso il presidenzialismo. La stessa “guerra contro il terrorismo” sta ulteriormente aiutando a potenziare i caratteri antidemocratici del sistema.
Allora la domanda a cui rispondere è: perché una percentuale così alta di cittadini si è espressa per la stabilità “centrista”?
Inevitabilmente per trovare una risposta bisogna tornare ai caratteri generali della società italiana ed europea attuale.
Affermare che l’Europa, e l’Italia con essa, costituisce un nuovo polo imperialista non significa parlare solo delle questioni economiche e militari. Il termine “imperialismo” sottintende una condizione generale di un paese in termini politici, istituzionali, ideologici, culturali, sociali, che si rapporta ad altri paesi da una posizione di forza.
L’accorpamento moderato al centro non è nient’altro che la manifestazione elettorale di questa condizione italiana nelle nuove relazioni intemazionali. Il controllo delle vie del petrolio e dei giacimenti, l’esportazione di capitale e gli investimenti esteri, il monopolio del sapere scientifico finalizzato al profitto, forniscono tutti una condizione materiale di privilegio che si sta ben radicando nella coscienza di settori consistenti del popolo italiano.
Sulla analisi di questa realtà non andiamo oltre; ma è chiaro che questa situazione condiziona anche l’opinione del popolo della sinistra che di fronte a questo slittamento a destra, che è in realtà l’affermazione di una ideologia bipartisan centrista, è portato a pensare che solamente una alleanza a sinistra porrebbe rimedio a questa “tracimazione” politica.
L’atteggiamento “difensivo” del popolo della sinistra ha anche un altro elemento di consolidamento. L’Italia è stata dal secondo dopoguerra il paese europeo dove il conflitto di classe ha pesato di più sugli sviluppi generali della società. La modifica della condizione internazionale agli inizi degli anni ’90 ha portato gli assi portanti del conflitto precedente, cioè il PCI e la CGIL, a trasformarsi ed a divenire parte integrante del regime bipolare e concertativo. Questo fatto non ha avuto solo un effetto politico ed ideologico ma soprattutto un effetto materiale, in quanto sono venuti meno gli strumenti concreti che sostenevano il conflitto nel nostro Paese, con un forte radicamento sociale e politico in tutti i settori della nostra società. Ciò non ha certo significato la fine dello scontro di classe ma il suo forte ridimensionamento quantitativo ai soli settori che in qualche modo non erano stati travolti dal crollo italiano della sinistra storica. Non è un caso che gli anni ’90 hanno segnato un calo fortissimo degli scioperi, nonostante in alcuni settori di lavoro la conflittualità invece sia aumentata.
Il cambiamento di segno delle organizzazioni storiche ha eliminato di fatto il ruolo generale della classe ma non ha certo risolto le contraddizioni, che invece sono aumentate. L’effetto politico di questa assenza di strumenti, e dunque di soggettività organizzata, è stato quello di far ripiegare le contraddizioni nel loro specifico, venendo a mancare il collante generale, e di far emergere i caratteri corporativi della società, con tutti i conseguenti effetti, dall’insorgere del razzismo alla disgregazione sociale. L’effetto di cui sopra è stato contrastato da varie forme di sindacalismo in modo parziale ma reale nel mondo del lavoro. In ambito più direttamente sociale però nessuna forza, incluso il PRC che ha manifestato una forte incapacità di radicamento sociale, ha avuto la possibilità di contrastare il corporativismo e dunque l’adesione alla ideologia predominante.
Blocco sociale a sostegno del ruolo imperialista dell’Italia, debolezza politica e subordinazione della sinistra e del PRC, il prevalere di tendenze corporative sul piano sociale, sono le condizioni con le quali una ipotesi di costruzione della rappresentanza politica del blocco sociale antagonista deve fare i conti.
L’esito negativo della nostra esperienza, questo va detto senza alcun timore, in quanto è solo capendo la realtà che possiamo superare le difficoltà, è maturato in parallelo a questo sviluppo della situazione generale, ed al suo manifestarsi in modo palese.
Siamo oggi impegnati in una riflessione anche autocritica nella quale emerge come centrale il dato della soggettività. In altre parole la difficoltà attuale di costruire una rappresentanza politica di classe deve fare i conti non tanto con una condizione oggettiva “ostile”, le contraddizioni sociali ed economiche tendono ad aumentare e non certo a diminuire, quanto con una inadeguatezza concreta, anche organizzativa, di una ipotesi antagonista che ha l’enorme compito di sostituire lo strumento concreto di collegamento generale distrutto definitivamente dalla svolta riformista e revisionista degli anni ’90.
In realtà tentare di costruire una rappresentanza politica del blocco sociale, vista la condizione generale in cui si colloca, significa lanciare una sfida sulla egemonia nella società; sfida che per affermarsi ha evidentemente bisogno di tempo e di ulteriore maturazione della situazione, delle sue contraddizioni e delle capacità soggettive.
In questo senso il movimento che si sta esprimendo potrebbe essere un elemento rafforzativo della necessaria soggettività da costruire, a condizione che si ponga il problema del collegamento e del rafforzamento sinergico con tutti quei settori sociali penalizzati dallo sviluppo attuale ed interessati oggettivamente ad una opposizione organizzata.
Proprio per questo, e partendo dalle difficoltà attuali, l’obiettivo della rappresentanza politica non può essere eliminato dalle prospettive. Il punto su cui riflettere, e ragionare ora, è su come acquista peso politico una soggettività organizzata.
Naturalmente come precondizione a questa prospettiva c’è la necessità di mantenere sul territorio ed in ogni settore sociale tutte quelle strutture ed iniziative che esistono e che hanno, in ogni caso, le caratteristiche di basi concrete di una prospettiva di rappresentanza politica. La lotta per il diritto alla casa, al lavoro ed al reddito per i disoccupati, in difesa dello Stato sociale e dell’ambiente, ecc.., sono punti ancora irrinunciabili di organizzazione.
L’analisi qui esposta è il risultato del dibattito avviato dopo la scadenza elettorale del maggio 2001 ma i dati emersi successivamente hanno confermato le tendenze evidenziate. Il sostegno bipartisan alla “guerra contro il terrorismo” di Bush ed i risultati elettorali del Molise e della Sicilia nel novembre del 2001 sono elementi che confermano la condizione strutturale che abbiamo cercato di tracciare.
2. IL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE
Altre circostanze di rilievo hanno segnato la seconda metà del 2001, che in qualche modo cambiano ulteriormente le condizioni politiche precedenti.
I fatti di Genova con le grandi manifestazioni contro il G8 e la guerra americana “contro il terrorismo” danno una accelerazione e chiarificano una serie di questioni.
Sulla guerra abbiamo già dedicato la prima parte del documento. Sul piano politico italiano questo evento e lo schieramento unitario dell’ulivo e della Casa delle Libertà hanno tracciato un solco ancora più profondo alla loro sinistra che il congresso dei DS di novembre ha sancito con la scelta di 39 “socialdemocrazia debole” della segreteria Fassino. Al mancato accordo elettorale nelle politiche segue una netta presa di posizione nei confronti del PRC e del movimento No Global da parte dei DS, cioè si sancisce in questo fase, e sicuramente per gli anni che vanno da qui al 2004, una separazione politica netta sui contenuti e sulle alleanze. In altre parole i DS stessi danno vita ad un’area “indipendente” ed ad una conflittualità alla loro sinistra, determinando una situazione di fatto inedita che rischia di ripercuotersi anche sui settori di sinistra interni all’Ulivo.
Naturalmente questa linea può contemplare passaggi tattici di riavvicinamenti antiberlusconiani ma non verrà modificato l’asse strategico organicamente subordinato al capitale finanziario.
L’altro elemento che ha segnato questo periodo è lo sviluppo ed una ancora parziale stabilizzazione del movimento antagonista. Le manifestazioni, da Genova fino a quelle avute negli ultimi mesi, hanno sicuramente creato una condizione di attenzione politica che da tempo non si vedeva è emersa una nuova “leva” di giovani, di studenti che è stata sottratta alla influenza culturale della destra, e questo è indubbiamente un fatto positivo. Come, comunque, è positivo che nel nostro Paese, e in altri paesi europei ma non solo, sia ripreso un movimento anticapitalista che rompe con la stagnazione politica che aveva caratterizzato tutti gli anni ’90.
È chiaro che il “movimento” è un ambito generico ed ampio che include soggettività politiche già definite, livelli associativi ed organizzativi già strutturati, molte individualità non schierate e soprattutto una molteplicità di punti di vista, di opinioni e di posizioni difficilmente sintetizzabili. Non è prioritario in questa fase esprimere valutazioni sulle forme del movimento, che sono molte e variabili ed evidentemente non tutte condivisibili; è, invece, necessario fare una analisi delle cause che lo hanno generato, capire le contraddizioni che continueranno a presentarsi, ed a quel punto tornare a ragionare sulle forme e sui rapporti.
I dieci anni di liberismo selvaggio che ci separano dalla fine del campo socialista, stanno dispiegando i loro effetti in modo invasivo in tutti gli angoli del mondo. La guerra ne è l’aspetto più brutale ed evidente, ma molte altre sono le conseguenze in termini di povertà relativa e assoluta, di fame vera e propria. Intere parti di continenti vivono questa condizione di miseria generalizzata, di arretramento sociale e culturale; parte dei popoli che nella seconda parte del secolo passato avevano visto migliorare le loro condizioni generali, oggi si trovano nuovamente in profonda crisi.
Ad una fase di “razionalizzazione” sociale è seguita la pratica della legge del più forte, attraverso conflitti etnici, religiosi, nazionalisti che ha brutalizzato intere popolazioni; ed il tutto sotto la regia degli USA con la complicità spartitoria della neonata Unione Europea.
Gli effetti si ripercuotono fin dentro i paesi sviluppati, nei quali nonostante si tentino politiche di sostegno alla domanda, in particolare in questa ultima fase, il numero dei poveri sta aumentando, ingrossati anche dalla immigrazione di massa di disperati che fuggono dal loro paese. Tutta la “periferia” mondiale è coinvolta da questo processo che appare inarrestabile, daH’America Latina, con l’ultima crisi della ricca Argentina, all’Africa, con la tragedia delle guerre civili e dell’AIDS, fino all’Asia passando per il Medio Oriente.
Questo “sviluppo” sta provocando delle reazioni soprattutto tra i settori più evoluti ed acculturati dei popoli, tra le organizzazioni che rappresentano in qualche modo il sociale e tra masse di giovani portati naturalmente a reagire, a prendere posizione di fronte alle ingiustizie ed alla guerra. Le caratteristiche di queste reazioni non sono nettamente politiche ma sono essenzialmente etiche, morali e sociali e vogliono rimettere in discussione di nuovo lo sviluppo liberista che viene imposto. I contenuti che si esprimono non sono certo “rivoluzionari” e puntano più ad una funzione di denuncia, ad un miglioramento della società capitalista, piuttosto che ad un suo superamento.
L’importanza di questi eventi sta però nella inversione di tendenza che si registra e nel fatto che esiste una reazione a carattere intemazionale. Inoltre si intravedono anche posizioni più radicali, come è accaduto a Durban, dove le ONG del Terzo Mondo hanno preso posizione contro il razzismo dello Stato israeliano, provocando la partenza anticipata delle delegazioni USA e israeliana.
La spinta democratica che nasce da una rivolta sostanzialmente etica in cui sono coinvolti settori di volontariato, forme associative di vario tipo, organizzazioni sociali e sindacali, s’incontra con i movimenti di sinistra e comunisti “reduci” dalla sconfitta del movimento operaio, dando così vita ad una nuova situazione dinamica.
Sottolineiamo subito che non condividiamo la retorica sul “movimento dei movimenti”, in quanto l’esaltazione acritica nasconde probabilmente ipotesi strumentali, di questo o quel soggetto politico. 40
Vogliamo invece mettere in evidenza le potenzialità della situazione. Infatti si stanno scontrando una risposta, non rivoluzionaria sul piano dei contenuti, alla cosiddetta globalizzazione e le tendenze distruttive del capitalismo, sia esso di stampo keynesiano o neoliberista.
Queste tendenze sono “strutturali” in quanto hanno dei solidi retroterra; il primo nella crisi sociale economica e culturale a livello mondiale, il secondo nei meccanismi di crescita interni al capitalismo. Realisticamente si può affermare che siamo di fronte alla ripresa di un conflitto che ha anche caratteristiche di classe, ma che si esprime nelle forme adeguate alle condizioni generali attuali. Tale conflitto continuerà nel tempo e probabilmente modificherà anche le stesse forme di espressione del movimento, potrebbe produrre anche rotture tra i settori più radicali (della periferia?) e quelli più moderati (dei paesi sviluppati?); in ogni caso si riapre una dinamica politica nella quale i comunisti possono svolgere un ruolo, se ne saranno all’altezza.
Il punto centrale è per noi cogliere la contraddizione reale che sta agendo e sapere che le espressioni del movimento sono legate agli sviluppi degli eventi, sia a livello interno sia intemazionale.
Questa dinamica si ripercuote anche dentro l’Italia e c’è già stata una evoluzione dall’epoca degli scontri di Seattle nel ’99. Infatti, stanno emergendo alcuni elementi di chiarificazione del quadro politico. Il primo è la estemità del movimento all’Ulivo; naturalmente questa autonomia non è, allo stato, acquisita definitivamente ma la strategia del centrosinistra è obiettivamente antagonista ai fini del movimento. L’altro elemento è il tentativo di criminalizzazione da parte del governo Berlusconi, tentativo in qualche modo avallato a luglio dai DS e dalla Margherita con i loro comportamenti prima e dopo gli scontri di Genova. Significativa è stata la copertura politica data al carabiniere che ha ucciso Carlo Giuliani, fatta poi saltare dalla inchiesta dei magistrati.
Lo sviluppo e la tenuta del movimento deve, perciò, fare i conti con delle strategie diverse ma che puntano ambedue al suo ridimensionamento. La linea scelta dal governo Berlusconi è più pericolosa nella rappresentazione che nei fatti, in quanto la natura “pacifista” e non violenta del movimento renderà inefficaci i suoi tentativi di criminalizzazione. Se esiste effettivamente la volontà di esprimere e mantenere una posizione critica e anticapitalista, ci si dovrà misurare soprattutto con l’ipotesi più “soft” del centrosinistra, definendo una presenza che vada oltre la sola rappresentazione nelle iniziative politiche.
Indugiare nella rappresentazione, passando da una manije stazione all’altra, riproporre tatticismi nei confronti del centrosinistra non giustificati dalle posizioni che questo esprime, non individuare pochi ma chiari ed unificanti punti di un programma politico-sociale (dalla difesa della democrazia politica e sindacale alla lotta contro le privatizzazioni, al reddito per i disoccupati e precari) significa non far esprimere le potenzialità della situazione attuale, creando le premesse per un recupero politico od il riflusso del movimento stesso.
Si pone, perciò, un problema di alleanze sociali e, di conseguenza, si ripropone in modo diverso ed indiretto la questione della rappresentanza politica.
Ci sembra significativo che i caratteri attuali del movimento li avevamo in qualche modo ipotizzati nella costruzione della rappresentanza politica, a cominciare dal carattere democratico di classe, e non direttamente comunista, fino alla definizione di un conseguente programma di riformismo forte.
Pertanto è possibile ma non scontato, trovare una sinergia tra movimento politico-culturale e le esigenze di rappresentanza che emergono in vario modo dal blocco sociale e dal mondo del lavoro. Ritorna in questo modo il nodo della soggettività che potrebbe essere affrontato in modo più avanzato, in quanto la nuova condizione permette potenzialmente una espressione generale a forze sociali e culturali che hanno rotto con “il corporativismo”.
3. IN ASSENZA DELLA SINTESI
Se in quanto scritto precedentemente abbiamo individuato dei punti fermi per il lavoro dei comunisti, sul piano della rappresentanza e del movimento politico le questioni sono, ed era inevitabile che fosse così, molto più complesse ed indeterminate.
In questo senso come Rete dei Comunisti riteniamo necessario, in tale condizione, riaprire il dibattito ed il confronto sapendo che ora non è possibile pretendere improbabili sintesi politiche. Naturalmente questo non significa limitarsi solo alla riflessione ma invece ci sentiamo spinti anche a promuovere iniziative, confronti ed interventi che siano, però, di verifica delle possibilità effettive che la situazione ci può offrire, improntate a uno spirito di massima apertura nelle relazioni e nel dibattito politico.
CREDITS
Immagine in evidenza: WTO protestor, Seattle 1999
Autore: Seattle Municipal Archives, 29 novembre 1999
Licenza: Creative Commons Attribuzione 2.0 Generico
Immagine originale ridimensionata e ritagliata