dal Documento Politico per l’Assemblea nazionale della Rete dei Comunisti, Roma, 23 marzo 2002
La nascita e lo sviluppo del movimento sindacale indipendente negli anni ’90 nel nostro Paese pongono un problema di analisi e di giudizi che riescano ad andare più a fondo nelle problematiche relative alla prospettiva politica.
Sicuramente bisogna tenere presente che il sindacalismo di base ed indipendente ha oggi due grossi limiti. Il primo è quello di rappresentare praticamente una parte limitata del lavoro dipendente e l’altro limite è di essere un’esperienza essenzialmente italiana, in quanto negli altri paesi europei non si riscontrano esperienze simili, se non formazioni sindacali che hanno una forte valenza ideologica (troskjsta o anarchica) di per sè autolimitante.
La questione che dobbiamo affrontare è perciò molto complessa in quanto si deve capire oggi in Italia, ma anche in Europa, cosa significa avere un sindacalismo di classe (nell’accezione moderna delle attuali forme produttive) e come questo si può collegare ad una ipotesi strategica di trasformazione sociale.
Per cominciare a capire queste due questioni fondamentali non possiamo esimerci dal fare una analisi, per quanto sintetica, di quello che è stato il movimento sindacale nel ’900, soprattutto in Europa e nella Russia/URSS, e come questo è stato parte di un grande movimento politico di trasformazione quale quello comunista.
Il punto è sempre lo stesso anche se in modi e forme nuove: il sindacato di classe ed il rapporto tra questo ed un progetto di trasformazione radicale della società. E evidente che la riflessione e l’elaborazione che stiamo cercando di mettere in piedi è complessa e deve scontare i limiti soggettivi di chi ha deciso di misurarcisi; da ciò ne derivano le cautele, il tornare più volte sui punti controversi, non arrivare a conclusioni affrettate. Si tratta di far riferimento ad un metodo che va adottato obbligatoriamente.
1. IL SINDACATO DEL ‘900
Sono tre i livelli da analizzare che nella realtà storica del novecento erano strettamente collegati ma che è bene, nel lavoro di analisi che stiamo facendo, tenere separati per capire meglio le questioni.
Il primo livello è quello della storia e delle caratteristiche concrete del movimento sindacale, soprattutto europeo.
Il secondo è quello della necessità di definire le fasi storiche in cui questo movimento è “transitato”.
Il terzo è quello di definire la “parabola” della soggettività rivoluzionaria del ‘900, cioè dei partiti comunisti.
Il punto di partenza, per cominciare ad affrontare il primo livello, non può essere altro che quella parte del testo di Lenin sull’estremismo riferito alla questione sindacale, soprattutto per quanto riguardava l’Europa occidentale, in quanto, in Russia era già avvenuta la rivoluzione.
La tattica sindacale proposta nel 1920, che era stata applicata nella fase prerivoluzionaria nella Russia già dai primi del ’900, cioè quella della necessità della presenza dei comunisti in tutti i sindacati inclusi quelli reazionari, era il frutto di una valutazione del momento storico e del ruolo dei sindacati in quella fase.
Qual’era dunque questa valutazione?
Innanzitutto era chiaro che, nonostante la repressione zarista e la clandestinità del partito bolscevico, c’era un forte conflitto di classe con una spontaneità della lotta degli operai che portava alla costruzione dei sindacati di massa per la prima volta nella storia della Russia. Questa spinta alla costruzione di sindacati di massa in realtà esisteva nel resto dell’Europa già dalla fine dell’ottocento. Quando questo fenomeno si manifesta, a causa della prima industrializzazione, anche nella Russia si capisce che costituire dei sindacati ideologici, “comunisti”, significava mettere un limite alla espressione del movimento reale e chiudere all’azione del partito gli spazi che venivano offerti da una nascente e forte, seppure spontanea, lotta di classe. La contraddizione su cui faceva leva una simile scelta è stata quella tra l’affermazione delle direzioni sindacali di tipo riformista e l’aumento del conflitto politico di classe all’inizio del ‘900.
Lenin colloca la questione delle direzioni riformiste dei sindacati e dei partiti operai dentro il quadro oggettivo dell’epoca, cioè la nascita deH’imperialismo e della sua capacità, in base alle politiche economiche e sociali, di dividere i lavoratori creando una aristocrazia operaia. C’è un nesso stretto tra il passaggio dal capitalismo ottocentesco aH’imperialismo dei primi anni del secolo e la trasformazione del movimento operaio da forza di classe a forza di carattere riformistico. Infatti, l’aumentata capacità economica e finanziaria dell’imperialismo (dovuta allo sfruttamento sempre più intenso delle colonie, alla affermazione del monopolio e della grande industria, ecc.) permette un’opera di divisione da parte della borghesia verso la classe operaia, e lo strumento principale adoperato era la cooptazione dei gruppi dirigenti del movimento operaio. Ovviamente questa capacità egemonica era molto forte nell’Europa occidentale, in misura diversa da paese a paese ed aveva il suo punto debole nella Russia zarista. Questa situazione però era destinata ad essere superata ed ad andare verso la prima guerra mondiale e, dunque, verso una crisi generale che rimetteva in discussione l’assetto esistente.
Per tutto questo i comunisti dovevano stare in tutti i sindacati e lavorare su questa contraddizione che man mano assumeva nella Russia un carattere rivoluzionario.
Il partito doveva collegarsi alla classe lavoratrice trovando un punto di incontro, cioè il sindacato, che non poteva avere un carattere ideologico, poiché sarebbe stato la riproduzione del partito stesso e l’azione si sarebbe esaurita in uno sterile settarismo.
Quanto questa analisi e scelta politica fosse stata corretta lo ha poi dimostrato la storia, ed è inutile approfondire ulteriormente tale aspetto.
Nel 1917, con la rivoluzione, cambia l’obiettivo del lavoro sindacale; dalla presenza dei comunisti in tutti i sindacati alla trasformazione del sindacato in uno strumento della dittatura del proletariato, ma che continua nel suo carattere non ideologico. Il sindacato, così, mantiene ancora il suo carattere non comunista e di massa e, mentre prima il suo compito principale era quello di creare le condizioni nel rapporto di massa con i lavoratori per la rivoluzione, ora si trattava di finalizzarlo alla crescita economica e sociale del proletariato. Nel comuniSmo di guerra successivo alla rivoluzione, nella NEP e nella industrializzazione degli anni ’30, il sindacato sovietico ha svolto sostanzialmente questo ruolo, in quanto strumento, articolazione dell’egemonia del proletariato nella nuova condizione sociale.
Su questo periodo il dibattito può essere molto ampio, articolato e contraddittorio; ma tale aspetto in questo contesto lo tralasciamo. Ci limitiamo solo ad evidenziare l’obiettivo politico del lavoro sindacale ed il rapporto tra questo e la strategia di rivoluzione sociale del partito sovietico sul piano della enunciazione teorica. In sintesi il sindacato era divenuto una delle “cinghie di trasmissione”, messe in opera per costruire la dittatura del proletariato e la potenza economica dell’URSS.
Prima di andare oltre nella descrizione storica della concezione sindacale nell’URSS bisogna mettere a fuoco quella che è stata, non solo nell’Unione Sovietica, la vera funzione del sindacato. Infatti, se nella fase prerivoluzionaria il lavoro nei sindacati serviva a preparare la presa del potere e nella fase della dittatura del proletariato il sindacato assumeva, in modo inevitabilmente contraddittorio, una funzione essenzialmente economica, in ogni periodo il sindacato è stato teorizzato come il punto di unione, di fusione tra il partito e le masse, tra il settore di avanguardia e quello molto più vasto collocato sul livello “medio” di coscienza dei lavoratori.
Questa funzione strategica del sindacato va capita bene in quanto è questo il punto politico che si può ritenere valido ancora oggi, a prescindere dagli obiettivi che sono stati assegnati al sindacato nelle diverse condizioni politiche e storiche sviluppatesi nel corso del ’900.
L’ultima fase del sindacato nell’URSS (e non solo), è stata quella che si è sviluppata dopo la seconda guerra mondiale, e dopo la ri costruzione, e che si è manifestata appieno negli anni ’60 e ’70 con una chiara burocratizzazione. Quest’ultimo aspetto era, in realtà, la negazione pratica di quella funzione fondamentale di rapporto tra partito e masse che il movimento comunista gli assegnava nel suo momento di crescita rivoluzionaria. I motivi di questo sviluppo non erano certo interni al sindacato ma legati alla incapacità, tutta da capire ed analizzare e sulla quale sono inevitabili punti di vista diversi, del PCUS di tenere testa agli sviluppi del capitalismo ed ad una nuova fase, in preparazione, di ripresa dell’imperialismo.
Tratteggiare schematicamente l’evoluzione del sindacato e del suo ruolo in URSS serve anche a capire gli sviluppi del sindacato nell’Europa occidentale ed in particolare nel nostro Paese.
Si può sostenere che le tre fasi, quella di movimento, quella della cinghia di trasmissione e, infine, quella burocratica hanno riguardato il sindacato anche in Italia.
Il Partito Comunista nasce nel ’21 ed ha subito a che fare con il fascismo, cioè con una situazione simile, ma non uguale, a quella del Partito Bolscevico sotto lo Zar. Anche in Italia, nella fase precedente alla nascita del Partito Comunista, si sviluppa la tendenza riformista che porta poi il movimento operaio italiano, almeno nei suoi gruppi dirigenti, a schierarsi con l’imperialismo del nostro Paese nella prima guerra mondiale. Ed anche in Italia questo riformismo dopo la guerra deve fare i conti con delle contraddizioni materiali enormi e con la nascita di una tendenza rivoluzionaria nel nostro Paese (il biennio rosso del 1919/1920). Questo periodo di forte conflitto di classe si sviluppa in una condizione oggettiva diversa da quella della Russia di prima del 1917 e senza un partito rivoluzionario e, comunque, viene sconfitta dalla controffensiva reazionaria e dal fascismo.
La questione sindacale si ripropone, a quel punto, anche in Italia come presenza dei comunisti nei sindacati reazionari, o meglio fascisti. Si tratta di un lavoro tutto clandestino che produrrà i suoi frutti nella sconfitta del fascismo e nella insurrezione operaia del nord alla fine della seconda guerra mondiale.
L’Italia del secondo dopoguerra non è certo la Russia dei Soviet ma anche da noi si produce un nuovo modo di fare sindacato. Partendo dalla funzione strategica del rapporto tra il settore di avanguardia ed il livello medio dei lavoratori, si riproduce la “cinghia di trasmissione” finalizzata nel nostro Paese non alla crescita economica, in quanto paese ancora capitalista, ma al rafforzamento del partito “nuovo di massa” e alla modifica dei rapporti di forza tra le classi.
Tale condizione, grosso modo, si protrae fino all’autunno caldo del ’69, quando la ripresa delle lotte operaie si manifesta come un nuovo, forte ed ultimo periodo del conflitto di classe nel nostro Paese. Da quei primi anni ’70 si innesta una inversione di tendenza che ha una delle sue basi nell’incapacità dei partiti comunisti di capire la situazione e di saper tenere testa ai nuovi sviluppi. Non va dimenticato che questa incapacità, almeno sul piano propositivo, è stata anche della cosiddetta sinistra rivoluzionaria di quegli anni.
Nonostante il PCI negli anni ’80 prendesse le distanze dal PCUS, in realtà si avviavano ambedue verso la crisi finale e trascinavano con loro anche le strutture sindacali; ovviamente questi processi “paralleli” hanno avuto forme e sviluppi successivi diversi. L’epilogo dei sindacati legati al movimento comunista trova le sue cause perciò proprio nell’incapacità strategica di quei partiti dimostrata almeno negli ultimi trent’anni del ’900.
Questa rappresentazione, piuttosto rapida anche se la riteniamo nella descrizione realmente rappresentativa di quanto avvenuto, non può bastare a comprendere appieno la questione sindacale se non si analizzano gli altri due livelli precedentemente enunciati.
Vanno ricostruite, perciò, anche le fasi storiche in cui la vicenda sindacale si è sviluppata.
Si è visto che il movimento operaio a cavallo deH’8OO/’9OO manifesta le sue tendenze riformiste di fronte all’evoluzione del capitalismo in imperialismo. Questa condizione trova, schematicamente, il suo punto di massimo sviluppo con l’inizio della prima guerra mondiale. La guerra mondiale non è stato solo un evento bellico ma l’inizio manifesto di una fase di crisi profonda del capitalismo, che non ha avuto semplicemente un carattere economico ma complessivo in termini di civiltà. Attorno a quella fase iniziale saltano i punti deboli, vedi la Russia, ed entrano in crisi anche i punti forti come la Germania e pure l’Italia del primo dopo guerra. Ad esempio, il crollo della Borsa di Wall Street è un episodio che va inserito in quella fase di crisi e che coinvolge anche chi aveva vinto la prima guerra mondiale.
Tale fase di crisi “globale”, diremmo oggi, si conclude con la seconda guerra mondiale e vede il rilancio della lotta di classe a livello internazionale sotto forma di lotta tra sistemi economici e sociali alternativi.
Dare un giudizio sullo sviluppo del movimento sindacale (che abbiamo qui limitato a quello sovietico ed italiano) è possibile solo analizzando e capendo le conseguenze di una fase di crisi generale del capitalismo e di come questo, nella sua variante democratica, ne è uscito fuori dopo la seconda guerra mondiale.
La seconda metà del novecento è caratterizzata da due fasi; la prima, fino agli anni ’60 e ’70, nella quale la competizione Est/Ovest si sviluppa nel confronto e nella tenuta dei due sistemi, e la seconda con un nuovo sviluppo forte deH’imperialismo, inteso come sistema sociale complessivo, che superava il conflitto di classe avuto fino agli anni ’70.
Chi non colloca la trasformazione del PCI e della CGIL in quel periodo ed in quel contesto internazionale è condannato a non capire gli sviluppi della realtà dei decenni passati e di quella attuale e di dare una motivazione solo soggettiva, il tradimento, ad un processo che ha avuto invece un forte carattere oggettivo.
In altre parole la ripresa impetuosa dei caratteri imperialisti nei paesi occidentali ha di nuovo rotto l’unità di classe conquistata con decenni di lotte ed ha fatto riemergere, con caratteristiche specifiche e diverse da quelle di inizio ’900, una forte direzione riformista del movimento sindacale ed operaio.
Infine, come terzo livello di analisi, va inserita, per il ruolo determinante che ha avuto, una valutazione sulla capacità teorica e rivoluzionaria dei partiti comunisti. Infatti, se è vero che il novecento ha segnato un punto di crisi profonda del capitalismo, va detto che questa da sola, e con la sola spontaneità del movimento operaio, non avrebbe portato ad una esperienza rivoluzionaria come quella dei paesi socialisti e del movimento comunista, nonostante la conclusione negativa avuta.
Lo sviluppo della forza del movimento comunista ha avuto una scansione temporale in relazione a due fattori. Il primo è stato la capacità di lettura della realtà e di elaborazione teorica, che con Lenin ha raggiunto livelli elevatissimi rispetto alla sua epoca. Il secondo è quello che abbiamo tracciato rispetto alla fase di crescita, crisi e ripresa del capitalismo nel corso del ‘900.
L’elemento della soggettività strategica, quindi, va tenuto ben presente nell’analizzare la storia del movimento operaio e quella più specifica del sindacato.
Il punto di rottura avviene, ovviamente, nel 1917 e da quella data, fino agli anni ’50/’60, c’è una crescita incontestabile da tutti i punti di vista del movimento comunista e dei paesi socialisti; questo è avvenuto al di là dei giudizi politici che si possano dare. Già nei primi decenni della seconda metà del ’900 cominciano ad accumularsi le contraddizioni che poi, non essendo state affrontate nel modo corretto, hanno portato alla crisi finale. Nonostante tutto ciò gli anni ’70 appaiono come il punto più alto del conflitto di classe a livello intemazionale, periodo in cui si è pensato che ormai la crisi capitalistica era avviata verso un processo irreversibile. Sappiamo bene oggi che, invece, proprio in quegli anni si sviluppa la crisi della soggettività comunista sul piano della capacità teorica e con l’emergere della divisione del campo socialista. Questa sclerotizzazione produce i suoi effetti nel decennio successivo quando di fronte all’offensiva dell’avversario, nella forma militare delle “guerre stellari” ma nella sostanza economica, sociale, scientifica e culturale, emerge la crisi dell’esperienza rivoluzionaria maturata nel corso del secolo.
Va detto ancora una volta che non si vogliono in questa sede analizzare le cause profonde della crisi, ma è importante intrecciare tra di loro i tre livelli descritti per avere un quadro chiaro dove collocare la storia del movimento sindacale e del rapporto tra questo ed il movimento comunista.
Schematizzando, quindi, ci sono state tre fasi del movimento sindacale manifestatesi in forme diverse ed in tempi non uguali da paese a paese.
Una prima fase è quella che si può definire di “movimento”, cioè dell’intervento nelle contraddizioni che esplodevano nella fase di crisi imperialista e che rimettevano in discussione la gestione socialdemocratica del movimento operaio; questa fase va dal 1917 alla fine della seconda guerra mondiale.
La seconda fase è quella della “egemonia”, cioè l’affermazione della dittatura del proletariato, e della “cinghia di trasmissione sindacale”, nella quale il rapporto di massa dei partiti comunisti si sviluppa moltissimo grazie al ruolo dei sindacati diretti dai partiti, ma non schierati, almeno formalmente, sul piano politico ed ideologico. Questa è la fase che dura fino agli anni ’70 e durante la quale nell’ultimo periodo si accumulano le contraddizioni ed i ritardi.
Infine, la terza fase è quella del “declino nella fase imperialista” del movimento sindacale di classe, quando la crisi del movimento comunista, e la ripresa deH’imperialismo, apparentemente riporta la situazione alla condizione precedente alla prima guerra mondiale ed alla subordinazione delle direzioni riformiste al potere del capitale.
2. LA CONDIZIONE ATTUALE
L’intreccio dei tre piani descritti fornisce una organicità delle fasi e degli eventi che hanno caratterizzato il movimento sindacale in Europa ed in Italia in particolare nel ’900.
È evidente che se non vogliamo rimanere fermi nella sola esperienza pratica, per quanto di per sé elaborata, e se si vuole sapere in anticipo, se possibile, cosa c’è dietro l’angolo, siamo chiamati a misurarci con un adeguato livello di “astrazione” sul movimento sindacale e sulla realtà complessiva che oggi la circonda. Per fare questo bisogna cominciare ad analizzare gli elementi oggettivi che caratterizzano la situazione attuale che vanno sicuramente confrontati con i periodi precedenti ma dai quali non possiamo farci condizionare. Poiché la storia non si ripete ci si deve sforzare di capire quali sono le caratteristiche che concretamente definiscono la fase attuale ed i possibili sviluppi futuri.
2.1 LE CARATTERISTICHE GENERALI
Nel descrivere le varie fasi di sviluppo e di crisi del capitalismo, e gli effetti di questi sul conflitto di classe, si è definito l’ultimo periodo del ’900 come ripresa deH’imperialismo. Questa valutazione, pensiamo che definisca correttamente la fase attuale. I motivi di fondo sono molteplici e non entriamo su questi nel merito (crisi dei paesi socialisti, rivoluzione scientifica e tecnica, ecc.); certo è che oggi l’egemonia del capitale è totale e globale. Ciò non significa che non ci siano contraddizioni specifiche e concrete che determinino un conflitto di classe “di bassa intensità”, almeno nei paesi imperialisti, né significa che non si incomincino ad intravedere alcune contraddizioni di fondo che possano riproporre una nuova fase di crisi e di possibile rivoluzione. Anzi, su questo piano si può sostenere che siamo in un momento in cui queste contraddizioni diventano di nuovo evidenti e dobbiamo capire sempre meglio come queste contraddizioni si manifesteranno.
Analizzando, però, la questione sindacale, cioè un intervento che deve fare i conti qui ed ora con la realtà, non si può prescindere dalla situazione che stiamo vivendo oggi, con una manifesta e forte egemonia borghese con una fase che anche nella crisi è però sostanzialmente di tenuta economica che, quanto meno, si protrarrà per un certo numero di anni.
2.2 IL NEOCORPORATIVISMO
Questo periodo di forzata stabilità e di apparente sviluppo, seppure distorto ed antisociale, ha degli effetti sulle strutture politiche dei paesi imperialisti e, pertanto, anche su quelle dei sindacati.
Affrontare la questione dei sindacati concertativi esistenti (in Italia CGIL-CISL-UIL) è una questione complessa ma che va vista anche in relazione alla storia del sindacalismo e del movimento operaio occidentale che, seppure con accezioni diverse da paese a paese, ha seguito le tracce che abbiamo esposto in questo documento.
In primo dato da evidenziare è che nei paesi imperialisti si è affermata una forte aristocrazia salariata (non più solo operaia), espressione e derivata sia dalle esigenze politiche di egemonia del capitale sia dalle esigenze economiche di crescita della domanda nei mercati sviluppati.
In questo contesto i sindacati storici del movimento operaio hanno mantenuto, paradossalmente, la funzione “leninista” della cinghia di trasmissione, ma non della dittatura del proletariato bensì di quella della borghesia. I sindacati sono divenuti un punto di mediazione e di rapporto continuo tra lo sviluppo dei paesi imperialisti e le esigenze del lavoro dipendente di redistribuzione della ricchezza prodotta. Questa condizione è ben diversa da quella dei sindacati riformisti di inizio ‘900 che uscivano, invece, da uno sviluppo iniziale del movimento operaio che, comunque, si manifestava attraverso una accentuata lotta di classe, nonostante l’esito politico di tipo riformista.
Il neocorporativismo di cui stiamo parlando somiglia molto più al sindacalismo di tipo fascista, con forme e dinamiche diverse, adeguate ad una fase di democrazia formale del capitalismo.
Rispetto a questa valutazione l’idea di lavorare nei sindacati reazionari sembrerebbe calzante e da riproporsi se non ci fosse una ulteriore osservazione da fare.
Infatti, l’idea di lavorare nei sindacati reazionari era legata ad una fase di crisi dello sviluppo capitalista (Russia prima del 1917, Italia prima della seconda guerra mondiale) che oggi non è affatto data; quindi è improbabile mettere in crisi le direzioni riformiste dei sindacati senza una loro crisi politica. Di questa condizione se ne può prendere atto empiricamente nel lavoro quotidiano già da tempo e la riflessione che stiamo facendo la supporta teoricamente, con una avvertenza però da tenere ben presente.
Se le scelte sono legate alla fase concreta che viviamo, è evidente che ad una modifica di questa non si può rimanere feticisticamente legati alle vecchie forme organizzative e, nello stesso tempo, si deve essere molto attenti agli effetti che i processi di trasformazione oggettiva producono nelle strutture sindacali esistenti.
2.3 LA LETARGIA DEL CONFLITTO DI CLASSE
Siamo in una fase di assenza del conflitto di classe generale, nella quale il dato economico delle specifiche condizioni dei settori sociali (lavoro dipendente, autonomo, non occupato od occupato saltuariamente) è sommerso da quello ideologico prodotto dalla egemonia borghese. In altre parole ora non è realistico aspettarsi momenti di lotta generale e politica che coinvolgano grandi masse di lavoro dipendente.
Se questo è il quadro generale, è bene ribadire che a questa condizione di subordinazione e di sopportazione passiva possono sfuggire settori e categorie e parti anche consistenti di lavoratori che vengono penalizzati dalle politiche generali. L’azione sindacale deve perciò tenere ben presente che l’ambito reale in cui si muove è un ambito limitato, finché permangono le condizioni generali attuali.
2.4 MODIFICA PRODUTTIVA E COMPOSIZIONE DI CLASSE
Alle difficoltà generali dovute al momento attuale ne va aggiunta un’altra che apporta una modifica qualitativa/quantitativa da capire ancora bene nei suoi effetti concreti ed ideologici. Non siamo solo dentro una ripresa imperialista ma questo, nel corso degli ultimi decenni, ha prodotto una modifica forte della composizione di classe e dell’apparato produttivo.
Abbiamo già affrontato queste questioni nelle discussioni e iniziative fatte sull’imperialismo del nuovo secolo ma vale la pena qui riprendere alcune questioni centrali.
La prima modifica, allo stato difficilmente smentibile, è che dall’inizio dell’industrializzazione (cioè dalla metà dell’800) lo sviluppo scientifico e tecnologico ha permesso, per la prima volta, al capitale di disperdere il nocciolo duro della classe operaia e del proletariato più in generale e, cioè, la grande fabbrica della produzione di massa. La grande fabbrica era lo snodo inevitabile della produzione di serie capitalista ed il punto di accumulo della contraddizione di classe fondamentale, il luogo di intervento e di organizzazione del conflitto di classe al livello più alto. Il decentramento, la delocalizzazione, l’esternalizzazione, la crescita del lavoro autonomo salariato a cottimo, hanno permesso la modifica dei rapporti di forza nei luoghi della produzione materiale a favore del capitale, accentuata anche dall’aumento della disoccupazione, dalla riduzione dello Stato sociale, dalle politiche immigratorie, ecc.
Ne deriva che la sconfitta del movimento operaio non deve fare i conti solo con il dato politico ma anche con quello strutturale. La classe operaia più conflittuale legata allo sfruttamento più brutale è stata delocalizzata all’estero mentre nei paesi imperialisti sono state mantenute le produzioni meno manuali, i servizi e la parte più evoluta del processo produttivo, anche in termini di produzione ad alto contenuto di valore aggiunto.
2.5 COMPOSIZIONE DI CLASSE E COSCIENZA
Il contesto sul quale deve essere ricostruito il movimento sindacale ci obbliga a tenere conto del dato strutturale della modifica qualitativa sul piano professionale della forza lavoro. Questa modifica implica 48
un aumento dei contenuti culturali, strategicamente probabilmente favorevole, ma, nella contingenza politicamente più arretrata, dei lavoratori che trasformano la concezione che hanno di se stessi e del rapporto con la realtà attuale e dando spazio ad una falsa coscienza sulla differenza con il movimento dei lavoratori storico, che è stato sostanzialmente operaio e contadino.
Nello stesso sistema produttivo intemazionalizzato esiste una divisione geografica, che prima non c’era, tra le parti della classe più sfruttata (la produzione delle periferie perfino con forme di ritorno di schiavismo industriale) e quella parte che vive una condizione sicuramente diversa e meno drammatica, in linea generale, collocata al centro dei paesi imperialisti.
Ne consegue che la ripresa politica del movimento dei lavoratori, l’identità di classe, l’organizzazione nei paesi imperialisti, la dimensione intemazionale del conflitto di classe, sono gli elementi qualitativi con i quali fare i conti per ragionare di nuovo sulla coscienza di classe in questo nuovo secolo, inevitabilmente legata ad un nuovo processo di organizzazione.
3. IL SIGNIFICATO DEL SINDACALISMO INDIPENDENTE
È evidente che nell’analizzare i dati oggettivi attuali dobbiamo affrontare anche l’esperienza del sindacalismo di base nel nostro Paese, tenendo presente che si tratta di un’espressione soprattutto nazionale e, dunque, capace di rappresentare l’emergere di una nuova tendenza generale e perciò anche intemazionale, oppure affermare che si tratta di una manifestazione specifica di un conflitto di classe, parziale, che probabilmente in altri paesi si esprime in forme e modi diversi.
Quali sono le condizioni oggettive che determinano la possibilità dell’organizzazione nel nostro Paese di un sindacalismo indipendente, sul piano della indipendenza strategica di classe e non solamente politica, dal sindacalismo storico?
La prima è quella del neocorporativismo che impedisce ogni possibile dialettica di classe all’interno dei sindacati “reazionari”. Questo avveniva anche nel fascismo ma era una condizione apparente e transitoria, perché quel corporativismo doveva sostenere la situazione di crisi dell’imperialismo fascista che non poteva protrarsi molto tempo, come poi è avvenuto. Oggi la condizione è quella, come abbiamo già scritto, di una tenuta generale; ne segue che una tattica che non tenga conto delle contraddizioni effettive non serve. Quindi, se c’era una possibilità di ripresa del sindacalismo di classe questo poteva avvenire solo fuori dai sindacati storici. Ovviamente la condizione sarebbe stata diversa in una condizione di assenza di democrazia formale, ma questa constatazione non fa che confermare la tenuta del capitalismo e dunque l’inutilità del fascismo per il mantenimento dell’egemonia.
L’altra condizione è strutturale, riguarda l’assetto produttivo del nostro Paese. Il movimento operaio delle fabbriche è stato ridimensionato dal decentramento e dalla delocalizzazione, cioè da una modifica reale dei rapporti di forza, attuata tramite nuove dimensioni produttive e tecnologiche.
Per quanto riguarda, invece, l’assetto produttivo attuale composto dal terziario esplicito e implicito, dalla produzione a carattere immateriale, intesi in senso ampio, e da un ruolo di rilievo dei servizi di carattere pubblico, il padronato si trova di fronte ad una contraddizione effettiva. Infatti, è vero che in questo settore si possono adottare modifiche giuridiche e formali ma non è possibile nei servizi, privati e pubblici, né delocalizzare la produzione, per troppi ovvi motivi, né “smontare” concretamente la produzione (di servizi) com’è stato possibile per la produzione di merci. A questa condizione si aggiunge rinsopprimibile funzione pubblica di alcuni servizi, che pesano anche sul piano politico, e una inevitabile attenzione nel ridurre i redditi da lavoro dipendente nei paesi imperialisti per la crisi di domanda che ne deriverebbe, e che già si manifesta in vario modo a livello mondiale.
Si possono, perciò, estemalizzare i servizi, spezzettare le aziende in varie società, modulare e precarizzare diversamente i rapporti di lavoro ma non si può spostare, dividere, annullare l’erogazione di servizi. Per quanto si faccia in termini di ristrutturazioni, riconversioni etc., la condizione attuale del sistema produttivo deve ancora tenere conto della forza-lavoro e dunque di rapporti di forza difficilmente modificabili sul piano strutturale (conta poi ovviamente la soggettività dei lavoratori per la trasformazione dei rapporti sul piano strutturale in reali rapporti di forza).
Che dimensione ha questa possibile prospettiva di organizzazione sindacale indipendente di classe? Su questo non possiamo “dare i numeri” e possiamo solo fare riferimento ad alcuni dati oggettivi.
Di fronte ad una limitatezza sul piano quantitativo, inteso come adesioni, c’è un dato che può essere significativo e di orientamento e che viene dalle varie consultazioni fatte per le RSU. Infatti dove vengono svolte le elezioni nelle RSU, cioè nei settori di lavoro forti (Pubblico Impiego, servizi a rete, grandi fabbriche) generalmente qualsiasi lista di opposizione a CGIL-CISL-UIL ha un risultato attorno al 20-30%. Se si prende questo dato come credibile, e tenendo conto che nei settori più deboli i risultati sarebbero sicuramente peggiori per i sindacati confederali, si può sostenere che esistono le condizioni oggettive, data la stabilità del quadro generale ed il livello di democrazia formale, per dare una nuova storia al movimento sindacale nel nostro Paese.
Questa valutazione va presa però come possibilità e non come realtà, in quanto tale passaggio è possibile con una soggettività adeguata che si deve cominciare ad analizzare più a fondo.
4. LA SOGGETTIVITÀ
Si sono in precedenza definiti alcuni elementi che caratterizzano l’attuale condizione oggettiva e che sono relativamente confrontabili con le precedenti fasi storiche.
C’è però una questione centrale sulla quale siamo costretti ad un paragone diretto con la precedente condizione, ed è la questione della soggettività.
La crescita del movimento sindacale è legata alla crescita della società capitalista ma ha assunto una valenza politica e di alternativa sociale in quanto parte di un processo di trasformazione più generale. Questo processo seppure basava la propria esistenza su una realtà oggettiva era il prodotto anche di una soggettività organizzata, del ruolo dell’avanguardia della classe, in sostanza dell’azione dei partiti comunisti. Far crescere il movimento sindacale con quella condizione significava sapere come finalizzare l’attività sul piano strategico, quali obiettivi politici avere, quale struttura costruire a sostegno di un tale progetto, ecc. Avere a “portata di mano” una sintesi reale significava, come si dice oggi, mettere in “sinergia” il movimento sindacale con gli altri movimenti della società, in funzione di un obiettivo politico riconosciuto generalmente valido. La capacità razionale del partito di dirigere questo processo era il perno su cui poggiava la trasformazione rivoluzionaria, dove questo era possibile, o anche solo la modifica dei rapporti di forza tra le classi nei paesi capitalisti.
Cominciare a capire quale è oggi la funzione politica del sindacato è evidentemente impossibile se non si parte da una verità incontestabile: non esiste nessun progetto organico, nessuna compiuta soggettività organizzata, nessun partito che sappia dare al conflitto sindacale una concreta (e non solo teorica) funzione politica generale. Prendere atto di questa realtà è essenziale per poter cominciare a ragionare su come muoverci in questa condizione che va superata ma che oggi è assolutamente reale.
I limiti con cui dobbiamo fare i conti sono molteplici, a cominciare da quelli di carattere teorico, cioè di comprensione della realtà e di come affrontarla. Si possono anche fare gli elenchi, la rassegna dei limiti politici ed organizzativi ma si deve, soprattutto, capire che la sintesi di questi limiti è la constatazione che ora la proposta sul piano politico e strategico è molto meno incisiva e matura di quella sindacale.
Paradossalmente viviamo una condizione in cui la capacita di costruire il primo “tassello” strategico, cioè l’organizzazione politica, è più arretrata di quella che in teoria dovrebbe essere il prodotto di un passaggio teoricamente successivo, cioè il rapporto di massa che viene “logicamente” stabilito da un soggetto già compiuto.
È importante capire bene i limiti e la condizione in cui stiamo operando per non correre il rischio di ribaltare i termini della questione; infatti solo un progetto politico maturo può produrre una finalizzazione politica matura del sindacato.
Un profondo processo di transizione e trasformazione come quello in atto deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche, i vecchi soggetti produttivi, il ruolo dello Stato, le politiche economiche, ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione dell’organizzazione e delle modalità di sviluppo del sistema capitalistico. La ristrutturazione capitalistica ha di fatto dissolto le grandi fabbriche dove meglio si organizzava l’antagonismo di classe; queste sono di fatto smantellate e divise nei distretti, nazionali e internazionali, nelle imprese-rete, nelle filiere nazionali e internazionali, nei reparti produttivi ”confino” diffusi nel territorio. La modifica della struttura produttiva, i processi di riconversione e riassetto del sistema capitalistico hanno significato anche modifiche nei bisogni, modifiche nelle figure produttive, modifiche nelle soggettualità del lavoro e del non lavoro, modifiche nella struttura, nel ruolo e nel comportamento dello Stato.
Infatti, per comprendere e produrre dinamiche di conflitto sociale bisogna leggere in chiave marxista le tendenze di fondo della società capitalistica, a partire da come si presenta nella realtà attuale il modo di produzione capitalistico, che ha sempre le stesse caratteristiche e che però si accompagna ad una continua evoluzione e diversificazione dei modelli di produzione (in termini semplificati è il convivere del fordismo e di nuove forme cosiddette postfordiste), dei paradigmi dell’accumulazione (in termini generali l’accompagnarsi dell’accumulazione rigida alla cosiddetta accumulazione flessibile) e di conseguenza a cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nell’organizzazione del vivere sociale complessivo.
L’intenso processo di terziarizzazione che accompagna la fase dell’accumulazione, sempre più spesso a forti connotati di precarizzazione del lavoro, dei diritti e del sociale, non è spiegabile soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria. Sta mutando lo stesso modo di essere delle attività di servizio e di produzione in genere, creando così nuove figure del lavoro e del lavoro negato, in una composizione di classe che si trasforma, evidenziando forti elementi di dissenso e di conflitto verso le compatibilità dei processi produttivi capitalistici e verso gli altri processi economici, sociali e politici che ne derivano.
Questa coscienza della situazione è prodotta dalla convinzione che la realtà in cui operiamo è il risultato di un processo in cui la soggettività comunista in generale è costretta ad una fase di ridefinizione per ritrovare la spinta e la funzione giusta.
In conclusione non si può dimenticare che di fronte ad una soggettività politica parziale, cioè incapace di incidere a fondo nella realtà, le potenzialità del lavoro sindacale non potranno essere che parziali a loro volta.
Solo con il maturare della soggettività organizzata e di un progetto più organico dotato di strumenti che sappiano incidere e modificare effettivamente la situazione potremo trovare la piena potenzialità politica del rapporto con il lavoro dipendente e con il blocco sociale.
CREDITS
Immagine in evidenza: Carlo Novelli – Operai in sciopero
Autore del quadro: Carlo Novelli, 1974
Autore dell’immagine: Gianluca13
Licenza: public domain
Immagine originale ridimensionata e ritagliata