dal Documento Politico per l’Assemblea nazionale della Rete dei Comunisti, Roma, 23 marzo 2002
1. IL “DETERMINISMO” COMUNISTA
Se presupponiamo la parte finale del capitolo precedente e sosteniamo che si stanno ricreando, in termini storici e non immediati, le condizioni per una crisi di egemonia nella società capitalista attraverso un sistematico accumulo delle contraddizioni, diciamo implicitamente che il sistema capitalistico rappresenta una fase e un sistema sicuramente superabile della storia dell’umanità. E pertanto, semplicemente, affermiamo un principio storico delle aspirazioni del movimento operaio e di quello comunista.
Diviene però inevitabile fare una prima riflessione: nonostante tale convinzione fosse stata suffragata dai fatti per tutto il novecento questo passaggio non si è poi attivato, cioè quello che si poteva realizzare non si è poi realizzato, creando così una situazione inaspettata a livello mondiale. Perché c’è stata questa “sorpresa”? Perché, superata la fase rivoluzionaria intesa sotto tutti gli aspetti (cioè culturale, politico, sociale), del movimento comunista, si è cominciato a pensare, probabilmente quasi tutti abbiamo pensato, che il superamento del capitalismo ed il socialismo fossero ormai inevitabili, quasi automatici data la situazione. Certo c’è chi ha concepito questo superamento come la ripetizione dell’assalto al palazzo d’inverno oppure come sbocco di un lungo processo di democratizzazione condotto dalle masse popolari; comunque tutti hanno pensato, nel momento migliore a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, alla inevitabilità della transizione al socialismo.
In altre parole un atteggiamento deterministico, quasi religioso che mostrava la sua fede nei confronti della STORIA, ha impedito di capire la dialettica della realtà e la implicita possibilità della sconfitta. Sicuramente, dunque, lo schematismo del movimento comunista del ’900 ha pesato nella sconfitta e ci mostra tutto il suo limite, che potremmo definire “dogmatico”.
Questo determinismo mostra oggi una variante “eclettica” altrettanto pericolosa e limitante della prima. Infatti si sta affermando un punto di vista che vede nello sviluppo del movimento reale in sè, cioè della sua spontaneità, il punto di superamento dei limiti del vecchio movimento comunista. In altre parole, le contraddizioni molteplici della società capitalista, in qualche modo, producono da sole le contro tendenze di classe che, in un processo più o meno lungo, determineranno l’antagonismo cosciente dei prossimi decenni.
Ci sembra così che si passi da un determinismo storico ad un determinismo “sociale”, mantenendo intatta la visione religiosa, quindi, esterna alle scelte coscienti possibili. Anche questa visione non coglie la condizione reale della classe, se è di questa che vogliamo parlare e non solo di movimento politicoculturale, che di per sè è del tutto subordinata ed interna al meccanismo della produzione capitalista.
In altre parole la socializzazione della produzione ha prodotto una parcellizzazione ed una internazionalizzazione della classe che impedisce, oggi ancora di più che nel ’900, alle contraddizioni materiali di generare spontaneamente un processo politico cosciente. Questo, per essere chiari, non è un giudizio negativo sulla necessità di sviluppare movimento e, dunque, rimane importante raccogliere tutte le potenzialità che possono nascere dalle contraddizioni. Il dato che invece si vuole mettere in evidenza è che un processo di politicizzazione che pone il problema del superamento, per quanto in termini storici, del capitalismo non può fare a meno di una soggettività, e di una organizzazione conseguente, che nasca da una visione complessiva e non solo dalla somma delle specificità delle contraddizioni materiali.
È, infatti, proprio su questa questione che oggi abbiamo il primo elemento di discontinuità forte e radicale con la storia delle rivoluzioni del ’900.
Se sul piano delle condizioni oggettive si ripropongono in forme nuove le dinamiche storiche delle contraddizioni del capitalismo, per la prima volta ci troviamo in assenza assoluta di una soggettività compiuta che abbia la capacità di interpretare il mondo.
Vogliamo dire con molta chiarezza che non esiste oggi una teoria comunista, non nel senso di una analisi della società capitalista ma nel senso di una guida all’azione pratica; condizione questa fondamentale per non separare il generale dal particolare, la prospettiva dal contingente e per ridivenire una forza reale.
Su questo punto vanno concentrati gli sforzi, nazionali ed intemazionali, per rompere questo stallo storico. D’altra parte di quanto di questa soggettività rivoluzionaria ci sia bisogno lo sta dimostrando la storia di questi anni. Nessun nazionalismo, nessuna religione, nessuna ideologia umanitaria mostra palesemente la forza di contrapporsi e superare il sistema capitalistico e le sue contraddizioni. Anzi sempre di più il rifiorire di queste “identità” mostra di essere un prodotto ideologico della riaffermazione piena di un tale modo di produzione.
2. PER UNA CRITICA DEL COMUNISMO DEL ’900
Inevitabilmente è dalla critica che bisogna partire e della quale non bisogna avere paura, perché la sconfitta c’è stata, perché il capitalismo non è stato superato, perché le prospettive della trasformazione sociale sono di nuovo offuscate.
Sconfitta c’è stata, certo, ma c’è stata anche una lotta durata settanta anni in cui le sorti si prospettavano in modo diverso, anzi addirittura opposto. Allora, la lettura di questi eventi deve tenere inevitabilmente conto di tutti gli elementi, cioè della sconfitta ma anche della fase ascendente e dei suoi effetti. Ciò perché un percorso storico non è, non è mai stato, lineare e, dunque, in questa dialettica concreta tra crescita e crisi, tra passato e futuro bisogna entrare nel merito, avviare una fase non breve di riflessione e di confronto che si misuri con la storia ed i suoi esiti dal punto di vista dei comunisti.
È possibile ora fare questo? Cioè esistono le condizioni, a dieci anni dalla fine dell’URSS e del movimento comunista storico dell’occidente, per cominciare a dare delle valutazioni storicamente valide? E ancora, l’evoluzione degli eventi prodotti dalla fine del movimento comunista del ’900 hanno disvelato in modo chiaro e completo i loro effetti ultimi?
Questo limite non ci deve impedire di cominciare a riflettere, avviando un lavoro che abbia l’obiettivo di collocare storicamente nel modo giusto gli eventi, di capire i punti di caduta del pensiero comunista, di cogliere il peso delle condizioni materiali in cui si è svolta la vicenda della rivoluzione sociale del secolo passato. Perciò se possiamo, anzi dobbiamo, avere chiari, definendoli, i “parametri” che ci permettano di cominciare a delineare un percorso di analisi, al contempo non possiamo certo pretendere di avere già chiare le conclusioni del lavoro da fare; non possiamo, cioè, ribaltare la causa e l’effetto, non possiamo sostenere delle tesi che portano a delle conclusioni già decise.
Naturalmente questo non significa che si riparte da zero e che chi si ritiene comunista non abbia già un’idea in parte definita; ciò è inevitabile, come è inevitabile la presenza di valutazioni e punti di vista diversi.
Quello che vogliamo dire è che è necessario in via preliminare individuare una metodologia, dei riferimenti teorici e storici che siano di guida nel lavoro. Questo non è un problema solo nostro ma riguarda chiunque voglia dare sufficiente credibilità ad una critica, non di comodo ma ovviamente non negativa a priori, del movimento operaio e comunista.
Questa premessa metodologica è necessaria perché, su questo dobbiamo essere molto netti: non condividiamo un approccio “politico” a questa tematica. Tale approccio, infatti, ha il difetto di continuare la pratica di quel movimento che si vuole criticare, cioè una pratica che ha avuto non poca responsabilità nella crisi. Si tratta della cosiddetta “fallacia politicista”, cioè la tendenza a ridurre il significato di eventi storici al SENSO che si può avere e che è determinato dall’IMMEDIATO quadro della lotta politico-sociale.
Non dobbiamo subordinare il nostro giudizio storico alle esigenze politiche contingenti, come non abbiamo santi da beatificare che vadano oltre la nostra capacità razionale di comprendere la realtà.
La Rete dei Comunisti, nelle sue articolazioni politiche e culturali, ha lavorato in questi anni sull’analisi del capitalismo in questa fase storica e dei suoi meccanismi economici ed oggettivi. Con questa prima Assemblea Nazionale vogliamo avviare una nuova fase di elaborazione e ricerca che affronti organicamente il nodo della soggettività e dunque anche una visione critica della nostra storia. Naturalmente sappiamo bene che la “soggettività” non si studia a tavolino ma è il prodotto del rapporto 22 continuo e costante con le dinamiche sociali e politiche reali, nondimeno pensiamo che sia necessario anche su questo piano un lavoro di carattere teorico.
Dunque, vogliamo ora definire i parametri generali sui quali cominciare, in modo più organico possibile, l’elaborazione che ci stiamo proponendo.
2.a SOCIALISMO REALIZZATO E VISIONE MARXISTA DELLA STORIA
Il primo “asse” di ricerca è legato alla necessità di collocare l’esperienza dei paesi socialisti, nella loro evoluzione, fine e trasformazione per quelli rimasti, dentro la concezione marxista della storia.
È innegabile la funzione reale che hanno avuto queste esperienze storiche; ciò viene ammesso universalmente. Allora capire se la loro evoluzione e conclusione siano una smentita di fatto o meno per una visione marxista è un elemento che non può essere ignorato.
La storia si è presentata come necessità dell’umanità di emanciparsi dalla condizione naturale, cioè di liberarsi dai condizionamenti materiali, quali quelli della scarsità dei beni alimentari, della precarietà della salute, della difesa dell’ambiente esterno, ecc. La necessità delle risposte a questa condizione naturale hanno prodotto cultura e conoscenza, organizzazione sociale ed istituzioni funzionali ad un livello sempre più alto di produttività sociale. I vari modelli sociali che si sono creati, e che si affermavano nel percorso storico, venivano a loro volta superati da altri modelli dove la produttività sociale complessiva era maggiore.
Il capitalismo, in quanto percorso solo apparentemente lineare, rappresenta il grado più avanzato di produttività sociale mai raggiunto e dato dallo sviluppo della scienza e della tecnica, dalla divisione mondiale del lavoro, da una complessa organizzazione culturale, sociale e politica. Si è scritto “apparentemente lineare” per una precisa motivazione. Infatti, non è vero che il processo storico ha marciato sempre nella stessa direzione, in quanto a periodi di sviluppo sono succeduti periodi di crisi ed oscurantismo. Ad esempio, è sufficiente osservare le vicende del capitalismo del ’900 per capire in quale crisi profonda si sia trovata questa società nei trenta anni che vanno dal 1915 al 1945, cioè tra la prima e la seconda guerra mondiale. Non è certo un caso che la rottura rivoluzionaria bolscevica si è avuta proprio nel 1917 in Russia e non nei punti più avanzati dei paesi capitalisti; non è stato certo merito della sola capacità strategica di Lenin il determinarsi della prima esperienza socialista nella storia dell’umanità.
Se questa dinamica reale dello sviluppo è condivisibile, è rispetto a questa che siamo chiamati a dare un primo giudizio sull’esperienza socialista del XX secolo. Le domande a cui rispondere sono molte, ma quello che ci interessa mettere qui in evidenza è che il giudizio sulle esperienze socialiste del XX secolo devono fare i conti con una visione dello sviluppo storico, ripetiamo non deterministico, proprio del marxismo; solo così possiamo collocare gli eventi dentro un percorso che non contempli il capitalismo come orizzonte ultimo dell’umanità, come ci vogliono far credere i suoi apologeti.
2.b SVILUPPO GENERALE E CONDIZIONI MATERIALI NEL SOCIALISMO
Formulare un’ipotesi di trasformazione sociale può essere determinante per tracciare un percorso che potrebbe poi realizzarsi veramente; ma la sua realizzazione deve fare i conti con le condizioni concrete in cui si sviluppa, in quanto è nella realtà che avvengono i processi. Dunque, un giudizio sulle esperienze socialiste non può non tenere conto delle condizioni concrete in cui si sono sviluppate, rifuggendo però dall’utilizzo di queste condizioni come “scusante” della imperfezione del socialismo realizzato. Pertanto l’analisi delle condizioni concrete ci deve aiutare a capire la maturità effettiva di un processo di trasformazione sociale e quanto questa maturità/immaturità abbia contribuito ai limiti dell’esperienza storica.
Sul merito, i piani di ricerca da prendere in considerazione sono almeno due. Il primo è quello della condizione materiale, economica, sociale dell’esperienza storica del ’900. Il secondo è quello dello sviluppo complessivo raggiunto dalle forze produttive in quel secolo, a prescindere dalle caratteristiche sociali dei sistemi esistenti.
Sulla prima questione le cose sono chiare; nel senso che la condizione dell’arretratezza ha accompagnato tutta l’esperienza del ’900, partendo dalla rivoluzione del 1917 e seguendo la nascita dei vari paesi a conduzione socialista, fino alla rivoluzione nigaraguense del 1979. È anche noto che in nessun paese sviluppato c’è stata un’esperienza di trasformazione sociale ed i partiti comunisti sono rimasti fuori dal potere e, dunque, dalla possibilità di costruire un socialismo in condizioni diverse ed avanzate.
Su questa arretratezza si incentrano alcune interpretazioni contrapposte. Alcuni affermano che è stata proprio la debolezza strutturale a causare la crisi dei paesi socialisti, altri, invece, affermano che il comuniSmo “totalitario” è stato uno “strumento” per raggiungere il livello di sviluppo dell’occidente capitalista.
Su tali ipotesi perciò va sicuramente approfondito il lavoro, tenendo ben presente che potremmo essere soggetti ad una sorta di “illusione ottica”. Infatti, il XX secolo ha visto una separazione netta tra paesi sviluppati e paesi arretrati in cui hanno contato nelle rotture rivoluzionarie le condizioni di classe (vedi gli operai in Russia nel 1917), le condizioni politiche (il nodo irrisolto della democrazia) e la questione nazionale (la Cina, Cuba, il Vietnam, ecc.). Oggi alcune di quelle condizioni sono mutate, anche se in parte mantengono una loro vitalità, come ad esempio la questione dell’indipendenza nazionale, ed altre invece hanno aumentato il loro peso specifico. Questo cambiamento però non ha ridotto le distanze tra paesi sviluppati e paesi arretrati, anzi queste differenze si sono accentuate. Infatti, seppure la produzione oggi avviene su filiere internazionali e la condizione di classe si è allargata laddove prima c’erano solo i contadini, non si è andati ad una omogeneizzazione delle condizioni sociali ed economiche, neppure sul piano tendenziale, ed il mercato non si è sviluppato in modo armonico. Anzi stiamo assistendo ad un restringimento delle capacità di consumo ai soli paesi avanzati, estese solo a percentuali ridotte di popolazione dei paesi periferici.
Negli anni ’50 e ’60 lo sviluppo economico, il famoso boom, ha modificato sostanzialmente la condizione del proletariato e delle classi intermedie nei paesi avanzati; l’attuale sviluppo ha effetti opposti. Questo significa che la contraddizione avuta nel ’900 tra paesi sviluppati ed arretrati non è stata affatto superata, pur essendosi realizzata una integrazione economica e finanziaria molto avanzata. Se ciò è vero in termini generali, nell’analisi di classe significa che ci potremmo trovare di nuovo di fronte alla divaricazione tra la possibilità nei paesi avanzati di accedere alla gestione delle più moderne forze produttive, per un proletariato che rimane sostanzialmente riformista, e la necessità della rottura rivoluzionaria, solo per un proletariato oppresso dallo sfruttamento ma che si trova, anche oggi, ai margini dello sviluppo, e dunque nell’Est europeo, in gran parte dell’Asia ed in America Latina.
Il riproporsi oggi di questa divaricazione, a quasi un secolo di distanza dalla rivoluzione bolscevica, è un elemento da tenere in seria considerazione nella valutazione sul passato e nella definizione di un percorso storico che prenda in considerazione il superamento del capitalismo.
L’altro dato materiale, da prendere in considerazione, prescinde dalla specifica condizione dei paesi socialisti ed attiene al livello di sviluppo ed alle caratteristiche della produzione nel ’900.
All’inizio del secolo il taylorismo trasforma la produzione e si avvia un processo di ristrutturazione che fa crescere in modo decisivo la produttività sociale, aumentando la divisione del lavoro generando, poi, la produzione di scala e lo Stato Keynesiano. L’Unione Sovietica alla sua nascita non può far altro che fare riferimento a questo tipo di produzione generato da un processo sociale ed economico potente, e di carattere mondiale, adattandolo alla propria condizione. La fabbrica di Togliattigrad in URSS non è nient’altro che la versione sovietica della produzione di scala in un momento in cui non apparivano imminenti modifiche sostanziali ai processi produttivi, diventando così una sorta di simbolo di una sostanziale parità tra i due sistemi sociali antagonisti.
Il capitalismo stesso per superare questo modello produttivo deve attendere la fine del ’900, e non attiva spontaneamente il cambiamento ma lo fa sotto la spinta di un forte ciclo di lotte operaie e di liberazione degli anni ’70.
Poiché oggi sappiamo che quel livello di sviluppo era superabile, e l’URSS non l’ha superato, quanto questo ha pesato nella possibilità di sviluppo a pieno di una società socialista, a prescindere dalle stesse condizioni di partenza della rivoluzione sovietica?
La rigidità del sistema fordista aveva la necessità, per le sue caratteristiche precipue, di una gestione autoritaria della produzione; nel processo di industrializzazione dell’URSS, ma non solo, quanto ha pesato questa caratteristica non politica ma strutturalmente insuperabile all’epoca?
Quanto questa necessità “oggettiva” si è trasferita nella gestione del partito e si è protratta oltre la fase inevitabile della industrializzazione, producendo effetti politici devianti sulla natura stessa del partito e delle sue funzioni?
Anche qui le domande possono essere molte; ma il punto da mettere in evidenza è quello di capire se la fase di produzione che definiamo “fordista” conteneva in sè le possibilità, oppure non le aveva o le aveva in parte, per la costruzione di un sistema socialista solido.
Questo tipo di riflessioni implicano di conseguenza la necessita di affrontare in un determinato modo, piuttosto che in un altro, la questione del partito, quella dello Stato, della partecipazione democratica e, dunque, il giudizio sulla capacità soggettiva del movimento comunista, in special modo nell’URSS.
2.c IL MOVIMENTO COMUNISTA
E arriviamo al “nocciolo duro” della questione. Infatti, se le condizioni generali incidono sulla soggettività questa lo è in quanto comprende e modifica le condizioni stesse. Nelle potenzialità dello sviluppo storico, ma solo nelle potenzialità, è possibile dare vita ad una società non soggetta alle contraddizioni interne che caratterizzano la società capitalistica, cioè è possibile superare la separazione tra le condizioni date e le necessità umane generali. È evidente che un ruolo decisivo in questa prospettiva lo svolge la razionalità nelle sue molteplici espressioni e, dunque, la sua capacità di modificare e superare lo “stato naturale” dell’uomo. Questo molto semplicemente, significa che le concezioni generali e le scelte concrete fatte dai partiti e dai suoi rappresentanti hanno pesato sulla direzione presa nel corso dei decenni non meno delle condizioni oggettive di partenza.
Una valutazione critica, perciò, deve tenere conto della interazione tra condizione oggettiva e soggettiva e della limitatezza verificata di quest’ultima. Solo in questo modo è possibile ragionare sulla esperienza dell’URSS, dello stalinismo, dell’incapacità del PCUS di affrontare il nuovo livello raggiunto nella seconda metà del ’900. Come pure si deve dare conto delle spaccature nate all’interno del movimento comunista internazionale e delle scelte che hanno portato la Cina ad essere quello che è oggi.
Spesso, nei paesi “sviluppati” siamo molto critici sugli altri ma evitiamo di fare i conti con noi stessi. Spiegare l’incapacità propositiva dei partiti comunisti dell’Europa occidentale rimasti bloccati nella loro funzione istituzionale, in particolare il PCI e la sinistra italiana in genere, non è una questione che può essere rimossa; come va anche spiegato il fatto che, pur esprimendo una posizione critica, pluridecennale, nei confronti dei paesi socialisti, gli stessi partiti comunisti dell’ovest si sono dissolti né più né meno come il PCUS. Forse la sola critica alla assenza di dialettica democratica, pur giustificata,non coglieva i veri limiti dei partiti comunisti, rimasti travolti comunque tutti dalla crisi dell’89/’91.
Dentro questo contesto, e con il necessario distacco politico e storico, è possibile analizzare e criticare le tendenze e le personalità del movimento comunista, senza ricadere nel difetto di ergersi a difesa della VERA linea politica comunista.
Naturalmente se si vogliono capire i limiti della nostra esperienza storica bisogna cominciare dagli aspetti negativi che hanno accompagnato gli eventi e che, oggi, assumono un peso maggiore nella formulazione di un giudizio da dare in relazione alla verificata sconfitta.
Ma una valutazione piena della capacità soggettiva non può prescindere dai risultati complessivi prodotti dal movimento comunista. Potremmo fare un lungo elenco di effetti che vanno dal piano economico a quello sociale, fino ad arrivare a quello internazionale. Molto sinteticamente, invece, si vuole sottolineare che il movimento comunista, dal 1917 alle guerre di liberazione, alla impetuosa crescita del movimento operaio in occidente, fino alla fine degli anni ’70, ha messo effettivamente in crisi del sistema capitalista ed ha dato uno specifico ed autonomo ruolo a popoli che nella storia del capitalismo non lo avevano mai avuto, dall’Asia, all’Africa, all’America Latina. Non solo questo, ma la potenza di un tale movimento ha ingenerato, ad un certo punto, l’illusione che il processo avviato fosse irreversibile e questo anche nelle fila dell’avversario di classe. Facendo un paradosso potremmo sostenere che si è innestata ad un certo punto una “sindrome da onnipotenza”, che non ha tenuto conto della teoria dello sviluppo capitalistico, quindi delle sua capacità di trasformazione, che ha avuto vari effetti. Effetti che si identificano nel militarismo dell’URSS, nel frazionamento immotivato e irrazionale del movimento comunista che ad un certo punto ha fatto perdere il senso stesso della trasformazione come processo storico, senso ben presente nel pensiero marxista.
Forse da questa semplice constatazione, che può fare un qualsiasi militante comunista di vecchia data, cioè che ha vissuto il periodo storico degli anni ’60 e ’70, si riesce trovare un punto di partenza per capire dove la soggettività dei partiti comunisti ha ceduto.
Il credere alla irreversibilità degli eventi accaduti nel ’900, fuori da ogni visione materialistica, ha fatto prevalere nel fondamentale equilibrio tra politica e strategia, tra contingente e prospettiva, il primo termine dei due binomi, facendo perdere il livello più alto, teorico, storico, filosofico, politico del pensiero comunista e marxista; un riferimento strategico che in vece, esprimendosi proprio a quei livelli, aveva saputo portare a risultati inconcepibili fino ad allora e nell’arco di pochi decenni.
2.d COME E QUANDO IL CAPITALISMO HA VINTO LA SFIDA?
La fase finale del blocco socialista in Europa negli anni ’80 ha mostrato il prevalere di alcune tendenze proprie di quel tipo di sviluppo che portò ad una situazione stagnante e politicamente bloccata. Naturalmente anche quel periodo va analizzato alla luce di un percorso di riflessione iniziato precedentemente e determinato dal rapporto tra condizioni e scelte fatte dai partiti comunisti.
In questo documento, però, ci interessa ribaltare in qualche modo la chiave di lettura sui paesi socialisti, non partire da questi ma dall’analisi del capitalismo degli ultimi 20/25 anni del XX secolo. In altre parole, analizzare le caratteristiche dello sviluppo avuto in occidente permette di capire dove il campo socialista ha ceduto ed ha perso la sua funzione progressiva, avuta invece fino agli anni ’60/’70. Basti ricordare, ad esempio, la capacità di influenza che ebbero l’URSS ed anche la CINA verso i popoli del Terzo Mondo ed i movimenti di liberazione. A un certo punto questa capacità di rappresentarsi come elemento di sviluppo generale è passata dal campo socialista a quello capitalista. Partire da un’analisi mirata su questi punti indubbiamente ci mette in condizione di oggettivare la crisi dei paesi socialisti.
Sappiamo bene che un confronto su quello che è stata la storia del movimento comunista, soprattutto in un contesto di debolezza teorica come quello attuale, rischia di far emergere le divisioni piuttosto che i punti di vista unitari; questi, però, sono il prodotto di una esperienza e formazione precedente che oggi non è più adeguata. Lo sforzo che invece dobbiamo fare è quello di riuscire a distaccarci dalle nostre impostazioni soggettive per avere una visione più realistica del processo che vogliamo analizzare.
Includere in questo lavoro un approfondimento dello sviluppo capitalista non solo in termini generali, cosa che già stiamo facendo in qualche modo, ma più specificamente nel confronto storico con il socialismo che c’è stato, sicuramente può essere utile.
La ripresa dell’egemonia borghese è avvenuta sulla base del rilancio delle forze produttive, della sempre più forte socializzazione della produzione, dell’aumento potente della produttività sociale, dello sviluppo mondiale della produzione e del mercato. La borghesia ha così dimostrato che può ancora svolgere un ruolo generale, anche se è stata costretta a generare questo nuovo livello di sviluppo a causa proprio del potente conflitto di classe avuto nel XX secolo.
Se questa analisi è corretta, è allora vero anche che la produzione informatizzata, flessibile, mondializzata è una tappa obbligata (visto che alternative non ce ne sono, o comunque non sono emerse nel percorso storico concreto) nello sviluppo della produzione socializzata. Questa tendenza, che oggi si manifesta concretamente potrebbe essere presa come uno degli assi portanti della nostra ricerca teorica e politica.
Partendo da questo presupposto si può dire che lo scontro tra sistema socialista e capitalista a partire dagli anni ’70 è stato, in ultima analisi, un conflitto tra produzione di massa di tipo fordista e produzione informatizzata e mondializzata?
Perché i partiti comunisti non hanno effettuato loro questa trasformazione produttiva?
E, soprattutto, perché i partiti comunisti non hanno anticipato loro questa trasformazione, visto che è tutta interna ad una visione marxista dello sviluppo storico?
Le risposte a tali domande vanno individuate su varie linee di ricerca da sviluppare e, naturalmente, da interconnettere.
La prima linea di ricerca sembra essere quella che riguarda la capacità soggettiva dei partiti comunisti, ed in particolare del PCUS. Questi hanno dimostrato di non avere avuto gruppi dirigenti nella seconda metà del XX secolo all’altezza delle necessità storiche della trasformazione sociale. In altre parole perché si è consumata la separazione tra partito e teoria? Si rende necessaria una analisi degli errori teorici di fondo che si evidenziano non dalle sole elaborazioni dell’epoca ma dallo sviluppo storico successivo.
Al superamento strutturale dovuto all’aumento di produttività si è aggiunta una forte capacità di rappresentazione ideologica da parte dell’occidente. Nella prima parte del ’900 i concetti di emancipazione economica e sociale, di libertà e democrazia erano ad appannaggio del socialismo. Il miglioramento delle condizioni economiche della classe operaia occidentale, ed europea in particolare, l’aspirazione alla libertà dei popoli dal colonialismo, hanno trovato un riferimento forte alternativo al capitalismo. Il miglioramento economico e sociale avuto nel dopoguerra, la corsa alla “scoperta dello spazio” in competizione agli USA e il crescere del rapporto con i movimenti di liberazione e con le borghesie nazionali antiamericane, sono i fatti storici che negli anni ’50 e ’60 hanno dimostrato la capacità di attrazione del campo socialista. Negli anni ’80 la situazione viene completamente ribaltata e si riesce a dimostrare che è il capitalismo a rappresentare una prospettiva credibile per i paesi sviluppati ma anche per il resto del mondo. Sappiamo bene che così non è stato, basti pensare alla politica del debito estero fatto adottare ai paesi del Terzo Mondo che li ha resi ancora più subordinati agli USA ed al FMI.
Comunque, è riuscita a passare l’idea che l’occidente fosse l’unica prospettiva agendo su vari livelli. Il primo è stato quello economico, che nasce dal rilancio liberista e dalla finanziarizzazione che hanno accentuato la crescita quantitativa ed i consumi nei paesi avanzati ed in settori di borghesie nazionali, dimostrando così che la ricchezza poteva venire solo da una economia capitalista ed addirittura neoliberista sfrenata. Poi c’è stata la funzione dello sviluppo scientifico avuto nel settore civile e non solo militare. L’informatica come strumento di massa, la ripresa del primato scientifico degli USA nei confronti dell’URSS, i processi di automatizzazione della produzione; sono tutti elementi che hanno permesso una ripresa dell’egemonia occidentale a livello mondiale. Infine c’è stata la capacità di riprendere in mano la “fiaccola” della libertà, rappresentando i paesi socialisti come il regno dell’oppressione.
È chiaro che queste rappresentazioni sono false; ma non è questo il punto su cui ragionare. Va invece capito che l’offensiva ideologica borghese ha colto alcune esigenze di fondo, non solo materiali ma anche ideali, che riguardano tutta l’umanità.
Che questo sia avvenuto realmente lo dimostra non solo la crisi politica dell’Est ma anche la capacità attuale di far rimanere quella occidentale l’unica visione organica della realtà e del mondo, contrastata fino ad oggi solo da rappresentazioni che guardano più al passato che al futuro (vedi le ideologie etniche, religiose, tribali, ecc).
Dato strutturale e rappresentazione ideologica vanno perciò analizzate e viste assieme, in relazione alla incapacità dei partiti comunisti di essere all’altezza di una simile offensiva da parte del capitale.
2.e APRIRE IL CONFRONTO
Abbiamo individuato quattro ambiti di analisi e di confronto che naturalmente sono strettamente connessi tra loro; la separazione che abbiamo attuato ha solo la funzione di sistematizzare il lavoro e non di dividere gli argomenti. D’altra parte proprio la tematica che vogliamo affrontare, cioè la capacità soggettiva dei comunisti nel ’900, impedisce un’operazione di separazione meccanicistica dei processi. Forse questo per molti è scontato, ma riteniamo utile chiarirlo perché il lavoro da fare è complesso, impegnativo e vuole avere come obiettivo quello di dare organicità anche allo sviluppo del confronto.
Si pone, infine, il problema di individuare delle ipotesi di interpretazione complessiva delle vicende storiche sulle quali ovviamente qui non ci sentiamo di pronunciarci.
Il socialismo e la sua crisi sono state in realtà una tappa di un processo storico che è cominciato e non affatto concluso?
La crisi del socialismo è stato il prodotto, sostanzialmente, di errori ed incapacità soggettive dei partiti comunisti?
Su queste ed altre ipotesi crediamo che sia giunto il momento di aprire un confronto più largo possibile.
3. IL PARTITO
Il nodo del partito, cioè della soggettività organizzata, si trova sulla strada della ricostruzione di una prospettiva comunista e non può essere rimosso. D’altra parte è evidente che oggi non c’è nessuna risposta bella e pronta che garantisca la “giusta” via e, quindi, è necessario, comunque, andare a fondo di una riflessione ampia sullo specifico.
Oggi parlare di partito comunista significa innanzitutto parlare di partito di massa. I partiti comunisti del ’900 da organizzazioni di avanguardie sono approdati, dentro una trasformazione storica ed anche di tipo sociale, alla costituzione di partiti di massa. Questo percorso è stato sicuramente inevitabile e giusto, in quanto l’idea della rivoluzione si è incarnato, nello sviluppo storico concreto, in masse sempre più ampie di classe operaia, di proletariato e di popoli. Il partito di massa è però stato anche l’espressione della crisi. Nel momento in cui questi partiti, sia dell’est che dell’ovest, rappresentavano grandi masse (apparentemente?) paradossalmente hanno esaurito la funzione rivoluzionaria avuta nel ’900. Si tratta naturalmente solo di un’affermazione, peraltro anche schematica, non di meno la realtà empiricamente rilevata è stata questa.
Una riflessione non può perciò ignorare questo dato, dando per scontato che il partito di massa sia comunque e sempre un risultato acquisito. Su questo cercheremo di fornire un primo e generale contributo.
Vorremmo partire dal dibattito congressuale interno al PRC, in quanto rappresenta un fatto sintomatico ed interessante su cui riflettere. Dentro al PRC si sta sviluppando un confronto che, approssimativamente, vede contrapposta una posizione in cui il partito di massa deve rimanere lo strumento principale dell’agire politico dei comunisti ad un’altra secondo la quale il partito, invece, deve privilegiare una prospettiva interna al movimento politico antiglobalizzazione, “rompendo” così i confini politici e organizzativi del partito stesso.
Non ci interessa entrare, al momento, nel merito del confronto politico in atto, ma vorremmo dare dei giudizi osservando questo dibattito dall’esterno. Una prima chiave di lettura più immediata potrebbe essere quella di uno scontro tra parti diverse del partito che, per motivi di merito e di relazioni interne, si fronteggiano esprimendo due visioni diverse, dentro comunque ad una concezione unitaria del partito di massa. C’è però un altro punto di vista che potrebbe “oggettivizzare” il confronto in atto. Il punto centrale del contendere è, infatti, la relazione tra le prospettive di una organizzazione comunista che in qualche modo sono definite, almeno nelle tendenze, e la necessità di incidere qui ed ora nella situazione politica contingente con le potenzialità ed i limiti che questa pone concretamente.
Dal nostro punto di vista i problemi dei comunisti e del loro possibile partito richiedono oggi risposte ed hanno esigenze che non possono essere solo quelle politiche contingenti, anzi sempre più hanno bisogno di ritrovare le motivazioni di fondo della propria esistenza e ragione storica. D’altra parte le esigenze politiche immediate in un paese come l’Italia, e dunque un paese capitalisticamente avanzato, oggi non trovano necessariamente la loro risposta in una organizzazione comunista per quanto “moderna” possa questa essere. In realtà queste due esigenze non sono affatto in contraddizione ma hanno bisogno l’una dell’altra, dentro però una giusta ed organizzata relazione.
Il fatto che le suddette esigenze debbano avere come relazione organizzata il modello del “partito di massa”, sia nella versione “partitista” che in quella “movimentista”, può divenire una contraddizione che da una parte può portare a rinunciare alle prospettive, e, dunque, a lungo andare alla natura stessa di un partito comunista; dall’altra parte si può arrivare a rifluire in una condizione di difficoltà dialettica, quanto meno, con le dinamiche politiche e sociali più generali che comunque si esprimono.
Le difficoltà politiche, allora, potrebbero essere il prodotto di una contraddizione che nasce da una modifica, insufficientemente valutata nei suoi effetti, della condizione storica attuale in cui vivono i comunisti e che non può non incidere anche sulle caratteristiche della loro organizzazione. D’altra parte il nodo della soggettività organizzata rimane come punto centrale che può avere solo come possibile alternativa uno sviluppo di movimento che nasce dal conflitto di classe e sociale, e dalle contraddizioni stesse dello sviluppo capitalista.
In altre parole, è superata nel contesto generale odierno la necessità per la classe di darsi una organizzazione complessiva?
Oppure, è sufficiente la capacità del movimento per affrontare le nuove prove politiche?
A queste impegnative domande va data una risposta inevitabilmente complessa che qui accenniamo solo nelle sue linee generali.
La cosiddetta “globalizzazione” ha come effetto concreto la generalizzazione dell’attuale forma in cui si presenta e si sostanzia il modo di produzione capitalistico (MPC). È per questo che oggi si assiste ad una fortemente incisiva tendenza alla proletarizzazione diretta ed indiretta. In altre parole, ed è anche statisticamente provato, è aumentato fortemente a livello mondiale il lavoro dipendente e salariato ed il lavoro autonomo ha subito un processo di subordinazione al capitale finanziario, oggi determinante sul controllo della produzione di questi lavoratori. Le caratteristiche di questa nuova condizione operaia ed intellettuale sono una forte divisione del lavoro, una sua socializzazione estrema finalizzata alla crescita di produttività. La dimensione internazionale della suddetta divisione, inoltre, evidenzia una forte differenziazione interna delle condizioni materiali dei lavoratori che degradano dai centri capitalisti fino alle periferie del sottosviluppo, nella solita figura di gerarchizzazione del proletariato voluta dall’imperialismo.
La differenza dalla struttura produttiva e dalla composizione di classe precedente risulta chiaramente. Infatti, quella che viene definita l’epoca del fordismo vedeva, comunque, una divisione del lavoro più rigida e meno estesa di quella attuale, una concentrazione della forza lavoro nei luoghi della produzione di scala, cioè della massima produttività possibile all’epoca. A ciò si accompagnava una dimensione sostanzialmente nazionale con una soluzione di continuità nel processo produttivo, non totale ma marcata, tra centri industriali e periferie coloniali addette di fatto alla fornitura di materie prime.
È evidente che le condizioni oggettive sono oggi molto più “disgregative” di quelle precedenti, anche se quantitativamente maggiori e invasive a livello mondiale.
Sappiamo bene quanto la soggettività abbia pesato nella precedente fase di conflitto di classe mondiale. Oggi, nel momento in cui le condizioni di concentrazione ed accumulo delle contraddizioni vengono meno, in quanto socializzate e diluite a livello mondiale, il nodo della soggettività come punto di aggregazione è ancor più rilevante del secolo passato.
Si tratta di capire di quale soggettività c’è oggi bisogno e di come si debba strutturare. A nostro avviso è indubbio che la soggettività organizzata, ovvero il partito, è una questione non rimovibile ai fini di una prospettiva di trasformazione sociale.
Analizzare le caratteristiche economiche dell’attuale sistema capitalistico, dai suoi fenomeni più superficiali alle strutture di fondo, ha bisogno di una chiave di lettura e di un lavoro che può essere svolto “a tavolino”, nel senso che lo studio ricopre in questo ambito un ruolo centrale. Anche un lavoro su quello che è stato il movimento operaio e gli Stati socialisti del ’900 possono essere oggetto di un dibattito e di una elaborazione che si basa già su esperienze fatte e collocabili storicamente. Questi piani di lavoro sono fondamentali per ricostruire una identità ed una prospettiva comunista oggi all’inizio del XXI secolo. Il discorso diviene molto più complesso se si vuole affrontare il nodo della soggettività, organizzata, intesa come capacità di agire nella realtà e di modificarla. I problemi diventano allora più complessi non perché più “teorici” ma perché più concreti, in quanto devono fare i conti con la realtà attuale che è sostanzialmente imperialista e conservatrice in tutte le sue caratteristiche di fondo.
Se non c’è separazione netta tra concezione teorica e lavoro concreto nella costruzione della soggettività, allora è evidente che l’approccio a questo nodo deve essere molto attento, realistico. Bisogna, cioè, partire dalla coscienza complessiva che, seppure siamo di fronte ad un processo molto lungo, è necessario fin da subito delineare, e verificare nel dibattito, alcune caratteristiche dell’organizzazione comunista in questa fase storica.
Tentiamo perciò qui di tracciarne alcune, sicuramente non esaustive, senza avere la pretesa di affermare delle verità assolute, ma con la convinzione di contribuire ad un ragionamento più generale.
- Una funzione centrale nel processo di ricostruzione del partito è quella di avere una forte capacità teorica che dia credibilità all’attuazione di un progetto di trasformazione. L’incapacità dei partiti comunisti della seconda metà del novecento di tenere testa allo sviluppo capitalistico è stato il prodotto della perdita di capacità teorica e progettuale e del prevalere della funzione di “rappresentanza” e della politica immediata. Un partito comunista deve tenere legati questi aspetti, nelle forme storicamente adeguate, senza rinunciare alla sua capacità progettuale prioritaria in una fase storica di transizione.
- Non si può parlare di un progetto definito di partito comunista senza tenere presenti, o lavorare per individuare, le caratteristiche della rivoluzione oggi nel nuovo contesto. La Rivoluzione d’Ottobre ha spezzato l’anello debole della catena imperialista, producendo trasformazioni rivoluzionarie sulla base di una visione lucida del capitalismo e delle sue contraddizioni. Oggi questa possibilità non è data; ciò non significa che non bisogna lavorare in questa direzione, tentando di individuare le contraddizioni principali dell’attuale sviluppo e di capire quale funzione può svolgere in questa fase intermedia una organizzazione comunista.
- Parlare di partito significa fare riferimento alla classe ed alle sue articolazioni. Oggi la classe segue lo sviluppo delle forze produttive ed assume una forma internazionale concretamente e non ideologicamente. Questo significa che ogni processo di organizzazione dei comunisti deve avere ben presente, per quanto riguarda ad esempio il nostro Paese, la dimensione europea ed il suo blocco economico, dentro il quale si stanno determinando i processi di riorganizzazione della classe lavoratrice e delle nuove funzioni statuali deH’Unione Europea.
- Essendo collegato ad un’idea di trasformazione, il partito è un elemento secondario rispetto a quella stessa idea, che ne rappresenta al contempo anche il fine.
La “fisionomia” del partito è determinata dalle caratteristiche concrete, attuali, delle trasformazioni sociali e produttive. La costruzione del partito, perciò, non è legata ad un modello sempre valido ma la validità del modello è determinata dalla sua capacità di rappresentare e di essere strumento adeguato dell’idea di trasformazione che è propria dei comunisti.
In altre parole un approccio dogmatico al partito, che non parta da questo come strumento, è assolutamente errato. - L’evoluzione dei partiti comunisti ci propone anche la necessità di affrontare il punto della dialettica interna al partito e delle forme della democrazia.
Quanto la sclerosi democratica sia stata determinata dalle condizioni oggettive e materiali e quanto dalla incapacità soggettiva dei gruppi dirigenti è un fatto tutto da capire, analizzare, e da dibattere in modo franco; ma certo questi problemi hanno avuto una funzione determinante nella crisi dei partiti comunisti.
Quello che ci sembra invece molto attuale è che la capacità di misurarsi con le forti dinamiche politiche e sociali richiedono una grande capacità dialettica interna per non far prevalere rigidità o schematizzazioni, ancora più ingiustificate in una condizione di opposizione sociale e politica. - In base alle riflessioni precedenti, che non sono esaustive e vogliono aprire una ricca fase di elaborazione, ci sembra che il partito di massa, così come si è configurato nella situazione concreta, non sia oggi adeguato a sostenere un progetto comunista ed anzi rischia concretamente di essere oggetto e non soggetto delle dinamiche politiche ed istituzionali.
Parlare di partito di quadri e di militanti non significa rifiutare il rapporto di massa sia con la classe che con i movimenti politici, anzi pone i comunisti in condizione di trovare i canali “giusti” per avere un rapporto di massa senza dover adattare questi alle esigenze di partito. D’altra parte questa parziale indipendenza del partito permette la costruzione di una identità e di una strategia non sottoposta alle pressioni della politica contingente. Infine, il partito di quadri non esprime un dato quantitativo ma una caratteristica qualitativa delle relazioni interne fortemente legate ad una visione comune della realtà ed al progetto strategico.
Pertanto, non contrapposizione tra partito di quadri e partito di massa ma comprensione delle forme del rapporto di massa di cui hanno bisogno i comunisti in questa nuova condizione. L’ipotesi di un partito di quadri non è solo un “escamotage” per affrontare una fase difficile del movimento comunista ma questa proposta parte anche da una riflessione più profonda, legata all’attuale realtà del conflitto di classe e del ruolo dei comunisti.
Quando sosteniamo che il partito è uno strumento, facciamo riferimento alle condizioni della classe e del progetto politico, quindi delle possibilità effettive in una determinata fase storica.
Sappiamo bene che la sconfitta subita alla fine del XX secolo non è stata “politica” ma strutturale. Infatti, il capitalismo ha rilanciato una fase di sviluppo modificando prò fondamente le caratteristiche della classe operaia e lavoratrice attorno al paradigma dell’accumulazione flessibile, della produzione flessibile, dei lavoratori della conoscenza, ecc. Non è la prima volta che accade questo nella storia; infatti, altre volte, ad un salto delle capacità produttive è corrisposta una modifica sostanziale delle forme del lavoro dipendente. È accaduto con la costituzione delle manifatture, con la nascita della grande impresa e dell’operaio professionale, con l’introduzione della fabbrica fordista e la formazione dell’operaio massa.
Il farsi, disfarsi e il rifarsi della classe nel suo essere concreto non ha cambiato la natura del lavoro salariato nè la sua esigenza di superare il capitalismo con una formazione sociale superiore, ma sicuramente ha però influito decisamente sulle capacità e possibilità concrete della soggettività comunista organizzata di incidere nei processi materiali.
L’attuale scompaginamento della vecchia composizione di classe, nelle forme che abbiamo precedentemente descritto, modifica il progetto comunista di trasformazione e, dunque, ripropone la necessità di discutere i caratteri del partito. Parlare di partito di quadri significa, perciò, prendere coscienza che siamo in una fase di transizione e di nuovo accumulo delle contraddizioni. Dentro questa fase determinante è la capacità qualitativa dell’organizzazione di prevedere lo sviluppo delle contraddizioni senza negare né il rapporto di massa, da tenere attualmente a nostro avviso attraverso forme diverse dal partito, né una prospettiva di ripresa del ruolo di massa del partito, che oggi però non è dato dalle condizioni generali presenti nei paesi imperialisti.
4. UNA PROPOSTA DI LAVORO COMUNE
In conclusione di questa parte vanno messi in evidenza un paio di snodi chiave.
Il primo è che sul giudizio storico del movimento operaio e comunista deve cominciare una riflessione a tutto campo che, mantenendo l’asse centrale di una prospettiva rivoluzionaria e di classe sul piano sociale, non si ponga il problema di arrivare a conclusioni in qualche modo già precostituite.
L’altro snodo che vogliamo evidenziare ha pure una valenza politica. Infatti, la necessità di una visione critica sul passato ha anche l’obiettivo di trarre delle indicazioni anche per l’oggi. Questo tipo di esigenza non è certo solo di chi propone il presente documento, ma di ampi settori politici, culturali, sociali legati al movimento comunista del nostro Paese, pur nella diversità delle posizioni.
In queste pagine non abbiamo dato giudizi netti nè abbiamo preteso di esprimere in assoluto il giusto punto di vista. Abbiamo, invece, individuato un piano di lavoro che ci sembra realistico e comunque soggetto a miglioramenti.
Su questo lavoro vogliamo avviare un confronto che si ponga l’obiettivo di ritrovare una visione più unitaria possibile. Vorremmo, insomma, tentare di avviare un ampio dibattito organizzato sulla storia del movimento operaio e comunista, non per arrivare a sintesi politiche ma per tentare di individuare un metodo comune di lettura. Sappiamo che non è facile e non diamo per scontato che a questa proposta ci siano risposte.
Comunque tali snodi non possono essere ignorati e ci sentiamo impegnati a percorrere questa strada nella prospettiva di una reale “rifondazione”, come qualcuno l’ha chiamata.
CREDITS
Immagine in evidenza: Blue car on road
Autore: Jeremy Bezanger, 16 luglio 2021
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