Rete dei Comunisti in Il bambino e l’acqua sporca (febbraio 2004)
I venti di guerra che stanno percorrendo il mondo indicano che gli scenari prodotti dall’imperialismo nel XX secolo non sono affatto superati e che si apprestano a riaffacciarsi sotto nuovi abiti ma con lo stesso significato.
D’altra parte da alcuni anni è ripreso un movimento internazionale che partendo dallo slogan “un altro mondo è possibile” pur manifestandosi in tutta la sua ambiguità politica in realtà è il prodotto di una situazione in cui emerge sempre più l’insostenibilità del sistema capitalista a livello economico, politico, sociale ed ambientale.
Non siamo in una fase rivoluzionaria, questo è evidente a tutti, bensì dentro un periodo reazionario sul piano politico ma di forte accumulo delle contraddizioni del capitalismo sul piano strutturale, politico e militare.
L’instabilità politica e militare internazionale è la dimostrazione di questa situazione, e non è del tutto irrealistico prevedere che questa tendenza si affermerà sempre più nel prossimo e nel più lontano futuro.
Se un altro mondo si rende oggi sempre più necessario è altrettanto necessario avviare una riflessione, un approfondimento, un confronto anche internazionale su quella che è stata la tentata “scalata al cielo” del secolo passato.
Questa è un’esigenza generale che coinvolge tutti i comunisti e coloro i quali si pongono in antagonismo allo stato attuale delle cose, che sta evidenziando l’importanza di un confronto finalizzato alla costruzione di una lettura critica della storia del movimento operaio e comunista del ’900 non certo per buttare il bambino assieme all’acqua sporca ma proprio per capire i limiti oggettivi e soggettivi che hanno segnato quella esperienza e per poterli superare.
La Rete dei Comunisti vuole contribuire a questo lavoro fondamentale invitando diversi soggetti ad intervenire sulla base di una nostra impostazione dell’analisi storica da fare che sarà sicuramente parziale e limitata ma che si pone nella prospettiva della ricostruzione di un movimento comunista adeguato alle necessità che i tempi attuali ci pongono.
Inevitabilmente è dalla critica che bisogna partire e della quale non bisogna avere paura, perché la sconfitta c’è stata, perché il capitalismo non è stato superato, perché le prospettive della trasformazione sociale sono di nuovo offuscate.
Sconfitta c’è stata, certo, ma c’è stata anche una lotta durata settanta anni in cui le sorti si prospettavano in modo diverso, anzi addirittura opposto. Allora, la lettura di questi eventi deve tenere inevitabilmente conto di tutti gli elementi, cioè della sconfitta ma anche della fase ascendente e dei suoi effetti. Ciò perché un percorso storico non è, non è mai stato, lineare e, dunque, in questa dialettica concreta tra crescita e crisi, tra passato e futuro bisogna entrare nel merito, avviare una fase non breve di riflessione e di confronto che si misuri con la storia ed i suoi esiti dal punto di vista dei comunisti.
È possibile ora fare questo? Cioè esistono le condizioni, a dieci anni dalla fine dell’URSS e del movimento comunista storico dell’occidente, per cominciare a dare delle valutazioni storicamente valide? E ancora, l’evoluzione degli eventi prodotti dalla fine del movimento comunista del ’900 hanno disvelato in modo chiaro e completo i loro effetti ultimi?
Questo limite non ci deve impedire di cominciare a riflettere, avviando un lavoro che abbia l’obiettivo di collocare storicamente nel modo giusto gli eventi, di capire i punti di caduta del pensiero comunista, di cogliere il peso delle condizioni materiali in cui si è svolta la vicenda della rivoluzione sociale del secolo passato. Perciò dobbiamo definire le linee di ricerca che ci permettano di cominciare a delineare un percorso di analisi, al contempo non possiamo certo pretendere di avere già chiare le conclusioni del lavoro da fare; non possiamo, cioè, ribaltare la causa e l’effetto, non possiamo sostenere delle tesi che portano a delle conclusioni già decise.
Naturalmente questo non significa che si riparte da zero e che chi si ritiene comunista non abbia già un’idea in parte definita; ciò è inevitabile, come è inevitabile la presenza di valutazioni e punti di vista diversi.
Quello che vogliamo dire è che è necessario in via preliminare individuare una metodologia, dei riferimenti teorici e storici che siano di guida nel lavoro. Questo non è un problema solo nostro ma riguarda chiunque voglia dare sufficiente credibilità ad una critica, non di comodo ma ovviamente non negativa a priori, del movimento operaio e comunista.
Questa premessa metodologica è necessaria perché, su questo dobbiamo essere molto netti: non condividiamo un approccio “politico” a questa tematica. Tale approccio, infatti, ha il difetto di continuare la pratica di quel movimento che si vuole criticare, cioè una pratica che ha avuto non poca responsabilità nella crisi. Si tratta della cosiddetta “fallacia politeista”, cioè la tendenza a ridurre il significato di eventi storici al SENSO che si può avere e che è determinato dall’IMMEDIATO quadro della lotta politico-sociale.
Non vogliamo subordinare il nostro giudizio storico alle esigenze politiche contingenti, come non abbiamo santi da beatificare che vadano oltre la nostra capacità razionale di comprendere la realtà.
Dunque, vogliamo ora definire le linee generali lungo le quali cominciare, in modo più organico possibile, l’elaborazione che ci stiamo proponendo.
a) Socialismo realizzato e visione marxista della storia
Il primo “asse” di ricerca è legato alla necessità di collocare l’esperienza dei paesi socialisti, nella loro evoluzione, fine e trasformazione per quelli rimasti, dentro la concezione marxista della storia. È innegabile la funzione reale che hanno avuto queste esperienze storiche; ciò viene ammesso universalmente. Allora, capire, se la loro evoluzione e conclusione siano una smentita di fatto o meno per una visione marxista, è un elemento che non può essere ignorato.
La storia si è presentata come necessità dell’umanità di emanciparsi dalla condizione naturale, cioè di liberarsi dai condizionamenti materiali, quali quelli della scarsità dei beni alimentari, della precarietà della salute, della difesa dell’ambiente esterno, ecc. La necessità delle risposte a questa condizione naturale, hanno prodotto cultura e conoscenza, organizzazione sociale ed istituzioni funzionali ad un livello sempre più alto di produttività sociale. I vari modelli sociali che si sono creati, e che si affermavano nel percorso storico, venivano a loro volta superati da altri modelli dove la produttività sociale complessiva era maggiore.
Il capitalismo, in quanto percorso solo apparentemente lineare, rappresenta il grado più avanzato di produttività sociale mai raggiunto e dato dallo sviluppo della scienza e della tecnica, dalla divisione mondiale del lavoro, da una complessa organizzazione culturale, sociale e politica. Si è scritto “apparentemente lineare” per una precisa motivazione. Infatti, non è vero che il processo storico ha marciato sempre nella stessa direzione, in quanto a periodi di sviluppo sono succeduti periodi di crisi ed oscurantismo. Ad esempio, è sufficiente osservare le vicende del capitalismo del ‘900 per capire in quale crisi profonda si sia trovata questa società nei trenta anni che vanno dal 1915 al 1945, cioè tra la prima e la seconda guerra mondiale.
Non è certo un caso, che la rottura rivoluzionaria bolscevica si è avuta proprio nel 1917 in Russia, e non nei punti più avanzati dei paesi capitalisti; non è stato certo merito della sola capacità strategica di Lenin, il determinarsi della prima esperienza socialista nella storia dell’umanità.
Se questa dinamica reale dello sviluppo è condivisibile, è rispetto a questa che siamo chiamati a dare un primo giudizio sull’esperienza socialista del XX secolo. Le domande a cui rispondere sono molte, ma quello che ci interessa mettere qui in evidenza è che il giudizio sulle esperienze socialiste del XX secolo deve fare i conti con una visione dello sviluppo storico, ripetiamo non deterministico, proprio del marxismo; solo così possiamo collocare gli eventi dentro un percorso che non contempli il capitalismo come orizzonte ultimo dell’umanità, come ci vogliono far credere i suoi apologeti.
b) Sviluppo generale e condizioni materiali nel socialismo
Formulare un’ipotesi di trasformazione sociale può essere determinante per tracciare un percorso che potrebbe poi realizzarsi veramente; ma la sua realizzazione deve fare i conti con le condizioni concrete in cui si sviluppa, in quanto è nella realtà che avvengono i processi. Dunque, un giudizio sulle esperienze socialiste non può non tenere conto delle condizioni concrete in cui si sono sviluppate, rifuggendo però dall’utilizzo di queste condizioni come “scusante” della imperfezione del socialismo realizzato. Pertanto l’analisi delle condizioni concrete ci deve aiutare a capire la maturità effettiva di un processo di trasformazione sociale e, quanto, questa maturità/immaturità abbia contribuito ai limiti dell’esperienza storica.
Sul merito, i piani di ricerca da prendere in considerazione sono almeno due. Il primo è quello della condizione materiale, economica, sociale dell’esperienza storica del ’900. Il secondo è quello dello sviluppo complessivo raggiunto dalle forze produttive in quel secolo, a prescindere dalle caratteristiche sociali dei sistemi esistenti.
Sulla prima questione le cose sono chiare; nel senso che la condizione dell’arretratezza ha accompagnato tutta l’esperienza del ’900, partendo dalla rivoluzione del 1917 e seguendo la nascita dei vari paesi a conduzione socialista, fino alla rivoluzione nicaraguense del 1979. È anche noto che in nessun paese sviluppato c’è stata un’esperienza di trasformazione sociale ed i partiti comunisti sono rimasti fuori dal potere e, dunque, dalla possibilità di costruire un socialismo in condizioni diverse ed avanzate.
Su questa arretratezza si incentrano alcune interpretazioni contrapposte. Alcuni affermano che è stata proprio la debolezza strutturale a causare la crisi dei paesi socialisti, altri, invece, affermano che il comunismo “totalitario” è stato uno “strumento” per raggiungere il livello di sviluppo dell’occidente capitalista.
Su tali ipotesi perciò va sicuramente approfondito il lavoro, tenendo ben presente che potremmo essere soggetti ad una sorta di “illusione ottica”.
Infatti, il XX secolo ha visto una separazione netta tra paesi sviluppati e paesi arretrati, in cui hanno contato, nelle rotture rivoluzionarie, le condizioni di classe (vedi gli operai in Russia nel 1917), le condizioni politiche (il nodo irrisolto della democrazia) e la questione nazionale (la Cina, Cuba, il Vietnam, ecc.). Oggi alcune di quelle condizioni sono mutate, anche se in parte mantengono una loro vitalità, come ad esempio la questione dell’indipendenza nazionale, ed altre invece hanno aumentato il loro peso specifico. Questo cambiamento però non ha ridotto le distanze tra paesi sviluppati e paesi arretrati, anzi queste differenze si sono accentuate. Infatti, seppure la produzione oggi avviene su filiere internazionali, e la condizione di classe si è concretamente allargata ed unificata fin dove prima c’erano solo i contadini, non si è andati ad una omogeneizzazione delle condizioni sociali ed economiche, neppure sul piano tendenziale, ed il mercato non si è sviluppato in modo armonico.
Anzi stiamo assistendo ad un restringimento delle capacità di consumo ai soli paesi avanzati, estese solo a percentuali ridotte di popolazione dei paesi periferici.
Negli anni ’50 e ’60 lo sviluppo economico, il famoso boom, ha modificato sostanzialmente la condizione del proletariato e delle classi intermedie nei paesi avanzati; l’attuale sviluppo ha effetti opposti. Questo significa che la contraddizione avuta nel ’900 tra paesi sviluppati ed arretrati non è stata affatto superata, pur essendosi realizzata una integrazione economica e finanziaria molto avanzata. Se ciò è vero in termini generali, nell’analisi di classe significa che ci potremmo trovare di nuovo di fronte alla divaricazione tra la possibilità nei paesi avanzati di accedere alla gestione delle più moderne forze produttive. per un proletariato che rimane sostanzialmente riformista, e la necessità della rottura rivoluzionaria, solo per un proletariato oppresso dallo sfruttamento ma che si trova, anche oggi, ai margini dello sviluppo, e dunque nell’Est europeo, in gran parte dell’Asia ed in America Latina.
Il riproporsi oggi di questa divaricazione, a quasi un secolo di distanza dalla rivoluzione bolscevica, è un elemento da tenere in seria considerazione nella valutazione sul passato e nella definizione di un percorso storico che prenda in considerazione il superamento del capitalismo.
L’altro dato materiale, da prendere in considerazione, prescinde dalla specifica condizione dei paesi socialisti ed attiene al livello di sviluppo ed alle caratteristiche della produzione nel ’900.
All’inizio del secolo il taylorismo trasforma la produzione e si avvia un processo di ristrutturazione che fa crescere in modo decisivo la produttività sociale, aumentando la divisione del lavoro generando, poi, la produzione di scala e lo Stato Keynesiano. L’Unione Sovietica alla sua nascita non può far altro che fare riferimento a questo tipo di produzione generato da un processo sociale ed economico potente, e di carattere mondiale, adattandolo alla propria condizione.
La fabbrica di Togliattigrad in URSS non è nient’altro che la versione sovietica della produzione di scala in un momento in cui non apparivano imminenti modifiche sostanziali ai processi produttivi, diventando così una sorta di simbolo di una sostanziale parità tra i due sistemi sociali antagonisti.
Il capitalismo stesso, per superare questo modello produttivo, deve attendere la fine del ’900, e non attiva spontaneamente il cambiamento, ma lo fa sotto la spinta di un forte ciclo di lotte operaie e di liberazione degli anni ’70.
Poiché oggi sappiamo che quel livello di sviluppo era superabile, e l’URSS non l’ha superato, quanto questo ha pesato nella possibilità di sviluppo a pieno di una società socialista, a prescindere dalle stesse condizioni di partenza della rivoluzione sovietica?
La rigidità del sistema fordista aveva la necessità, per le sue caratteristiche precipue, di una gestione autoritaria della produzione; nel processo d’industrializzazione dell’URSS, ma non solo, quanto ha pesato questa caratteristica non politica ma strutturalmente insuperabile all’epoca?
Quanto questa necessità “oggettiva” si è trasferita nella gestione del partito e si è protratta oltre la fase inevitabile della industrializzazione, producendo effetti politici deviatiti sulla natura stessa del partito e delle sue funzioni?
Anche qui le domande possono essere molte, ma il punto da mettere in evidenza è quello di capire se la fase di produzione, che definiamo “fordista”, conteneva in se le possibilità, oppure non le aveva o le aveva in parte, per la costruzione di un sistema socialista solido.
c) Il movimento comunista
E arriviamo al “nocciolo duro” della questione. Infatti, se le condizioni generali incidono sulla soggettività, questa esiste concretamente in quanto comprende e modifica le condizioni generali stesse. Nelle potenzialità dello sviluppo storico, ma solo nelle potenzialità, è possibile dare vita ad una società non soggetta alle contraddizioni interne che caratterizzano la società capitalistica, cioè è possibile superare la separazione tra le condizioni date e le necessità umane generali. È evidente che un ruolo decisivo, in questa prospettiva, lo svolge la razionalità nelle sue molteplici espressioni e, dunque, la sua capacità di modificare e superare lo “stato naturale” dell’uomo.
Questo molto semplicemente, significa che le concezioni generali e le scelte concrete fatte dai partiti e dai suoi rappresentanti hanno pesato sulla direzione presa nel corso dei decenni non meno delle condizioni oggettive di partenza.
Una valutazione critica, perciò, deve tenere conto della interazione tra condizione oggettiva e soggettiva e della limitatezza verificata di quest’ultima. Solo in questo modo è possibile ragionare sulla esperienza dell’URSS, dello stalinismo, dell’incapacità del PCUS di affrontare il nuovo livello raggiunto nella seconda metà del ’900. Come pure si deve dare conto delle spaccature nate all’interno del movimento comunista internazionale e delle scelte che hanno portato la Cina ad essere quello che è oggi.
Spesso, nei paesi “sviluppati” siamo molto critici sugli altri ma evitiamo di fare i conti con noi stessi. Spiegare l’incapacità propositiva dei partiti comunisti dell’Europa occidentale rimasti bloccati nella loro funzione istituzionale, in particolare il PCI e la sinistra italiana in genere, non è una questione che può essere rimossa; come va anche spiegato il fatto che, pur esprimendo una posizione critica, pluridecennale, nei confronti dei paesi socialisti, gli stessi partiti comunisti dell’ovest si sono dissolti né più né meno come il PCUS. Forse la sola critica alla assenza di dialettica democratica, pur giustificata,non coglieva i veri limiti dei partiti comunisti, rimasti travolti comunque tutti dalla crisi dell’89/’91.
Naturalmente se si vogliono capire i limiti della nostra esperienza storica bisogna cominciare tenendo ben presenti gli aspetti negativi che hanno accompagnato gli eventi e che, oggi, assumono un peso maggiore nella formulazione di un giudizio da dare in relazione alla verificata sconfitta.
Ma, una valutazione piena della capacità soggettiva non può prescindere dai risultati complessivi prodotti dal movimento comunista. Potremmo fare un lungo elenco di effetti che vanno dal piano economico a quello sociale, fino ad arrivare a quello internazionale. Molto sinteticamente, invece, si vuole sottolineare che il movimento comunista, dal 1917 alle guerre di liberazione, alla impetuosa crescita del movimento operaio in occidente, fino alla fine degli anni ’70, ha messo effettivamente in crisi il sistema capitalista ed ha dato uno specifico ed autonomo ruolo a popoli che nella storia del capitalismo non lo avevano mai avuto, dall’Asia, all’Africa, all’America Latina.
Non solo questo, ma la potenza di un tale movimento ha ingenerato, ad un certo punto, l’illusione che il processo avviato fosse irreversibile e questo anche nelle fila dell’avversario di classe. Facendo un paradosso potremmo sostenere che si è innestata ad un certo punto una “sindrome da onnipotenza”, che non ha tenuto conto della teoria dello sviluppo capitalistico, quindi delle sue capacità di trasformazione, che ha avuto vari effetti. Effetti che si identificano nel militarismo dell’URSS, nel frazionamento immotivato e irrazionale del movimento comunista che ad un certo punto ha fatto perdere il senso stesso della trasformazione come processo storico, senso ben presente nel pensiero marxista.
Forse da questa semplice constatazione, che può fare un qualsiasi militante comunista di vecchia data, cioè che ha vissuto il periodo storico degli anni ’60 e ’70, si riesce trovare un punto di partenza per capire dove la soggettività dei partiti comunisti ha ceduto.
Il credere alla irreversibilità degli eventi accaduti nel ’900, fuori da ogni visione materialistica, ha fatto prevalere, nel fondamentale equilibrio tra politica e strategia, tra contingente e prospettiva, il primo termine dei due binomi, facendo perdere il livello più alto, teorico, storico, filosofico, politico del pensiero comunista e marxista; un riferimento strategico che, invece, esprimendosi proprio a quei livelli, aveva saputo portare a risultati inconcepibili fino ad allora e nell’arco di pochi decenni.
d) Come e quando il capitalismo ha vinto la sfida?
La fase finale del blocco socialista in Europa negli anni ’80 ha mostrato il prevalere di alcune tendenze proprie di quel tipo di sviluppo che portò ad una situazione stagnante e politicamente bloccata. Naturalmente, anche quel periodo va analizzato alla luce di un percorso di riflessione, iniziato precedentemente, determinato dal rapporto tra condizioni e scelte fatte dai partiti e comunisti.
In questo documento, però, c’interessa ribaltare in qualche modo la chiave di lettura sui paesi socialisti, non partire da questi ma dall’analisi del capitalismo degli ultimi 20/25 anni del XX secolo. In altre parole, analizzare le caratteristiche dello sviluppo avuto in occidente permette di capire dove il campo socialista ha ceduto ed ha perso la sua funzione progressiva, avuta invece fino agli anni ’60-’70. Basti ricordare, ad esempio, la capacità di influenza che ebbero l’URSS ed anche la CINA verso i popoli del Terzo Mondo ed i movimenti di liberazione. A un certo punto questa capacità di rappresentarsi come elemento di sviluppo generale è passata dal campo socialista a quello capitalista. Partire da un’analisi mirata su questi punti indubbiamente ci mette in condizione di oggettivare la crisi dei paesi socialisti.
Sappiamo bene che un confronto su quello che è stata la storia del movimento comunista, soprattutto in un contesto di debolezza teorica come quello attuale, rischia di far emergere le divisioni piuttosto che i punti di vista unitari: questi, però, sono il prodotto di una esperienza e formazioni storicamente precedenti che oggi non sono più attuali storicamente. Lo sforzo che invece dobbiamo fare, è quello di riuscire a distaccarci dalle nostre impostazioni soggettive, per avere una visione più realistica del processo che vogliamo analizzare.
Includere in questo lavoro un approfondimento dello sviluppo capitalista non solo in termini generali ma più specificamente nel confronto storico con il socialismo che c’è stato, sicuramente può essere utile.
La ripresa dell’egemonia borghese è avvenuta sulla base del rilancio delle forze produttive, della sempre più forte socializzazione della produzione, dell’aumento potente della produttività sociale, dello sviluppo mondiale della produzione e del mercato. La borghesia ha così dimostrato che può ancora svolgere un ruolo generale, anche se è stata costretta a generare questo nuovo livello di sviluppo a causa proprio del potente conflitto di classe avuto nel XX secolo.
Se quest’analisi è corretta, è allora vero anche che la produzione informatizzata. flessibile, mondializzata, è una tappa obbligata (visto che alternative non ce ne sono, o comunque non sono emerse nel percorso storico concreto) nello sviluppo della produzione socializzata. Questa tendenza, che oggi si manifesta concretamente potrebbe essere presa come uno degli assi portanti della nostra ricerca teorica e politica.
Partendo da questo presupposto si può dire che lo scontro tra sistema socialista e capitalista a partire dagli anni ’70 è stato, in ultima analisi, un conflitto tra produzione di massa di tipo fordista e produzione informatizzata e mondializzata?
Perché i partiti comunisti non hanno effettuato loro questa trasformazione produttiva?
E, soprattutto, perché i partiti comunisti non hanno anticipato loro questa trasformazione, visto che è tutta interna ad una visione marxista dello sviluppo storico?
Le risposte a tali domande vanno individuate su varie linee di ricerca da sviluppare e, naturalmente, da interconnettere.
La prima linea di ricerca sembra essere quella che riguarda la capacità soggettiva dei partiti comunisti, ed in particolare del PCUS. Questi hanno dimostrato di non avere avuto gruppi dirigenti, nella seconda metà del XX secolo, all’altezza delle necessità storiche della trasformazione sociale.
In altre parole, perché si è consumata la separazione tra partito e teoria?
Si rende necessaria un’analisi degli errori teorici di fondo che si evidenziano, non dalle sole elaborazioni dell’epoca, ma dallo sviluppo storico successivo.
Al superamento strutturale dovuto all’aumento di produttività, si è aggiunta una forte capacità di rappresentazione ideologica da parte dell’occidente. Nella prima parte del ’900 i concetti di emancipazione economica e sociale, di libertà e democrazia erano ad appannaggio del socialismo.
II miglioramento delle condizioni economiche della classe operaia occidentale, ed europea in particolare, l’aspirazione alla libertà dei popoli dal colonialismo, hanno trovato un riferimento forte, alternativo al capitalismo. Il miglioramento economico e sociale avuto nel dopoguerra, la corsa alla “scoperta dello spazio” in competizione agli USA e il crescere del rapporto con i movimenti di liberazione e con le borghesie nazionali antiamericane, sono i fatti storici che, negli anni ’50 e ’60, hanno dimostrato la capacità d’attrazione del campo socialista.
Negli anni ’80 la situazione viene completamente ribaltata, e si riesce a dimostrare che è il capitalismo a rappresentare una prospettiva credibile per i paesi sviluppati, ma anche per il resto del mondo. Sappiamo bene che così non è stato, basti pensare alla politica del debito estero fatto adottare ai paesi del Terzo Mondo che li ha resi ancora più subordinati agli USA ed al FMI.
Comunque, è riuscita a passare l’idea che l’occidente fosse l’unica prospettiva, agendo su vari livelli. Il primo è stato quello economico, che nasce dal rilancio liberista e dalla finanziarizzazione, che hanno accentuato la crescita quantitativa ed i consumi nei paesi avanzati ed in settori di borghesie nazionali, dimostrando così che la ricchezza poteva venire solo da una economia capitalista, ed addirittura, neoliberista sfrenata.
Poi c’è stata la funzione dello sviluppo scientifico, avuto nel settore civile, e non solo militare. L’informatica come strumento di massa, la ripresa del primato scientifico degli USA nei confronti dell’URSS, i processi d’automatizzazione della produzione; sono tutti elementi che hanno permesso una ripresa dell’egemonia occidentale a livello mondiale. Infine c’è stata la capacità di riprendere in mano la “fiaccola” della libertà, rappresentando i paesi socialisti come il regno dell’oppressione.
È chiaro che queste rappresentazioni sono false; ma non è questo il punto su cui ragionare. Va invece capito che l’offensiva ideologica borghese ha colto alcune esigenze di fondo, non solo materiali ma anche ideali, che riguardano tutta l’umanità.
Che questo sia avvenuto realmente lo dimostra non solo la crisi politica dell’Est, ma anche la capacità attuale di far rimanere quella occidentale, l’unica visione organica della realtà e del mondo, contrastata, fino ad oggi, solo da rappresentazioni che guardano più al passato che al futuro (vedi le ideologie etniche, religiose, tribali, ecc).
Dato strutturale e rappresentazione ideologica vanno perciò analizzate e viste assieme, in relazione alla incapacità dei partiti comunisti di essere all’altezza di una simile offensiva da parte del capitale.
Aprire il confronto
Abbiamo individuato quattro ambiti di analisi e di confronto, che naturalmente sono strettamente connessi tra loro; la separazione che abbiamo attuato ha solo la funzione di sistematizzare il lavoro e non di dividere gli argomenti. D’altra parte proprio la tematica che vogliamo affrontare, cioè la capacità soggettiva dei comunisti nel ‘900, impedisce un’operazione di separazione meccanicistica dei processi. Forse questo per molti è scontato, ma riteniamo utile chiarirlo, perché il lavoro da fare è complesso, impegnativo, e vuole avere come obiettivo quello di dare organicità anche allo sviluppo del confronto.
Si pone, infine, il problema di individuare delle ipotesi di interpretazione complessiva delle vicende storiche sulle quali, ovviamente, qui non ci sentiamo di pronunciarci.
Il socialismo e la sua crisi sono state in realtà una tappa di un processo storico che è cominciato e non affatto concluso?
La crisi del socialismo è stato il prodotto, sostanzialmente, di errori ed incapacità soggettive dei partiti comunisti?
Su queste ed altre ipotesi crediamo che sia giunto il momento di aprire un confronto più largo possibile. In questo senso abbiamo proposto di scrivere diversi contributi, sulle linee di ricerca da noi individuate e proposte, per poter costruire un quaderno finalizzato ad aprire un confronto ed un approfondimento di lungo periodo su queste tematiche.
Naturalmente niente di più dannoso può essere lo schematismo nell’affrontare una tematica politica e storica complessa e delicata.
Per questo vogliamo aprire al massimo il confronto, tra chi ritiene che il capitalismo sia un periodo superabile della storia umana, senza aver paura di affrontare anche quelle posizioni più distanti da noi.
Sappiamo bene che, anche su questo piano, sarà necessario prendere posizione e assumersi responsabilità, ma ciò non sarà possibile senza andare a fondo del confronto e tentando di rimuovere ed ignorare i nodi politici, storici e teorici, che il movimento comunista del ‘900, nella sua grandezza e drammaticità, ci pone anche per il futuro.
Il bambino e l’acqua sporca (2004)
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Immagine in evidenza: Russian Revolution: Bolsheviks in Moscow
Autore: rosaluxemburg
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