Documento introduttivo al Forum internazionale di Roma “Il piano inclinato del capitale!”
La rete dei Comunisti (Contropiano Anno 11 n° 2 – 29 Maggio 2003)
Con il Forum internazionale dedicato al “Piano inclinato del capitale“, i compagni che hanno dato vita prima al giornale Contropiano e poi alla Rete dei comunisti, hanno inteso concludere dieci anni di lavoro e di analisi sull’imperialismo nel XXI° Secolo affermandone la piena attualità come categoria di interpretazione dell’epoca in cui stiamo vivendo. L’affermazione di questa tesi – sulla quale abbiamo chiamato a confrontarsi militanti e studiosi che hanno condiviso in tutto o in parte questo percorso – è il risultato di analisi che a lungo si sono confrontate con gli interrogativi posti dallo sviluppo della realtà. Non si tratta, dunque, di un omaggio alla tradizione del movimento comunista internazionale, quanto dei risultati di una ricerca condotta su una ipotesi di fondo che andava verificata con le tendenze operanti concretamente nelle dinamiche del sistema capitalista dominante ormai a livello mondiale.
In questi anni, nella sinistra europea e mondiale sono state egemoni tesi che hanno negato il carattere imperialista del livello di sviluppo raggiunto dal capitale, hanno liquidato la tendenza alla competizione interimperialista ed il ruolo degli Stati nel mondo contemporaneo, hanno sottovalutato la tendenza dell’Europa a comporsi come nuovo polo imperialista competitivo verso gli Stati Uniti. Si è ritenuto, al contrario, che esistesse ormai un “capitale collettivo” senza contraddizioni interne e talmente integrato da poter essere definito come “Impero”. Gli Stati nazionali sarebbero stati cooptati e travolti da questa nuova dimensione del capitale.
In questi anni, abbiamo avuto la pretesa di ingaggiare una sfida politica e scientifica contro tali tesi cercando di dimostrare che la realtà andava in tutt’altra direzione. Abbiamo infatti ritenuto che la crisi irrisolta del capitale fosse dovuta alla sua incapacità/impossibilità di arrestare la caduta del saggio di profitto e dell’accumulazione e, di conseguenza, aver riprodotto una competizione tra i vari poli imperialisti che ha assunto un carattere globale utilizzando al livello più alto il ruolo degli Stati dando vita a poli – se necessario sovranazionali – fortemente centralizzati sul piano monetario, economico politico, militare. Abbiamo cioè cercato di cogliere la tendenza e di non limitarci a fotografare la realtà per come si presentava.
Le tendenze manifestatesi negli anni ’90
Siamo partiti nel 1993 ritenendo che “le aree imperialiste principali ancora non entrano in rotta di collisione tra loro nonostante i sempre più evidenti segni di “nervosismo” sulle varie questioni perchè i margini di riorganizzazione economica dentro le proprie zone di influenza ed i rapporti economici permettono ancora possibilità di crescita, anche se minime, e di pianificazione economica e finanziaria. Questo equilibrio é sostenuto dalla egemonia militare e nucleare statunitense che però può essere rimessa in discussione dalle modifiche politiche che stanno avvenendo in Russia divenuta ormai una potenza militare sconfitta che si muove nell’ambito dei rapporti tra Stati capitalisti. In questo senso, una politica di alleanze non in sintonia con gli USA potrebbe ridimensionare l’egemonia militare americana che fino ad oggi non è mai stata messa in discussione da Germania, Europa, Giappone” .
Nella prima metà degli anni Novanta, con la dissoluzione dell’URSS e la prima guerra del Golfo del ’91, il mondo entrava pienamente nella globalizzazione egemonizzata dagli Stati Uniti e dal pensiero unico neoliberista. L’Europa si dibatteva nelle difficoltà di applicazione dei parametri antipopolari del Trattato di Maastricht, nelle incerte prospettive della moneta unica e nella destabilizzazione proveniente dalla crisi e dalle guerre nei Balcani. Stati Uniti, Messico e Canada davano vita al Nafta, il Giappone annunciava ma non rivelava la crisi finanziaria e strutturale che lo avrebbe travolto negli anni successivi, la Russia era ridotta ad una colonia dominata dagli “spiriti animali” del capitale finanziario internazionale e la Cina sceglieva il basso profilo politico avviando quella accumulazione di forza economica e militare che si manifesterà successivamente.
Il saccheggio dell’America Latina e dell’Europa dell’Est, l’ipotesi del mercato unico in un Medio Oriente “pacificato” dalla prima del guerra del Golfo e dagli accordi di Oslo tra Israele e Palestina, il boom dell’Asia, lasciavano intravedere una vasta area del mondo in cui operare la valorizzazione dei capitali anche accentuando al massimo la bolla speculativa. Gli Stati Uniti drenavano risorse e capitali dal resto del mondo candidandosi ad una indiscussa egemonia globale.
Eppure gli indicatori economici continuavano a segnalare che i margini di accumulazione del capitale non crescevano, anzi continuavano a dibattersi nel declino evidenziato dalla crisi irrisolta dei primissimi anni ’70.
“Dal punto di vista della nostra analisi” scrivevamo “(negli USA, NdR) non ci sono le condizioni oggettive affinchè questo sviluppo ritrovi l’energia e la potenzialità dei decenni passati. L’altra possibilità è quella di giocare la carta dello scontro economico ed anche militare diretto, cioè ribadire una egemonia mondiale basata sul controllo e non sullo sviluppo. Questo nodo è probabilmente al fondo della dialettica politica americana che vede da una parte il presidente Clinton tentare di seguire la prima soluzione, investendo nello sviluppo economico interno e dall’altra la proposizione di ipotesi più militariste e nazionaliste…D’altra parte il confronto tra i tre poli imperialisti sugli sbocchi di mercato e la competizione internazionale sono determinati dalla situazione reale, in particolare dallo scontro tra USA e Giappone a causa del deficit commerciale americano che aumenta sempre più. Certo funzionano ancora gli strumenti di concertazione economica quali il GATT e il G7, ma le difficoltà a risolvere i problemi aumentano in modo evidente”. (da “Le ragioni dei comunisti oggi, Contropiano, 1994).
Dalla globalizzazione alla competizione globale
Con il primo Forum internazionale sull’imperialismo (luglio 1995) abbiamo chiamato al confronto militanti e studiosi marxisti europei, latinoamericani, asiatici intorno alla domanda se alla fine del XX° Secolo fosse dominante la concertazione o la competizione tra i vari poli imperialisti, se cioè le “camere di compensazione” rappresentate dalle istituzioni internazionali (ONU, WTO, G8, NATO etc.) avessero ancora la capacità di mediare le contraddizioni del sistema come avvenuto nell’epoca del conflitto globale Est/Ovest oppure se i margini di crescita comune del sistema capitalista ormai operante a livello mondiale attraverso la globalizzazione, si stessero in realtà esaurendo aprendo la strada ad una competizione più accentuata.
In quel Forum siamo partiti da una rivendicazione piena dell’impianto teorico marxista e leninista dell’imperialismo come chiave di lettura di straordinaria attualità e dal tentativo di entrare nel merito dei problemi posti e indicati alla metà degli anni Novanta.
“Il quadro teorico marxiano-leniniano è completo se si riesce a comprendere correttamente – e non liturgicamente – il significato di alcune categoria fondamentali: le contraddizioni interimperialiste scatenate dalla crisi di sovraproduzione irrisolta su scala mondiale; la teoria del valore e plusvalore che consente di comprendere la centralizzazione del capitale finanziario transnazionale, la sua caduta tendenziale del saggio di profitto, la proletarizzazione e la riproduzione dell’esercito salariale di riserva e del pauperismo” (Introduzione a “Il capitalismo reale”, atti del Forum Internazionale su “L’imperialismo alla fine del XX Secolo”)
Nel Forum internazionale del 1995, avevamo provato ad individuare la ripartizione del mondo in aree valutarie diverse e le sue conseguenze. L’euro era ancora una aspettativa virtuale, ma indicavamo chiaramente la “riduzione del peso del dollaro nell’economia internazionale. “Le sempre più frequenti bufere valutarie che caratterizzano gli anni ’90, da un lato dimostrano l’instabilità del sistema finanziario internazionale in presenza della liberalizzazione dei movimenti di capitale; dall’altro sanzionano la fine della concertazione finanziaria tra “gli stati finanziariamente più forti” iniziata con l’accordo di Bretton Woods e rinnovata con l’acordo dell’Hotel Plaza a metà degli anni ’80. La scelta di deregolamentare i mercati finanziari sta producendo la riduzione del peso del dollaro nell’economia internazionale”
In quella occasione, abbiamo cercato di sottolineare alcune questioni rilevanti allora come oggi.”Nuove tecnologie (nelle telecomunicazioni e nelle biotecnologie) e nuovi mercati come Cina, India, Europa dell’Est, America Latina, Sudafrica possono attenuare l’accumulazione di contraddizioni in questa fase di sviluppo del modello capitalista oppure dovranno convivere con contrasti, tensioni e contraddizioni crescenti capaci di portare drammaticamente alla luce “il limite” di questo sviluppo?” Dunque nessuna concessione all’idea che la rivoluzione tecnologica della new economy e la globalizzazione dei mercati potessero rappresentare una soluzione duratura alla crisi del piano del capitale. Non solo, relativamente al problema degli Stati nell’epoca dell’imperialismo abbiamo sostenuto che “la tesi secondo cui la globalizzazione stia portando al superamento e alla liquidazione degli Stati è superficiale ed errata in quanto mette tutti gli Stati sullo stesso piano e non individua le differenze sostanziali nel ruolo dello Stato e dei diversi Stati. La situazione nei poli imperialisti e nel resto del mondo non è la stessa…Esistono Stati “disgreganti” e Stati disgregati. Stati Uniti, Giappone, Germania hanno contribuito a disgregare e rendere subalterni altri Stati…..Oggi non è pensabile ritenere che esista un Sud del mondo omogeneo socialmente, economicamente, politicamente da rovesciare contro il Nord opulento e ricco. Quelle che abbiamo definito le “terre di nessuno” come buona parte dell’Africa, alcune repubbliche asiatiche dell’ex URSS, alcune aree dell’Asia e dell’America Latina, non hanno la forza materiale, statuale né soggettiva per rappresentare un fattore di contraddizione strutturale del modello capitalista. Diversamente, la situazione di quella che abbiamo definito la “nuova periferia industriale” presenta contrasti sociali e contraddizioni profonde di estrema importanza” ( da “Il capitalismo reale”).
La Belle Epoque è finita
Ma la battaglia politica e teorica più rilevante l’abbiamo aperta nella seconda metà degli anni ’90 sulla tendenza dell’Europa a costituirsi come polo imperialista competitivo verso gli Stati Uniti. Il Forum europeo organizzato nel novembre 1998 (“Le cause e le conseguenze della costituzione del polo imperialista europeo”) che ha visto la partecipazione di compagni dalla Grecia, Belgio, Francia, Danimarca, Spagna, ha cercato di sviscerare sul piano economico, sociale e militare la tendenza dominante nell’establishment europeo ad accelerare il processo di concentrazione e centralizzazione. La crisi in Jugoslavia che da lì a pochi mesi sarebbe sfociata nell’aggressione della NATO, l’abbiamo interpretata – diversamente da molti altri – come il banco di prova per l’Europa imperialista nel suo tentativo di sganciamento dall’egemonia economica, politica e militare americana. L’escalation sul piano della politica militare europea avviata a giugno 1999, a guerra appena conclusa, porterà alla decisione del vertice di Helsinki di costituire l’Esercito Europeo entro il 2003, mentre l’euro – che subiva i contraccolpi della guerra nel suo rapporto di cambio con il dollaro – a gennaio del 2000 cessava di essere un fattore virtuale dell’economia internazionale per diventare la prima, concreta rottura del signoraggio mondiale del dollaro che aveva caratterizzato l’intero dopoguerra. Lo scetticismo rispetto al ruolo imperialista dell’Europa, non ha riguardato solo i sostenitori della teoria dell’Impero, ma anche settori rilevanti dello stesso movimento comunista, gli stessi che oggi sostengono acriticamente l’Esercito Europeo come elemento fondativo e necessario dell’autonomia dell’Europa dagli Stati Uniti. Questo disorientamento si può spiegare solo con la sottovalutazione profonda del carattere imperialista dell’Europa e della natura di classe delle forze e degli obiettivi che hanno puntato alla sua unificazione. Allo stesso modo, chi oggi si trincera dietro i contrasti emersi tra l’asse franco-tedesco e quello britannico-spagnolo, continua ad avere una lettura giornalistica della realtà piuttosto che una valutazione leninista delle contraddizioni dentro e fra i poli imperialisti. La polarizzazione esercitata dal nucleo franco-tedesco sul resto dell’Europa, ha una forza superiore alla speciale partnership della Gran Bretagna con gli USA o al servilismo dei governi spagnolo e italiano. Mai nella storia, un processo di unificazione che doterà l’Europa di una Costituzione, una moneta ed un esercito comune, è avvenuto senza contrasti e conflitti. Il tentativo statunitense di impedire tale processo (che va ben oltre il mercato unico sollecitato e compatibile con gli interessi strategici USA) e di ipotecare la possibilità dell’euro di imporsi come riferimento delle transazioni internazionali, è uno dei motivi scatenanti dell’escalation bellica statunitense.
Supremazia militare USA o mondo multipolare?
La fine degli anni ’90 ha visto esaurirsi il processo di globalizzazione a egemonia USA e il suo passaggio alla fase della competizione globale che vede nel polo statunitense e in quello europeo i competitori principali. Se questo scenario reggerà alle sue contraddizioni, altri competitori entreranno in campo, ad esempio la Cina. Nel frattempo la concertazione tra le potenze capitaliste su cui si è retto il ciclo del dopoguerra si va esaurendo. Le istituzioni internazionali che hanno retto quel ciclo come l’ONU e la NATO sono entrate in profonda crisi. Le grandi potenze si dividono tra loro, cambiano le alleanze e ci si scontra sui teatri delle varie zone di influenza: ieri i Balcani, oggi il Medio Oriente, domani l’Asia.
Gli Stati Uniti hanno visto ridursi due dei tre fattori della loro egemonia: quello monetario e quello culturale. Da una parte introduzione dell’euro e crisi profonda del sistema economico americano, dall’altro un antiamericanismo che ormai ne rifiuta il modello morale e culturale nel mondo islamico, in America Latina, in Europa e Cina, ossia aree rilevanti del mondo che paiono voler recuperare proprio sull’antiamericanismo il proprio deficit di identità. Agli USA resta il fattore militare che si manifesta però come fattore di supremazia e non più di egemonia. Sulla base di queste contraddizioni, la guerra torna ad essere uno strumento fattuale delle nuove relazioni internazionali dominate dalla competizione globale. Tra il Progetto per un Nuovo Secolo Americano (il Mein Kampf dell’amministrazione Bush) e aspirazioni ad un mondo multipolare da parte delle altre potenze, si apre un conflitto oggettivo che si sovrappone ad una crisi economica profonda dell’intero sistema capitalista. La prospettiva del ritorno al protezionismo intorno ai nuovi grandi blocchi geo-economici, del nazionalismo e del militarismo è piuttosto evidente. Lo scenario è inquietante, la storia si è rimessa in marcia evidenziando gli elementi regressivi piuttosto che quelli progressivi dello sviluppo sociale.
La barbarie la stiamo vedendo…e l’alternativa?
In pochissimi anni abbiamo visto i bombardamenti massacrare le popolazioni nei Balcani e in Medio Oriente, l’infarto ecologico del pianeta manifestarsi concretamente, fame e malattie decimare un intero continente, una brusca polarizzazione sociale ridurre il livello di benessere anche nei punti alti dello sviluppo capitalistico, l’approfondirsi della contraddizione tra aspettative e realtà sul modello capitalista uscito vincente dallo scontro con il socialismo.
I comunisti, diversamente da altri, non si trovano di fronte a scenari imprevisti o inimmaginabili. Nella nostra cassetta degli attrezzi ci sono abbondanti esperienze storiche e categorie analitiche che abbiamo fatto bene a non liquidare ma, piuttosto, ad attualizzare criticamente salvandone ed utilizzando al meglio il nucleo concettuale e il metodo di analisi. L’imperialismo del XXI° Secolo agisce ormai concretamente sotto gli occhi di tutti imprimendo alla realtà i salti e le rotture, le accelerazioni e le pause che abbiamo conosciuto nella storia. Ma qui non si tratta solo di vincere una battaglia teorica, occorre cominciare a pensare all’azione politica per riaffermare l’autonomia di classe e l’alternativa politica ad un sistema che, di crisi in crisi, sta trascinando nuovamente l’umanità dentro la guerra. La prima sperimentazione del socialismo – durata settanta anni – è fallita per le sue contraddizioni interne e sotto i colpi di un conflitto globale durato quarantacinque anni. E’ però evidente che l’esigenza di un altro mondo possibile cominci a manifestarsi come esigenza dell’intera umanità, a questa esigenza occorre cominciare a ridare una prospettiva alternativa di modello sociale e di relazioni internazionali.