Le ambizioni dell’Europa alla prova della “guerra infinita”
Sergio Cararo
Alla vigilia dell’entrata in vigore dell’euro, la “guerra infinita” dichiarata dagli Stati Uniti rischia di travolgere le ambizioni del polo imperialista europeo. Dentro la nuova fase della competizione globale, quello militare resta lo strumento degli Stati Uniti per poter interferire sulla politica europea. Ma fino a quando? E, soprattutto, chi ne pagherà le conseguenze? Al momento l’Afganistan e i popoli della periferia. Poi i lavoratori e la democrazia anche nel “cuore dell’impero”.E dopo? Siamo su un piano pericolosamente inclinato
Ufficialmente, la “guerra infinita” richiamata dal presidente americano Bush è diretta contro il terrorismo internazionale. Una parte dei commentatori e dei leader politici, sembra disposta a credergli. Altri, e per ora sono la minoranza, nutrono più di qualche legittimo dubbio.Tra questi ci collochiamo anche noi che da tempo seguiamo gli scenari e le dinamiche delle relazioni internazionali emerse dalla caduta del Muro di Berlino in poi. Ed è sulla base di questa esperienza che la chiave di lettura della guerra infinita ci porta a valutazioni diverse da quelle “ufficiali”. Non siamo affatto convinti che l’obiettivo degli Stati Uniti sia quello ufficialmente dichiarato e vogliamo provare a dimostrarlo.
Siamo convinti che la posta in gioco sia soprattutto geopolitica nel suo significato più ampio. Il controllo dell’Asia Centrale è un aspetto decisivo per il controllo dell’Eurasia. In questa immensa area dovranno strutturarsi la ragnatela delle pipelines energetiche dirette ai mercati di sbocco. Gli Stati Uniti stanno operando pesantemente dalla metà degli anni Novanta per insediarsi alle estremità (Balcani e Pakistan/Afganistan) e al centro di questa regione strategica (Caucaso, Kazachistan, Uzbekistan etc.) tagliando fuori non solo la Russia e la Cina ma anche l’Europa. Ed è proprio sulle relazioni tra questa e gli Stati Uniti che vogliamo segnalare alcuni elementi di analisi e discussione.
L’agenda delle relazioni transatlantiche degli ultimi anni era diventata assai turbolenta. I dossier conflittuali apertisi tra Stati ed Europa erano numerosi: dallo scudo antimissili agli ogm, dal protocollo di Kioto ai tassi di interesse, dai sussidi all’export alla carne agli ormoni.
Dopo gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono, le relazioni tra le due sponde atlantico sembrano tornare ad una lettura tradizionale dei rapporti di subalternità dell’Europa verso gli Stati Uniti. Eppure occorre andare oltre le apparenze e molto dentro le contraddizioni che stanno emergendo nelle relazioni tra questi due poli “imperialisti” e che fanno a dire ad un crescente numero di studiosi e analisti che la “globalizzazione” (almeno così come l’abbiamo conosciuta negli anni ’90) è finita.
Il vertice di Gand
Il giorno precedente il vertice dei capi di stato dell’Unione Europea lo scorso ottobre a Gand, un brivido ha percorso la schiena delle cancellerie europee e l’ottimismo degli europeisti.Il vertice a tre tenutosi tra Francia, Gran Bretagna e Germania ventiquattro ore prima dell’apertura ufficiale dei lavori, ha portato in evidenza con estrema pesantezza le contraddizioni interne del progetto di Unione Europea a due mesi dall’entrata in vigore della moneta unica. La successiva “cena” a Downing Street organizzata da Blair, ha tirato dentro anche l’Italia bipartizan di Berlusconi e Rutelli, la Spagna e i paesi del Benelux. Qualche giorno dopo, soldati, navi e aerei militari delle principali potenze europee prendevano la strada del “fronte” verso l’Afganistan.
L’incontro di Gand, fortemente voluto dal presidente francese Chirac con Blair e Schroeder, era durato meno di un ora, un vertice “tecnico”, è stato detto dai portavoce. Appare evidente che sulle questioni decisive la discussione c’era già stata e che il breve vertice serviva solo a definire i dettagli. Ma è indubbio che quei quaranta minuti di discussione hanno pesato quanto quaranta anni di “europeismo” sul resto dei paesi membri. Abbiamo visto un Prodi furioso, un Berlusconi schivo e non in vena di esternazioni, la presidenza belga irritata. Dieci giorni dopo Prodi finiva sulla graticola della stampa tedesca, inglese e tedesca e Berlusconi – insieme a Ciampi – compieva il beau geste di difendere il suo ex avversario. Grande è la confusione in Europa. Se però ci ponessimo coerentemente la domanda se a ciò corrisponda una “situazione eccellente” (come direbbe Mao Tse Tung), avremmo l’obbligo di risponderci o quantomeno di abbozzare qualche valutazione non superficiale.
Stati Uniti versus Europa: un gioco pesante
Un pericoloso grande vecchio della potere USA come Henry Kissinger, nella sua ultima visita in Italia, si è espresso piuttosto chiaramente. “Mi preoccupa il fatto che quando l’Unione Europea agisce come soggetto unico negli affari mondiali molto spesso, e sarei tentato di dire, sempre, agisce in opposizione agli Stati Uniti” ha detto Kissinger in una intervista ad un noto settimanale italiano “Sarebbe un errore” ha proseguito “un errore capace di portare gradualmente a una frattura tra le due sponde dell’Atlantico in un mondo sempre pieno di problemi” (Panorama, giugno 2001).
Il tono esplicito di un uomo influente come Henry Kissinger, ricorda molto da vicino quello di un altro influente esperto americano come Martin Feldstein. Feldstein, noto economista, era il capo dello staff economico di Bush padre ed è stato assunto come consigliere anche nell’amministrazione presidenziale di Bush figlio. Nel 1997, Feldstein pubblicò un famoso saggio sulla rivista Foreign Affairs che fece tremare le vene ai polsi ai leader europei. La sua tesi, confermata in una intervista al Sole 24 Ore, era che l’introduzione dell’Euro avrebbe portato “alla discordia e alla guerra all’interno dell’Europa” e “alla guerra tra Europa e Stati Uniti”, ragione per cui egli aveva richiesto un cambiamento della politica estera degli USA verso l’Europa (Sole 24 Ore, novembre 1997).
Un altro consigliere di Bush padre ed ora vice-ministro dell’amministrazione di George W.Bush, Paul Wolfowitz, è colui che agli inizi del 1992 presentò un rapporto del Pentagono in cui si affermava la “indiscutibilità della supremazia mondiale americana” e si dissuadevano i partner dal cercare di mettere in discussione tale supremazia. A tale scopo, secondo Wolfowitz, occorreva scongiurare la nascita di qualsiasi potenziale rivale degli Stati Uniti dopo la dissoluzione dell’URSS. Dopo gli attentati a New York e Washington, Wolfowitz ha viaggiato molto in “parallelo” a Colin Powell e ha visitato anche i “partner europei”. I colloqui diplomatici di queste settimane con le varie cancellerie europee, non devono essere stati molto “facili”.
Infine le tesi esplicitate da un altro pericoloso “grande vecchio” come Zbignew Brzezinski nel Mein Kampf della politica estera americana (“La Grande Scacchiera”) e in una recente intervista al TG3, hanno riconfermato che gli Stati Uniti non accettano affatto l’esistenza di un polo europeo competitivo e che gli Stati europei devono rimanere divisi tra loro anche nella partecipazione a questa “guerra americana”.
Quale influenza possono aver avuto all’interno dei governi europei fattori come quelli segnalati ? Essere tornati a “sentire il fiato sul collo” del primus inter pares statunitense quanto ha rafforzato o indebolito il progetto strategico dell’Unione Europea? Siamo alla vigilia di una crisi politica, di una crisi di classe dirigente inadeguata alle ambizioni del progetto europeo?
Ipotecare il progetto della Difesa Europea
La prima contraddizione che balza subito agli occhi, è la seria difficoltà a procedere sul piano di una Difesa Europea comune ed autonoma dagli Stati Uniti. La presenza/dissonanza della Gran Bretagna, le ambiguità dell’Italia berlusconiana ma anche il sistematico doppio gioco della Germania, continuano a depotenziare questo progetto che pure nei vertici europei di Nizza e Helsinki sembrava definito in parecchi dettagli.Le ultime sortite estive di Chirac (l’esercito europeo al servizio dell’ONU), hanno persuaso gli Stati Uniti che su questo terreno occorreva dare una “spallata” per ridimensionare ogni ambizione. Di fronte all’occasione della guerra contro l’Afganistan, hanno prima imbrigliato i partner europei invocando l’art. 5 della NATO, poi hanno cooptato separatamente le tre principali potenze europee: la fedele Gran Bretagna, la disponibile Germania e la riottosa Francia. I ringraziamenti ad personam una volta iniziati i bombardamenti sull’Afganistan, hanno reso visibile quella geometria variabile delle “alleanze” che liquida ogni interlocuzione con l’Unione Europea in quanto tale. A Prodi e Solana è rimasto in mano in cerino sempre più corto.
Una volta investiti Gran Bretagna, Germania e Francia come interlocutori principali degli Stati Uniti sul terreno politico-militare, era conseguenza che questi tre paesi si sentissero autorizzati a rappresentare il “direttorio europeo”, anche se tale direttorio appare più una stanza di compensazione delle reciproche diffidenze che un gruppo dirigente omogeneo in grado di guidare un progetto europeo indipendente dalle vecchie relazioni di subalternità con Washington.
Il Sunday Times, qualche mese fa ha rivelato che uno dei nuovi consiglieri di Bush, John Bolton, non ha mai fatto mistero di ritenere la Forza di Reazione Rapida europea come “una spina nel cuore della NATO” .Secondo Le Monde , lo stesso vice-presidente Dick Cheney non ha mai nascosto la sua ostilità verso qualsiasi idea di Difesa Europea .
Un altro settimanale inglese – l’Observer – poco dopo l’elezione di Bush metteva in guardia la leadeship europea: “Gran Bretagna ed Europa scopriranno che i rapporti con la nuova amministrazione saranno tesi, ostili e improduttivi. La situazione sarebbe già difficile se Bush avesse avuto un vero mandato. Senza, ci dobbiamo aspettare un percorso davvero molto accidentato” .
Eppure, il Consiglio Europeo di Helsinki del dicembre ’99, aveva deciso di costituire un Corpo d’Armata Europeo composto da 60.000 soldati con capacità operative a partire dal 2003 e dotato di tutte le infrastrutture logistiche, di intelligence e comunicazioni necessarie per renderlo operativo. In realtà i soldati che dovranno essere resi disponibili saranno 180.000 per permettere il ricambio delle forze sul campo almeno ogni due mesi.
I successivi Consigli Europei (Lisbona) e il vertice di Nizza hanno fatto un ulteriore passo avanti in questa direzione. Un vertice dei Ministri degli esteri e della Difesa europei a Bruxelles a marzo dello scorso anno, ha discusso e approvato dei documenti che prevedono :
a) l’istituzione di un Comitato Militare Europeo;
b) la definizione dell’organigramma di Stato Maggiore;
c) l’individuazione delle prime proiezioni degli “obiettivi di forza”;
d) il contributo in termini di uomini e strutture da parte di ogni singolo paese europeo.
I ministri europei a questo punto dovranno soprattutto definire chiaramente cosa intendono per “Missioni Petersberg” ovvero il campo degli interventi militari all’estero .
I governi che integreranno l’Esercito Europeo saranno chiamati a contribuire con tre livelli di possibilità :
1) da solo e con i propri mezzi;
2) insieme alle strutture della NATO (e quindi insieme agli americani);
3) nell’ambito della NATO e insieme agli altri paesi NATO non appartenenti alla UE.
Come si incastra in questo schema la partecipazione militare europea alla guerra contro l’Afganistan?
Javier Solana e i dirigenti europei smentiscono continuamente che l’Europa miri a costituire un esercito europeo sovranazionale nè che abbia l’ambizione di creare una nuova alleanza militare europea che competa o sostituisca la NATO.
Gli Stati Uniti non vedono affatto positivamente l’ambizione europea ad una forza militare autonoma. Per questo insistono ad utilizzare la NATO come gabbia per frenare questa tendenza ma soprattutto, sostiene Brzezinski, “come strumento per il controllo dell’Europa” al quale gli USA non potranno mai rinunciare se non a causa di un conflitto diretto o di una crisi verticale con i partners europei.
Questa posizione emerge chiaramente anche da un documento presentato dal Pentagono al Congresso USA dal titolo “Divisione delle Responsabilità” in cui viene ribadito testualmente che “L’Alleanza (la NATO, NdR) continua a servire come insostituibile meccanismo per l’esercizio della leadership USA nella sicurezza internazionale e per la proiezione della potenza e dell’influenza americana attraverso l’Atlantico ed oltre”.
Anche la consueta lamentazione del Congresso e dell’Esecutivo USA sulla ripartizione delle spese per la sicurezza con gli alleati della NATO, nasconde una realtà che vede gli USA fare pressione affinchè gli alleati spendano di più per sostenere i costi operativi dell’Alleanza Atlantica, ma questo aumento delle spese militari serve solo a coprire i costi dei settori più arretrati della struttura (logistica, basi militari etc.) mentre gli USA finanzierebbero solo i settori tecnologicamente più avanzati, spesso tenendone fuori gli stessi “alleati”. L’adozione di standard di armamenti diversi nella NATO non pone in competizione direttamente solo Europa e Stati Uniti ma la allarga anche ai nuovi arrivati come i paesi dell’Europa dell’Est che sono entrati o devono entrare nella NATO.
Le principali potenze europee (Francia, Germania, Italia e la variante britannica) stanno dunque dimostrando di rinunciare alle proprie velleità allineandosi alla “guerra americana” oppure stanno affinando e accumulando l’esperienza militare per procedere nel proprio programma di Difesa Europea? L’Afganistan, come lo sono stati i Balcani, potrebbe anche essere un nuovo terreno di sperimentazione della capacità di proiezione internazionale delle ambizioni europee.
La competizione del complesso militare-industriale europeo
Parallelamente alla escalation “politica’ che ha portato alla nascita dell’Esercito Europeo, in questi ultimi due anni, c’è stata un’altra escalation che ha visto fusioni ed acquisizioni tra tutte le maggiori industrie europee nei settori aereonautico, aereospaziale, missilistico, radar e comunicazioni. Anche qui l’obiettivo dichiarato è quello della competizione con i giganti del complesso militare-industriale statunitense.
Qualche giorno dopo gli attentati di New York e Washington, in Francia è esplosa un grande impianto che produceva il propellente per i missili “Ariane”. le autorità francesi si sono affrettate a parlare di incidente, ma Le Monde del 28 settembre riferisce che si è formata una commissione indipendente di esperti che sostiene molto dubbia l’ipotesi accidentale.
Le truppe europee inviate in Afganistan, sperimenteranno la copertura satellitare europea per le proprie comunicazioni. Un recente inserto del Sole 24 Ore dedicato all’industria aerospaziale, riferisce ampiamente di come tra le aziende europee e quelle americane si sia scatenata una competizione a tutto campo proprio sul terreno dei satelliti (sui quali l’Europa si sta imponendo per quantità e qualità) e nel settore aerospaziale più complessivamente.
Le società francesi, hanno denunciato l’esistenza di un documento del Pentagono che pone il veto alla collaborazione sulle tecnologie avanzate tra aziende USA e quelli di paesi europei che sulla lista non figurano come “fidati”. Tra questi ultimi compaiono solo Gran Bretagna e Norvegia. Mentre Germania, Spagna, Italia e soprattutto Francia figurano in una posizione che non permette “collaborazioni”. Nel giudizio di alcuni osservatori europei, l’esistenza di questa lista pregiudica molte delle collaborazioni in corso ad esempio quella tra Areospatiale Matra (francese) e Lockheed Martin (americana), quella tra Thomson-CSF e Raytheon per il sistema di controllo ACCS destinato alla NATO oppure quella tra la tedesca DASA e la Northrop Grumman.
Fonti francesi confermano l’obiettivo della competizione con gli USA nel settore aereonautico soprattutto tra il consorzio europeo Airbus e il gigante americano Boeing. Negli ultimi anni Airbus ha venduto 234 aerei contro i 120 della Boeing. La competizione è stata durissima soprattutto sui mercati asiatici . Ma anche sui mercatio occidentali la competizione è estremamente dura come conferma la vicenda dell’Airbus A400, l’aereo da trasporto militare europeo.
L’ex direttore della CIA, Woolsey, in una intervista al Wall Street Journal, ha confermato l’esistenza e il ruolo di spionaggio di Echelon verso le aziende dei paesi europei perchè “esse fanno ricorso alla corruzione per ottenere commesse e contratti con altri paesi che sono in affari anche con gli Stati Uniti”.
Per affrontare la sfida della competizione con le grandi società della produzione militare e tecnologica degli USA, le maggiori aziende europee del settore hanno dato vita ad un processo di concentrazione e fusione impressionante.
Negli Stati Uniti nel giro di dieci anni (’85-’95) delle 15 maggiori società di medio-grande dimensione sono rimasti solo quattro grandi gruppi: Boeing, Lockheed-Martin, Northrop Grumman e Raytheon).
In Europa il processo è cominciato in ritardo ma è ormai pienamente sviluppato. “L’Europa della difesa avanza ormai a grandi passi” commentava un quotidiano finanziario italiano. Infatti appena una settimana dopo la creazione del grande polo europeo dell’aereonautica EADS (European Aereonautic Defence and Space) nato dall’alleanza tra Aereospatiale-Matra e DASA, le industrie europee hanno dato vita al numero due mondiale nel campo della missilistica : il NMBD (New Matra Bae Dynamics). Questa alleanza è composta da British Aereospace, Aereospatiale-Matra e Finmeccanica (italiana).In due anni, la mappa dell’industria militare e tecnologica europea è cambiata radicalmente. La disputa sull’Airbus militare, sul quale il governo Berlusconi ha dimostrato di lavorare apertamente per gli interessi americani, dimostra la pesantezza della partita e della posta in gioco.
Euro versus dollaro: una competizione globale
In queste settimane, sono emerse piuttosto chiaramente preoccupazioni sulla “tenuta” dell’Europa .”L’Europa è adesso davanti ad un evento straordinario e violento che può unirla o spaccarla” (La Stampa, 21 ottobre).”Non siamo più, come negli anni della guerra fredda, al centro della grande politica e saremo ancora meno centrali se il nostro maggiore alleato, gli Stati Uniti, sarà dominato da altre preoccupazioni” (Sergio Romano su Corriere della Sera del 16 ottobre).
Preoccupazioni ancora più forti stanno emergendo anche sull’obiettivo decisivo dell’euro e della sua forza di attrazione come moneta internazionale. Dagli scongiuri rivelati dalle pagine del CorrierEconomia (“si teme un ulteriore tonfo, soprattutto se il gran momento dell’arrivo dell’euro nelle tasche degli europei coinciderà con un attacco americano in Asia centrale”) alle sortite non certo lusinghiere di Soros che ne prevede la scivolata in basso nei confronti del dollaro.
Se osserviamo sul campo quali potrebbero essere gli effetti dell’introduzione dell’Euro nelle relazioni economiche internazionali, emerge con evidenza la rottura di quello che è stato definito il “signoraggio del dollaro”.
Allo stato attuale, il 59% delle riserve internazionali possedute dalle banche centrali sono in dollari. Il 75% dei prestiti bancari internazionali viene effettuato in dollari. Il 60% dei dollari oggi circolanti sono posseduti all’esterno degli Stati Uniti.
Come sostiene giustamente Vladimiro Giacchè, i dollari posseduti all’esterno degli USA, rappresentano un prestito senza interessi concesso dagli altri paesi agli Stati Uniti cioè il cosiddetto “signoraggio”.
L’introduzione dell’Euro inevitabilmente rompe tale signoraggio. La sua eventuale capacità di diventare una moneta di riserva e per le transazioni internazionali, toglierebbe al dominio del dollaro non solo una delle aree più ricche del mondo (l’Europa) ma anche la sua area di influenza (Europa dell’Est, Russia e parte dell’ex URSS, Maghreb e parte del Medio Oriente inclusi alcuni paesi petroliferi come Iran e Iraq). In sostanza sarebbe un terremoto che cambierebbe la mappa delle relazioni economiche mondiali disegnate dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
In secondo luogo, l’Unione Europea troverrebbe attraverso il piano economico e monetario una coesione “de facto” che stenta ancora a realizzarsi sul piano politico.
Guglielmo Carchedi, sottolinea come le istituzioni europee (Banca Centrale, Commissione, i Consigli dei Ministri, l’Ecofin etc.) agiscono in modo coeso verso i paesi dominati rendendo possibile l’appropriazione e la ripartizione di plusvalore nei confronti dei paesi aderenti alla Convenzione di Lomè o agli accordi di associazione dei paesi dell’Europa Centrale e dell’Est. Tali istituzioni non solo mediano interessi nazionali comuni anche se contraddittori dei paesi “forti” della UE ma formulano tali interessi in maniera relativamente indipendente perchè gli stati membri hanno ceduto una parte di sovranità a queste istituzioni. Ragione per cui anche se l’Unione Europea non è ancora uno “Stato” possiede già gli strumenti legali per legiferare e regolare intere sezioni dell’economia e di altre sfere degli stati membri.
Alcuni osservatori e studiosi intelligenti come Toni Negri o la redazione di Le Monde Diplomatique continuano ancora a sottovalutare una tendenza che pure è ben visibile sotto i nostri occhi: la centralizzazione dei vecchi stati-nazione in poli sovranazionali corrispondenti ai nuovi blocchi economici come l’Unione Europea e il NAFTA (e tendenzialmente l’AFTA esteso a tutta l’America Latina).
“L’Impero” dunque potrebbe non avere più un unico centro né una comune identità collettiva che trascenda dai limiti e dalle contraddizioni poste proprio dal mercato globale. Con l’introduzione dell’Euro, non ci sarà più un’unica moneta mondiale ed i “mercati aperti” si stanno rivelando come tali solo all’interno dei vari blocchi economici o nei confronti dei paesi in via di sviluppo sotto la loro dominazione.
L’ira del big business statunitense contro il Commissario Europeo Monti per via del blocco della fusione Honeywell-General Electric, indica piuttosto chiaramente la “reciprocità” delle misure neo-protezioniste verso l’esterno dei due blocchi, ma è un protezionismo verso l’esterno che convive e si rafforza con il liberismo pieno all’interno dei blocchi stessi e delle loro aree di influenza.
Questo passaggio è qualitativo e strategico allo stesso tempo. Qualitativo perché corrisponde ad uno dei poteri fondanti dell’egemonia imperiale ossia la moneta (euro versus dollaro). Strategico perché ad esempio l’Unione Europea ha dimostrato di voler recuperare assai rapidamente il gap di potere militare nei confronti degli Stati Uniti. Appare evidente come l’escalation sulla “guerra senza confini” scatenata dall’amministrazione statunitense , abbia anche l’obiettivo di frantumare o comunque ritardare questa autonomizzazione politica, economica e militare dell’Europa dagli USA.
Gli scambi commerciali (percentuali sul commercio mondiale)
Interno NAFTA | 10,6% | Interno Europa | 29,7% |
NAFTA-Europa | 7,5% | Europa-Asia | 7,8% |
NAFTA-Asia | 11,9% | Interno Asia | 11,9% |
I recenti dati forniti dalla stessa WTO, ci dicono che la crescita del commercio mondiale è crollata dal 12% del 2000 al 2% del 2001 e confermano che ormai l’economia mondiale si va dislocando intorno a due blocchi economici dotati di moneta propria e di mercati interni protetti: Unione Europea e NAFTA. Ques’ultimo, non a caso, sta cercando di estendersi a tutta l’America Latina attraverso l’AFTA (Area di libero scambio delle Americhe) inglobando tutto il continente americano. L’Asia da questo punto di vista è rimasta più indietro anche se i paesi dell’ASEAN stanno cominciando a discutere seriamente l’idea di dotarsi di una moneta unica soprattutto in funzione anti-cinese.
Le grandi multinazionali – come si desume da un interessante lavoro degli inglesi Hirst e Thompson (“La globalizzazione dell’economia”) – hanno inoltre dimostrato di avere la maggioranza del loro giro d’affari nei mercati interni di riferimento piuttosto che “in tutto il mondo”. Ciò significa che – nonostante la dislocazione della produzione a livello internazionale – per una multinazionale statunitense è ancora fondamentale il mercato regionale americano e per una europea è ancora fondamentale il mercato regionale europeo. Ovviamente non per motivi “patriottici” ma semplicemente perchè questi sono tuttora i mercati di riferimento più ricchi.
E’ noto infatti che gli stabilimenti tedeschi della Ford e della General Motors hanno prodotto fino al 1941 e con profitti elevati i camion per la Wermacht e solo alla fine di quell’anno furono costrette dal governo statunitense a ritirarsi – a malincuore – dalla Germania già in guerra da quasi tre anni. Oppure è noto che le compagnie elettriche francesi e tedesche continuavano a scambiarsi energia anche quando le armate tedesche nel 1940 avevano già sfondato il fronte in Belgio e si apprestavano ad aggirare la linea Maginot ed a dilagare sul territorio francese.
Se osserviamo l’agenda bilaterale tra Stati Uniti ed Unione Europea, se guardiamo al fallimento del round della WTO a Seattle (vedremo come finirà quello in corso nel Qatar), i fatti sembrano dare ragione a Eric Hobsbawn quando sostiene che la guerra commerciale tra le due sponde dell’Atlantico non è mai stata forte come in questa fase storica. Non vorremmo apparire schematici nè catastrofici e per esser ben compresi diciamo che i terreni di cooperazione e quelli di competizione tra il polo europeo e quello americano conoscono momenti di fortissimo rimescolamento rispetto al passato. Se è vera questa tesi, quella di molti intellettuali “no-global” oggi in voga è da rivedere.
Una dinamica di questo tipo e la nascita di un polo economico e tendenzialmente politico delle dimensioni come l’Unione Europea, rappresenta un fattore evidente di competizione con gli Stati Uniti (come rivendicato apertamente da Prodi) ed una minaccia alla supremazia mondiale degli stessi. L’amministrazione Bush, sembra dare molta continuità a quella logica di supremazia statunitense verso i partner che nei primi anni Novanta aveva ispirato l’amministrazione di George Bush senior.
E’ chiaro dunque che la nascita di un polo europeo economicamente, monetariamente, politicamente e militarmente autonomo dagli Stati Uniti, sarebbe destinato a cambiare in profondità i rapporti di forza nelle relazioni internazionali.
In questo senso, non possiamo affatto escludere che da oltre Atlantico sia stato aiutato a vincere e a nascere un governo come quello Berlusconi. Non certo per le qualità dell’uomo, quanto per cercare di interdire la dinamica messa in moto dalla nuova classe dirigente europeista. Le scorribande politico-diplomatiche della Gran Bretagna e l’invocazione dell’art.5 della NATO a seguito degli attentati a New York e Washington, rappresentano il tentativo piuttosto scontato e tradizionale per condizionare i partner europei e tenerli ancora vincolati sul terreno dove la supremazia americana appare ancora indiscutibile: quello militare. Il problema è verificare se questo meccanismo sia in grado di funzionare come in passato o se le cose stiano ormai diversamente.
Una classe dirigente europea inadeguata
I fatti di questi mesi, stanno rivelando clamorosamente la approssimazione e gli sbandamenti dell’attuale leadership europea. Da Schroeder che il giorno prima sostiene di “essere pronto a far diventare l’Europa un protagonista internazionale con una capacità di influenza globale” ed il giorno dopo dichiara invece che “politiche come quella estera, di sicurezza e di difesa non hanno ancora raggiunto un livello tale da poterne discutere a livello collettivo” (Sole 24 Ore del 19 e del 20 ottobre). A Chirac che ha insistito per il vertice a tre a Gand per dare corpo alla sua visione degli equilibri europei fondata su Francia, Gran Bretagna e Germania come capofila ma rivelando così la consapevolezza della fine dello storico asse bilaterale franco-tedesco. A Blair che qualcuno paragona al “Kissinger europeo” (sic!) che approfitta apertamente della pavidità di Bruxelles tenendo sul filo gli ambienti economici con l’entrata o meno della sterlina nell’euro, continua a lavorare in funzione degli interessi geopolitici degli Stati Uniti ma anche si “smarcarsi” su un possibile attacco all’Iraq. Al ministro degli esteri belga Michel che dichiara “Nessuno creda che seguiremo ciecamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra” e poi dopo il vertice di Londra si allinea alla guerra contro l’Afganistan. Per finire con Berlusconi che, il Financial Times accusa di animare il feeling con Bush perché emarginato dall’Unione Europea. Mentre Prodi è tornato nel mirino di ben mirate campagne stampa tese a delegittimare la sua gestione europeista e antiamericana della Commissione Europea.
L’inadeguatezza della classe dirigente europea verso le ambizioni e le aspettative create in questi anni è ormai palese. Ne deriva che in Europa nei prossimi mesi potremmo trovarci di fronte e dentro una crisi politica verticale (dentro ogni singolo Stato) e orizzontale (tra i vari Stati) assai profonda.
Le parole di Feldstein sulla discordia e la guerra all’interno dell’Europa dovute all’introduzione della moneta unica sembrano avere e diffondere l’inquietudine della “profezia ben guidata”.
Il fattore militare come strumento di supremazia
In soli dieci anni (1991-2001), siamo stati coinvolti in tre guerre (Golfo, Jugoslavia, Afganistan) ed in una serie di spedizioni e interventi militari in varie parti del mondo (Bosnia, Somalia, Albania, Timor Est). L’intensità e la frequenza del ricorso alle armi e alla guerra, è un fattore che non più essere sottovalutato, soprattutto quando il ministro della difesa americano Rumsfeld per ben tre volte ha parlato di possibile uso delle armi nucleari.
Ma la guerra di questo decennio hanno anche scandito dei passaggi di fase storica che vanno compresi e interpretati.
La guerra del 1991 nel Golfo può essere definita realisticamente come la “guerra dell’Impero”. Una gigantesca operazione militare di penetrazione e stabilizzazione dell’egemonia mondiale USA e non solo sul Medio Oriente o i flussi strategici del petrolio. Il consiglio di amministrazione dell’Impero (i cinque membri del consiglio di sicurezza l’ONU) aveva legittimato non solo l’intervento militare contro l’Iraq ma aveva consacrato – dopo quarantacinque anni – la supremazia americana e il crollo di ogni ambizione internazionale dell’URSS.
Ma negli anni Novanta, cominciati con l’affermazione piena del Nuovo Ordine Mondiale a supremazia USA e con la dissoluzione dell’URSS, si è anche messo in moto un lento ma inesorabile processo di “autonomizzazione” delle principali province dell’Impero e dei “regni barbarici” (es: la Cina).
L’Europa alla fine del 1991, con il Trattato di Maastricht, ha avviato un processo che ha portato alla nascita dell’Unione Europea, di una nuova moneta internazionale – l’euro – e di una nuova e vastissima area economica sganciata dal dollaro. La Cina avviava un trend di crescita a due cifre che l’ha portata ad essere – dentro la grande crisi finanziaria dei paesi dell’Asia del 1997 – l’unico punto di stabilizzazione di tutta l’area asiatica. La Russia, dopo gli anni del declino e dello stato/mafia guidato da Eltsin, ha cominciato a manifestare segnali di rafforzamento economico e militare e nuove ambizioni a svolgere un ruolo rilevante nelle relazioni internazionali.
Nella guerra del 1999 contro la Jugoslavia, gli Stati Uniti sono entrati in campo contro tutto questo e contro tutti e tre i soggetti in qualche modo competitori. Lo hanno fatto portando dopo quarantacinque anni, la guerra in Europa, costringendo i partner europei della NATO a partecipare alla guerra contro i propri stessi interessi strategici nell’area balcanica e nei mercati monetari (con l’euro sistematicamente sceso a picco nel confronto con il dollaro), umiliando nuovamente la Russia (che infatti defenestrò Eltsin troppo prono verso gli USA) e bombardando apertamente l’ambasciata cinese a Belgrado.
Nella guerra dei Balcani, gli Stati Uniti e i loro Alleati – attraverso la NATO – erano dalla stessa parte della barricata e si sono accaniti allo stesso modo contro la piccola Federazione Jugoslava (portano dunque le stesse responsabilità dei bombardamenti, dei massacri e delle contaminazioni all’uranio) ma era fin troppo evidente che i loro interessi strategici divergevano allora e continuano a divergere oggi.
Precedenti storici di un tale scenario ce ne sono in abbondanza e si collocano esattamente in quella Belle Epoque alla quale econimisti come Alan Freeman, Geminello Alvi e numerosi altri paragonano l’attuale fase della globalizzazione in via di esaurimento.
Nel 1900, ad esempio, tutte le potenze occidentali (esattamente le stesse del G 8 di oggi) parteciparono unite alla spedizione militare contro la Cina investita dalla rivolta dei Boxer, spartendosi alla fine le concessioni, i porti e le ferrovie cinesi e punendo in modo orribile un paese che si era “ribellato alla civiltà occidentale”. Quelle potenze, esattamente quelle stesse potenze che avevano organizzate unitariamente la spedizione neo-coloniale contro la Cina, quattordici anni dopo si scannavano tra loro nelle trincee in Europa e nei domini coloniali in Africa e Medio Oriente.
La NATO rimane l’unico strumento formalmente “unitario” tra le due sponde dell’Atlantico. Per dirla con Brzezinski:”Per gli Stati Uniti, la NATO non è solo il meccanismo principale che consente loro d’intervenire nelle questioni europee, ma anche la base per la presenza militare – politicamente decisiva – nell’Europa occidentale”. Compito della NATO è dunque quello di operare affinchè l’Unione Europea resti sul piano militare e politico una potenza imperialista di secondo rango.
I processi in corso appaiono per certi aspetti ineluttabili. La costruzione dell’Unione Europea, la sua unificazione monetaria, il prossimo avvento dell’Euro come moneta per la transazioni internazionali, la costituzione di un esercito europeo e la riorganizzazione dei poteri decisionali dell’unione (vedi il Trattato di Nizza e il prossimo vertice di Laeken), hanno dato il segno delle ambizioni dell’Europa a giocare un ruolo di “superpotenza” – parole testuali di Prodi – nelle relazioni internazionali ed anche in quelle con il vecchio tutore statunitense Nei prossimi mesi verificheremo se a queste ambizioni corrisponderà la capacità effettiva di realizzarle. La storia ci ha insegnato che per bloccare alcuni processi, esauriti altri strumenti, si è arrivati alla guerra. Per fermare la nascita di un polo europeo seriamente competitivo con gli Stati Uniti qualcuno potrebbe prendere in esame anche questa opzione (vedi Feldestein). Gli Stati Uniti hanno cominciato una guerra – infinita per loro stessa ammissione. Ottantacinque anni fa la guerra è cominciata contro la piccola Serbia. Sessanta anni fa contro la debole Polonia. Oggi tocca al già devastato Afganistan. Domani?
Le conseguenze della guerra sui lavoratori
Ma il primo conflitto mondiale – la prima vera guerra interimperialista – ha rivelato anche un altro aspetto di cui dovremo saper conto nella fase storica che stiamo vivendo.
Infatti, nei vari paesi coinvolti da quel conflitto, le forze progressiste, i partiti socialdemocratici, i sindacati, organizzarono in una prima fase manifestazioni contro le guerra (clamorosa quella europea a Bruxelles) ma via via smarrirono la loro storia e la loro ambizione a costruire l’Internazionale dei lavoratori e si schierarono a favore dei crediti di guerra ed ognuno a sostegno del proprio governo. La storia non si ripete, ma è uno scenario che ad esempio si è visto piuttosto nitidamente nei mesi dell’aggressione alla Jugoslavia in tutte le società dei paesi NATO impegnati nella guerra (dalla “dolorosa necessità” invocata da CGIL CISL UIL alla colpevole neutralità di alcuni partiti comunisti europei come quello francese o in Italia quello di Cossutta) a quello più recente del voto a favore della guerra in Parlamento da parte dei deputati e dei senatori dell’Ulivo (esclusi i parlamentari del PRC, alcuni dei DS, i Verdi e il PdCI che questa volta ha votato nel modo giusto).
Le forze che animano l’Ulivo, continuano a rimanere sciaguratamente prigioniere di due inganni: il primo è che il senso di responsabilità istituzionale possa essere esteso anche a materie definitive come l’entrata in guerra; il secondo è la convinzione che la guerra possa essere breve, veloce, chirurgica e senza vittime. Vi è infine un terzo inganno che si rivela però nel tempo: le conseguenze della guerra o del bellicismo sui lavoratori e i settori popolari e sulla democrazia più in generale.
E’ evidente come le spese militari siano destinate a crescere, già prima degli attentati di New York e della guerra era stato deciso di aumentarle dall’1,5 al 2% del PIL, la spedizione in Afganistan costerà da subito circa 2.500 miliardi, poi occorre continuare a finanziare il contingente militare nei Balcani. Questa escalation sottrarrà comunque risorse da altri capitoli di spesa. Volendo essere quasi cinici, possiamo dire che quelle militari sono spese a fondo perduto, perchè i “servizi” che vendono non potranno essere pagati da chi li “riceve” se non alla fine del conflitto attraverso i risarcimenti e i debiti di guerra.
Ritenere che la sconfitta di un altro paese sotto le bombe o i missili, che l’umiliazione di altri popoli, che il saccheggio delle risorse degli altri possa rappresentare il giusto prezzo della guerra da pagare e far pagare, è un inganno micidiale e moralmente inaccettabile.
In secondo luogo, anche se i governi diffondono l’illusione che i lavoratori del paese che va in guerra non abbiano nulla da temere in termini economici o di sicurezza personale, gli ultimi conflitti a cui abbiamo assistito, dimostrano che a morire nelle guerre ormai sono più i civili che i militari. Infine, a nessuno sfugge che quando il dogma della sicurezza nazionale si impone come sistema di governo, esso rappresenti la fine della democrazia, delle libertà politiche e sindacali e della stessa possibilità di rivendicare miglioramenti salariali, sociali o politici.
Se a questo aggiungiamo le aberrazioni che vengono prodotte ed istigate dalla xenofobia verso gli stranieri e dalla demonizzazione del nemico, dalla logica della superiorità e dal razzismo, è evidente come il clima di guerra frantumi ogni coesione sociale e idea di solidarietà prima verso l’esterno e gli stranieri presenti nel nostro paese e successivamente verso gli altri soggetti individuali o collettivi che opponendosi in qualche modo alla logica di guerra, finiscono con l’essere considerati non più dissidenti ma “disertori”.
L’economia di guerra e la politica della sicurezza sono armi pericolose, anzi, pericolosissime contro i lavoratori e la democrazia. Chi parla il linguaggio della guerra e della sicurezza non potrà mai essere un alleato dei lavoratori. I sindacati di base, in questo senso, rappresentano la forma più avanzata di resistenza dei lavoratori alla guerra e alle sue conseguenze. L’inerzia, la complicità o il tatticismo dei sindacati ufficiali, rappresentano, al contrario, il rischio di veder ripetere pagine tragiche della storia del movimento operaio, esattamente come accaduto agli inizi del XX° Secolo.
Gli scioperi generali contro la guerra realizzati dai sindacati di base in occasione degli ultimi conflitti, sono un contributo ed un precedente di rilevanza eccezionale non solo per il movimento sindacale italiano ma anche per quello europeo ed internazionale. L’opposizione alla guerra non può che essere frontale e totale. E’ uno spartiacque che divide le posizioni ma che divide anche i passaggi della storia tra un prima e un dopo. E’ quello che c’è in mezzo – la guerra – che deve preoccuparci e spingerci a muovere tutte le forze a disposizione per evitare di rotolare nuovamente sul piano inclinato in cui il modo di produzione capitalista trascina sistematicamente l’umanità.
CREDITS
Immagine in evidenza: Aircrew from a CH47 Chinook Helicopter at Bagram Airbase, Afghanistan
Autore: POA(Phot) Tony Leather, 6 maggio 2002
Licenza: Open Government Licence version 1.0
Immagine originale ridimensionata e ritagliata