Capitolo III° del Quaderno di Contropiano
pubblicato in TARGET. Iraq, competizione globale e autodeterminazione
La scelta fatta in quel periodo di sostenere l’autodeterminazione dei popoli oppressi è stata una scelta politica in rottura con il marxismo ufficiale di Kautsky e di molti partiti socialdemocratici che in nome della classe rifiutavano il principio della difesa della nazione come reazionario e che privilegiavano i grandi stati alle piccole patrie.
Se leggiamo tra le righe di quelle polemiche forse riusciamo ad intravedere qualcosa di molto attuale quando in nome dei “principi generali”, quali quelli dei diritti umani, della democrazia, della modernità, si sostengono, in particolare a sinistra, gli interventi militari dell’ONU o gli embarghi “umani tari” come quello fatto all’Irak per dieci anni.
Al di là di ogni opinione che si possa avere sulle posizione di Lenin e dei partiti Comunisti nati dalla opposizione alla prima guerra mondiale e dalla prima rivoluzione socialista è incontestabile che l’analisi fatta all’epoca, e le scelte politiche che ne sono seguite, hanno individuato con sorprendente chiarezza le contraddizioni, gli orientamenti e le potenzialità che si intravedevano nella lotta per l’autodeterminazione dei popoli nella fase imperialistica di inizio secolo.
Quella impostazione teorica ha permesso di far arrivare a sintesi due tendenze in apparente contraddizione; da una parte la spinta dei popoli a reagire alla aggressività prodotta dalla fase di sviluppo imperialista. Aggressività non solo militare ma soprattutto economica, sociale e politicamente reazionaria che portava alla rivendicazione della indipendenza nazionale.
Dall’altra la costruzione di grandi dimensioni statuali in quanto solo in questa condizione è possibile sviluppare le forze produttive, razionalizzare la produzione, mettere a disposizione dei popoli risorse sempre più consistenti e prospettare ulteriori progressi scientifici e sociali, in sintesi recuperare sulla base della autodeterminazione e del diritto democratico dei popoli di poter scegliere il loro futuro una tendenza unitaria che portasse alla costruzione di grandi entità statali.
Anche su questo la posizione assunta all’epoca coglieva le tendenze obiettive insite nello sviluppo e non è certo un caso che a poco meno di cento anni dalla enunciazione di quelle posizioni la spinta a costruire nuove entità statali soprannazionali è divenuto un processo potente nella economia capitalista che coinvolge non solo l’Europa ma tutte le aree del mondo incluso il continente Americano.
Senza voler affermare che le tesi espresse in quel periodo siano ancora valide, in tutto od in parte, è indubbio che nel misurarci con queste nella valutazione storica da dare non si può negare la grande capacità di previsione e di azione che quelle posizioni potenzialmente permettevano e che poi hanno effettivamente permesso.
Se osserviamo il periodo storico che arriva fino alla fine degli anni ‘70 è difficile negare l’efficacia politica di una tale visione teorica. Infatti non solo l’URSS è riuscita a rilanciare più volte il proprio sviluppo, pagando evidentemente prezzi politici ed umani troppo grandi, dalla fase della industrializzazione negli anni ‘30 alla ricostruzione del secondo dopo guerra, fino alla competizione scientifica e spaziale con gli Stati Uniti ma anche molti altri popoli hanno preso la strada della loro emancipazione.
La Cina ne è ancor oggi l’esempio più evidente ed anche problematico; ma quasi tutto quello che era stato chiamato terzo mondo è stato coinvolto in un processo di liberazione che ha scosso nelle fondamenta l’impianto imperialistico del mondo occidentale dopo la seconda guerra mondiale.
Asia, Africa, Medio Oriente ed America Latina hanno dato vita a lotte di liberazioni che hanno avuto un enorme significato, come quella del popolo Vietnamita, e che hanno creato seri problemi agli Stati Uniti.
I colpi di stato nell’America Latina in particolare ma non solo, l’embargo quarantennale a Cuba, lo strangolamento tramite il debito estero negli anni ‘80 di interi continenti, l’intervento economico diretto come è avvenuto in Nicaragua sul finire degli anni ‘80 fino agli interventi militari dell’esercito americano ripresi sistematicamente con l’invasione dell’isola di Grenada sono state le risposte che sono venute per risalire la china presa dagli eventi dopo la rivoluzione Cinese del 1949 e che rischiava di “accerchiare” le metropoli capitaliste.
Lotta per l’autodeterminazione e per la democrazia, coniugazione del socialismo con le aspirazioni dei popoli alla indipendenza nazionale, costruzione di aree economiche alternative al capitalismo, internazionalismo e solidarietà delle lotte operaie e giovanili soprattutto nei paesi europei verso i movimenti democratici dei paesi del terzo mondo sono gli eventi che si sono concretamente realizzati ad oltre cinquanta anni dalla nascita dell’URSS e che erano alla base della concezione dei comunisti rivoluzionari di inizio ‘900.
Queste non vogliono essere affermazioni apologetiche in quanto sappiamo bene come si è concluso quel “secolo breve”, cionondimeno quello che è avvenuto è stato uno scontro reale che ha modificato non solo i popoli ed i settori sociali che sono stati i soggetti attivi della lotta ma anche la borghesia che ha dovuto superare una prova durissima modificandosi, alla fine del XX° secolo, come classe e come sistema di egemonia.
Partire perciò da quello che ha scritto Lenin e che è stato seguito dal movimento Comunista nel corso degli eventi passati ci sembra una scelta corretta e realistica non perchè quelle cose oggi sono ancora valide ma perché quella analisi e quel metodo hanno colto appieno il segno e le possibilità dei tempi.
Semmai il problema che abbiamo oggi è quello di saper essere altrettanto bravi nel valutare la situazione, le prospettive e nell’agire di conseguenza anche sulla base della esperienza storica ora a nostra disposizione. Il problema che ci si pone, dunque, è quello di tentare di analizzare nel modo più organico possibile la realtà del nuovo imperialismo e di quale rapporto concreto viene stabilito in questa fase con gli stati subordinati e con le loro classi sociali.
Autodeterminazione politica ed autodeterminazione economica
Una differenza con il periodo di Lenin balza immediatamente agli occhi ed è che oggi, l’autodeterminazione politica è un fatto compiuto; usciamo da una fase di scontro di classe internazionale che ha assunto anche le forme della lotta per l’indipendenza nazionale e che ha completamente modificato la configurazione politica del mondo.
Il processo di decolonizzazione è stato impetuoso e si è protratto fino alla metà degli anni ‘70 con la indipendenza delle colonie portoghesi; si è radicata nella coscienza dell’umanità il principio che ogni popolo deve decidere per il suo destino e le borghesie dei paesi imperialisti hanno accettato, obtorto collo, questo fatto; nei casi delle borghesie più intelligenti si è anticipata questa tendenza concedendo pacificamente l’indipendenza poiché si capiva che una guerra di liberazione non poteva che essere la soluzione peggiore per loro.
Ma se all’ordine del giorno del ‘900 c’è stata l’indipendenza politica delle nazioni oppresse non è stata, ne poteva esserlo ne può esserla oggi, risolta la questione della indipendenza economica. Infatti questa non era possibile un secolo fa e non è possibile ora in quanto si mantiene ancora fortemente la subordinazione economica dei paesi non imperialisti.
Il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, il WTO sono gli strumenti che sono stati adottati negli ultimi decenni per sancire la subordinazione economica di interi continenti ma questo, seppure in modi diversi, è sempre accaduto perché fa parte della storia del capitalismo che sa andare oltre le forme politiche purché arrivi ad accrescere sempre più l’accumulazione.
Accettare l’indipendenza politica purché si mantenga la subordinazione economica non è una tattica che viene usata nei confronti dei paesi non imperialisti ma fa parte della natura stessa del capitalismo. La separazione tra società politica e società civile, intesa nei termini usati da Marx, fa parte della vita degli stessi paesi imperialisti dove la forma politica democratica e rispettosa delle leggi viene totalmente rimossa nelle concrete relazioni sociali dove quello che conta sono i rapporti di forza reali.
Formalmente i detentori dei mezzi di produzione nella dimensione politica sono uguali agli altri cittadini, nella realtà il potere economico corrompe, condiziona e determina le scelte generali tramite lo stato e perpetua le condizioni per la propria riproduzione. Quello che accade a livello internazionale non è nient’altro che la “globalizzazione “ di una tale condizione insita nella democrazia borghese. In questo possiamo tranquillamente dire che non è cambiato nulla rispetto all’imperialismo del secolo passato.
Blocchi economici come tendenza storica
Un elemento di continuità e di verifica delle analisi fatte all’epoca è quello della relazione tra lo sviluppo delle forze produttive e la dimensione nazionale degli stati. Che lo sviluppo delle forze produttive tendesse a forzare la dimensione dello stato nazionale è un elemento su cui si basa la teoria dell’imperialismo. Oggi sarebbe riduttivo parlare solo di teoria in quanto quello che poteva essere scambiato, soprattutto per chi lo voleva, per una politica aggressiva sul piano militare ora è verificabile nella strutturalità del livello di sviluppo che il capitalismo ha raggiunto.
Siamo infatti passati da un imperialismo basato sugli stati nazionali ad un imperialismo che tende a creare una nuova dimensione soprannazionale degli stati. La costituzione dell’Unione Europea è paradigmatica di questa tendenza infatti in base alle condizioni materiali e storiche specifiche si sta procedendo ad una unificazione sostanzialmente pacifica, ma non del tutto se si considerano ad esempio le recenti guerre balcaniche, guidata delle borghesie nazionali dei vari stati europei, ma non di tutti se si considera quella Inglese, che hanno ben capito che ad un determinato sviluppo delle forze produttive deve corrispondere un altrettanto sviluppo della dimensione statuale che non può che essere oggi continentale.
Questa tendenza non è solo Europea ma riguarda in primo luogo gli Stati Uniti che, con il tentativo di costituzione dell’ALCA dopo aver dato vita al NAFTA, puntano a creare la stessa condizione partendo però da basi materiali e storiche diverse da quelle europee. Allora appare chiaro che, in Europa, la nascita della moneta unica è stata il prodotto di un sostanziale equilibrio d: forze tra le borghesie dei diversi paesi.
Invece il processo di dollarizzazione forzoso che è in atto in America Lati na è causato dallo squilibrio economico, politico, militare, e dunque complessivo, a favore degli Stati Uniti; in sintesi forme diverse di unificazione sottendono lo stesso processo di adeguamento dello Stato al nuovo livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive.
Che questo non sia un processo scontato e lineare, come non lo è d’altra parte neanche quello Europeo, lo si vede dalle resistenze che vengono da paesi quali l’Argentina ed il Brasile che hanno già costituito unioni di mercati quali quello del Mercosur che si oppongono alla penetrazione, ancora più condizionante che nel passato, degli USA.
La stessa tendenza si può intravedere anche negli altri continenti dove dei poli economici quali quelli della Russia, della Cina, dell’india sviluppano la propria forza economica, nei limiti dalle loro possibilità, ed il ruolo dello stato che diviene una condizione fondamentale per la difesa, in tutti i sensi inclusa quella militare, del loro sviluppo.
L’unico continente dove questi sviluppi sono assenti è quello Africano dove la devastazione prodotta dalle multinazionali occidentali ha ridotto il rango di questo continente a semplice produttore di materie prime dove persino la popolazione umana è divenuta superflua; ed alla eliminazione di questa superfluità non sono estranei ne l’epidemia di AIDS ne le guerre tribali che contagiano il continente. In futuro, forse, si potrà prendere coscienza che è stato perpetrato un genocidio ben più grande di tutti quelli precedenti.
Qui non ci interessa entrare nel merito di quello che sta avvenendo in Russia, che è di nuovo un anello debole, o in Cina, dove l’analisi ed il dibattito teorico e politico è per noi del tutto aperto, ma ci interessa evidenziare quanto la tendenza alla costituzione ed al rafforzamento dei grandi stati sia forte aldilà della ideologia ormai consunta della riduzione del ruolo dello Stato rispetto al mercato.
Parlare di grandi stati almeno sul piano tendenziale significa anche porsi il problema politico di come avviene questa costruzione e dunque il problema della democrazia e della libera scelta dei popoli sul proprio futuro. Abbiamo sotto i nostri occhi un esempio molto chiaro che è quello della costruzione della Unione Europea; nonostante che questa nuova dimensione statuale venga data per scontata sappiamo bene che chi ha deciso i passaggi della costruzione Europea e la gestione di questi passaggi sono stati i cosiddetti poteri forti ovvero quelli finanziari ed i gruppi dirigenti legati a questi.
Non è un caso che tutti i referendum fatti, soprattutto nell’Europa del Nord, hanno dato un esito ripetutamente negativo in contrasto con i tempi ed i modi decisi attorno a questa costruzione. In altre parole i popoli europei sono stati privati del loro diritto a decidere e questo è accaduto nei paesi più sviluppati del mondo cioè in quei paesi dove i cittadini avrebbero teoricamente meno motivi per contestare l’egemonia del capitale sulla società.
Si presume, di conseguenza, che laddove i rapporti di forza economici e politici tra paesi siano squilibrati, come ad esempio nell’America Latina, quello che potrebbe emergere è un processo di vera e propria annessione formale senza che i popoli potrebbero dire alcunché sul processo in atto. Dunque seppure la nuova dimensione degli stati è una condizione obiettiva per lo sviluppo è ancora vero che il modo in cui queste costruzioni avvengono portano alla scomparsa politica delle classi e dei popoli che dovranno pagare il prezzo di simili nuove unioni statuali.
L’unificazione autoritaria in blocchi economici e politici è d’altra parte obbligata per l’attuale livello di sviluppo dell’imperialismo a differenza del ‘900, quando la caratteristica principale era quella dell’esportazione di capitali, e di interi apparati produttivi, per conquistare nuovi mercati in competizione con gli altri paesi imperialisti. Si manteneva così una certa “estraneità” alla struttura politica ed istituzionale dei paesi in cui il capitale operava che, di fatto, dovevano garantire la sola libertà economica; in caso contrario si poteva sempre fare un colpo di stato od intervenire dall’esterno in vario modo.
Oggi lo sviluppo scientifico e tecnologico funzionale al capitalismo richiede altre caratteristiche molto più stringenti per i paesi non imperialisti. Infatti la dimensione produttiva non rimane più dentro i confini nazionali, sia dei paesi imperialisti che dei paesi subordinati in funzione del mercato interno, ma è dislocata nelle cosiddette “filiere produttive” in un ambito internazionale che collega strettamente la produzione di merci, che viene fatta nella periferia, alla progettazione e capacità finanziaria che caratterizzano il centro.
Anche la realizzazione dei profitti avviene soprattutto nei mercati sviluppati, ovvero nei paesi imperialisti, oltre che nelle fasce sociali privileggiate, ma quantitativamente ridotte, dei paesi subordinati, dunque la produzione della periferia è strettamente collegata alla realizzazione dei profitti che avviene prevalentemente nei paesi sviluppati.
Una tale stretta connessione produttiva modifica il rapporto tra capitale e Stato nei paesi periferici facendo diventare quest’ultimo non una condizione politica esterna alla produzione, come lo era stato fino agli anni ‘70, ma un suo elemento interno come lo è già nei paesi imperialisti.
Non solo, con il predominio nella produzione di profitti del settore terziario su quello industriale sono diventati di interesse diretto anche quei servizi, sia sociali che di altro tipo, che nei decenni passati erano stati fatti gestire dallo Stato e dalle comunità. Dunque i processi di privatizzazione generalizzati hanno richiesto a loro volta un controllo molto più diretto sugli Stati controllati dai paesi imperialisti.
Al fondo quello che sta determinando la condizione e le attuali dinamiche è quella crisi di accumulazione che ha investito il capitalismo che da circa trent’anni viene rinviata ma non può essere superata pena una crisi profonda dell’attuale sistema.
È abbastanza evidente che questo salto delle forze produttive, e la conseguente riorganizzazione sociale e statuale soprannazionale, pone problemi nuovi nell’affrontare il diritto dei popoli all’autodeterminazione e ci impone un lavoro di analisi e teorico per capire quegli elementi di continuità con l’imperialismo del ‘900 e quelli invece di rottura.
Socialismo, democrazia ed autodeterminazione
Un dato politico caratterizza la fase attuale da quella della decolonizzazione e delle lotte di liberazione nazionale ed è l’assenza della Unione Sovietica, intesa non tanto come Stato forte in contrasto con gli Usa, ma piuttosto come un modello economico sociale alternativo a quello capitalista che permetta uno sviluppo indipendente dai paesi imperialisti.
La capacità di connettere la lotta per il socialismo, cioè per un modello alternativo, alla lotta per l’autodeterminazione è stata uno dei motori propulsori delle rivoluzioni sociali ed ha condizionato tutto il mondo. Sono stati coinvolti in modo diretto i paesi del vecchio terzo mondo con le lotte di liberazione oppure con la costruzione di ampi fronti internazionali, quale quello dei non allineati, che hanno pesato nella dialettica internazionale e in sede ONU che aveva all’epoca perlomeno una qualche funzione reale di cassa di compensazione dello scontro internazionale.
Nella lotta per la libertà dei popoli sono stati coinvolti anche i paesi sviluppati nei quali sono nate grandi lotte per la pace, contro le politiche guerrafondaie degli USA, contro la subordinazione politico-militare, ad esempio nella NATO, agli Stati Uniti e in solidarietà ai popoli che lottavano politicamente e militarmente per la propria indipendenza. Queste grandi battaglie, iniziate già sul finire degli anni ‘40 e durate fino agli anni ‘70, hanno segnato profondamente intere generazioni.
Naturalmente non è stato tutto determinato dalla presenza dell’URSS ma certamente l’esistere di questa contraddizione ha creato spazi e condizioni tali da rendere difficile, ed in alcune fasi impossibile, l’egemonia del capitale. Gli anni ‘70 sono stati il momento in cui tutte le contraddizioni dell’“Impero” si sono concentrate causando perdite imprevedibili quali ad esempio quella dell’IRAN, causata dalla nascita dell’integralismo religioso sciita che poco aveva a che vedere con il movimento di liberazione precedente, che ancora pesa per gli Stati Uniti.
La scomparsa di una possibile alternativa complessiva crea una condizione del tutto nuova e molto più difficile. La scissione tra una prospettiva alternativa e la necessità di affermare il diritto alla autodeterminazione ha l’effetto non solo di indebolire le lotte di liberazione, ma vengono anche ribaltate le funzioni delle classi sociali all’interno dei paesi subordinati.
Si riafferma in questo modo l’egemonia delle borghesie nazionali le quali non hanno interesse a rompere con l’imperialismo ma solo a contrattare la propria posizione nel modo più vantaggioso per se, ed a scapito delle classi sociali subalterne del proprio paese.
Se prima questa poteva essere presa come un’affermazione ideologica di “marxisti-leninisti” inveterati oggi abbiamo uno scenario internazionale che ci pone solo l’imbarazzo della scelta nel tentare di fare esempi. Si potrebbe cominciare dalle neo-borghesie degli ex paesi socialisti a quelle dei paesi arabi mediorientali per finire con quelle africane, che più che borghesie potrebbero essere paragonate alle caste medioevali od a capoclan.
Quello che hanno in comune questi gruppi dirigenti, aldilà delle loro specifiche differenze, è la propensione a contrattare tutto con i paesi imperialisti, utilizzando anche le contraddizioni tra i loro interessi causate dalla competizione, a totale scapito delle proprie popolazioni e delle classi più povere. Dalle vicende dei paesi dell’est europeo e dei balcani, che vivono in buona parte con l’economia illegale e con il commercio di vario tipo di esseri umani, alla disinvoltura con cui si cambiano alleati, anche a costo di enormi sacrifici umani, come è avvenuto per il regime pachistano in occasione della guerra al l’Afghanistan, o come sta avvenendo per la borghesia finanziaria araba, in par ticolare di quella Saudita, che vorrebbe liberarsi dal controllo americano sul petrolio che ritiene di sua esclusiva proprietà e non certo di tutto il popolo.
In questo contesto viene meno l’equazione che è stata sempre fatta tra autodeterminazione e progresso sociale, cioè lasciare in mano alle borghesie nazionali dei paesi subordinati la bandiera della lotta per l’indipendenza non serve ad emancipare tutto il popolo ma è solo un nuovo strumento di oppressione in mano aH’imperialismo.
Imperialismo come reazione politica
Tutti questi processi, vicende e condizioni sono “immerse” in una situazione generale anch’essa non nuova storicamente ma che si riaffaccia in modo deciso per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale; è questa che “colora” tutte le contraddizioni fin qui descritte e che le orienta verso uno scenario di incrudimento e di approfondimento generale.
Ci riferiamo alla svolta politica che si è avuta a cavallo del passaggio di secolo e che ha basi materiali molto solide; si è passati da una fase in cui la crescita complessiva permetteva spazi “democratici” nelle relazioni tra stati e nello sviluppo economico interno a questi ad una dove tendono a predominare, dentro un processo prevedibilmente lungo e non lineare, il monopolio economico, il protezionismo e la reazione politica.
Innanzitutto va compreso che questa tendenza non è “politica” ma strutturale e se nasce negli USA è perché in quel paese i processi di riorganizzazione capitalistica sono più avanzati, e per primi stanno toccando i limiti della situazione attuale. In quest’ottica la presidenza Bush e l’attentato alle torri gemelle a New York non sono affatto le cause, ma le conseguenze, la concretizzazione di una situazione che si era andata a determinare nel decennio precedente.
La crisi degli anni ‘70 era stata superata con la finanziarizzazione dell’economia e con processi di riorganizzazione produttiva a carattere internazionale; il liberismo, le privatizzazioni come politica generale, la nascita delle cosiddette “tigri asiatiche” sono alcune caratteristiche di quell’epoca che tutti ricordiamo. Questa strategia ha tenuto per tutti gli anni ottanta ed ha rilanciao a livello mondiale l’egemonia degli Stati Uniti e del sistema capitalistico.
Le contraddizioni ulteriori che stava maturando quel tipo di svolta non so0 riuscite ad emergere perché il crollo dei paesi socialisti e dell’URSS hanno aperto di nuovo spazi di crescita, ed hanno rafforzato la scelta della Cina di continuare nella integrazione economica a livello mondiale. Questo quadro ha prodotto un allargamento quantitativo del mercato e delle possibilità di crescita. La nuova condizione internazionale ha avuto un effetto moltiplicatore sul piano economico rilanciando il ciclo e l’accumulazione dei profitti e sul piano politico ha avuto una rappresentazione internazionale democratica, di allargamento decisionale ma sempre sotto l’egida Statunitense.
Gli anni novanta sono stati gli anni della accentuazione della riorganizzazione produttiva a livello internazionale, del boom delle borse e della speculazione finanziaria ed infine gli anni dove nel nostro paese si vagheggiava dell’Ulivo mondiale e Clinton riceveva due mandati presidenziali consecutivi che rafforzavano l’immagine democratica ed egemonica del capitalismo. Non che in quella fase non ci fossero contraddizioni e guerre ma queste erano abbastanza agevolmente risolte nell’ambito delle trattative tra le nazioni occidentali e “democratiche”.
Mentre il mondo capitalista “festeggiava” la vittoria sul comunismo emergevano i primi sintomi di una malattia grave che si sarebbe poi manifestata in modo più evidente. Cominciarono a manifestarsi sul finire di quel decennio una serie di pesanti crisi finanziarie nelle economie più periferiche e nel Giappone che sebbene, probabilmente, siano state pianificate e prodotte dal FMI sotto le indicazione degli Stati Uniti, evidenziavano i limiti di uno sviluppo che invece sembrava non volersi mai fermare come affermavano gli apologeti, peraltro di sinistra, degli americani e di Clinton.
Riportiamo dal libro “IL PIANO INCLINATO DEL CAPITALE”, edito dalla Jaca Book che riporta gli atti del convegno internazionale organizzato dalla Rete dei Comunisti il 12 e 13 Aprile 2003, alcune pagine scritte dall’economista Vladimiro Giacché che descrive in modo chiaro e sintetico le caratteristiche e la gravità delle contraddizioni che si stanno manifestando nella competizione globale in atto tra le grandi potenze dopo la fine del mondo bipolare nato nel secondo dopo guerra.
LA CRISI DEGLI USA
Questa è la situazione. Le cifre del predominio militare USA sono impressionanti; il problema è: tutto questo rappresenta una dimostrazione di forza e di invincibilità – o del contrario? M. Inamdar dice, propendendo, sia pure con cautela, per la seconda ipotesi: “Le nuove basi militari USA, ed il crescente controllo sugli approvvigionamenti di petrolio, possono essere legati ad un mutamento storico che ha luogo dagli anni Ottanta: con la nascita del blocco dell’euro e del blocco dello yen, il potere economico USA forse è in declino. Ma dal punto di vista militare gli USA sono ancora la superpotenza indiscussa. E quindi stanno proiettando il loro predominio militare verso nuove regioni strategiche, come una sorta di contrappeso futuro nei confronti dei loro competitori economici, per dar vita ad un “blocco del dollaro” protetto militarmente: un cuneo situato geograficamente tra i loro principali competitori” [1] . A leggere queste parole, si direbbe che questo gigantesco spiegamento di forze abbia realmente – come affermano alla Casa Bianca uno scopo difensivo: però rispetto ad una minaccia che non è militare, bensì economica. Credo che questo punto di vista sia sostanzialmente corretto.
Il riarmo e la crescente aggressività militare americana rappresentano una risposta alla crisi. Non si tratta di una novità, né di qualcosa che richieda teorie interpretative nuove: ad avviso di chi scrive le teorie dell’imperialismo, che hanno da sempre posto l’accento (tra l’altro) sul nesso essenziale tra forza militare ed obiettivi di dominio e sfruttamento economico, ricevono anzi da quanto sta accadendo una eccellente conferma della loro validità: ed è veramente un peccato che qualcuno di recente le abbia abbandonate in prò della pseudoteoria deH'”impero”, che in fondo altro non è se non una riproposizione dell'”ultraimperialismo” kautskiano [2] . Ovviamente, però, si tratta di capire quali siano i tratti specifici dell’attuale crisi, con particolare riferimento all’economia statunitense.
Il contesto è rappresentato da una grave crisi da sovrapproduzione che ha colpito contemporaneamente le principali economie capitalistiche: di Stati Uniti, Europa e Giappone. Come oggi ammettono le stesse statistiche ufficiali, negli USA la crisi data – nella sua forma acuta dal marzo 2001 (6 mesi prima dell’attentato contro le Torri Gemelle), ed era stata anticipata dallo scoppio della bolla speculativa della “new economy”, avvenuto esattamente un anno prima. Per quanto riguarda l’Europa, la crisi si è manifestata dalla seconda metà del 2001, mentre il Giappone è sostanzialmente in stagnazione da più di un decennio. Sta di fatto che nel 2001, per la prima volta da diversi anni, il commercio internazionale non è cresciuto, ma diminuito. Nello stesso anno, hanno cominciato a manifestarsi forti propensioni protezionistiche da parte degli USA, che hanno scatenato una guerra commerciale nel settore dell’acciaio, elevando unilateralmente forti dazi sulle importazioni; sono inoltre state inoltre fortemente accresciute le sovvenzioni agli agricoltori USA, nonché quelle a determinate categorie di imprese esportatrici.
La cosa curiosa è che questo avveniva negli stessi mesi in cui il sig. Bush andava magnificando, al famigerato G8 di Genova, la “globalizzazione” come strumento per migliorare il tenore di vita nei paesi poveri (ossia nei paesi dominati). Discorso due volte falso: in primo luogo perché la “globalizzazione”, ossia l’apertura delle economie ai commerci internazionali, era stata pilotata in maniera tale da favorire i paesi imperialistici e non i paesi poveri (per citare un solo esempio, le merci brasiliane esportate negli USA vengono gravate di dazi nella misura del 36% medio, mentre su quelle statunitensi vendute in Brasile viene applicato un dazio di appena 1’11%), ed in secondo luogo perché, con l’approfondirsi della crisi, anche questa liberalizzazione asimmetrica dei commerci stava ormai diventando insostenibile per gli USA.
Si apriva quindi una fase di protezionismo. In senso diretto e indiretto: ossia sia tramite guerre commerciali, sia attraverso il rifiuto di adottare standard di produzione più avanzati (e costosi), a dispetto degli accordi internazionali (vedi rifiuto di accettare il protocollo di Kyoto sulle emissioni dannose per l’atmosfera). La cura ha funzionato? No. La crisi si è approfondita. Nel gennaio del 2003 il livello di utilizzo degli impianti negli Stati Uniti è stato inferiore al 75%, le esportazioni USA sono scese dai 75 miliardi di dollari del 2000 a 62 miliardi, gli investimer ti in tecnologia sono precipitati da 44 miliardi di dollari del 2000 ad ap pena 28 miliardi, infine, dal gennaio 2002 al febbraio 2003, 2 milioni di lavoratori hanno perso il loro posto di lavoro [3] . Rispetto a questa situazione, non stupisce che la fiducia dei consumatori sia scesa in marzo ai livelli più bassi da 10 anni a questa parte. Quanto ai dati, che periodicamente i giornali ci propinano, relativi ad aumenti stratosferici della produttività negli USA, essi sono una pura e semplice presa in giro: siccome la “produttività” si misura in output diviso per le ore lavorate, essa può aumentare anche quando le ore lavorate crollano e l’output scende, ma in proporzione minore. Ed è precisamente questo che è accaduto negli anni 2001 e 2002 [4] .
A quanto sopra va aggiunto che gli Stati Uniti hanno tradizionalmente un forte deficit delle partite correnti (nonché una propensione al risparmio negativa), a cui si è aggiunto nell’era Bush un deficit pubblico di tutto rispetto (intorno ai 300 miliardi di dollari). Ma torniamo al primo aspetto, che rappresenta un dato strutturale per l’economia americana (è in essere dal 1975!). Il deficit delle partite correnti ha raggiunto i 500 miliardi di dollari nel 2002, e quest’anno veleggia allegramente verso i 600 miliardi, cioè il 6% del PIL. Si tratta di un livello che altrove comporta crisi valutarie e forti svalutazioni. Negli USA questo non accade, perché quel deficit viene compensato (cioè finanziato) attraverso flussi di capitale dall’estero. Questi flussi sono essenziali, anche perché, a fronte di passività nette nei confronti del resto del mondo che si aggirano intorno ai 2.500 miliardi di euro, oggi la Federal Reserve ha riserve in oro per appena 11 miliardi di dollari e riserve in altre valute per 45 miliardi di dollari: queste riserve, senza gli afflussi di capitale dall’estero, consentirebbero di pagare soltanto il disavanzo commerciale maturato in 40 giorni [5] .
I flussi di capitale verso gli Stati Uniti non sono cessati. Ma le cose stanno cambiando: essi infatti peggiorano come qualità e diminuiscono in quantità. Vale la pena di spendere qualche parola in particolare sul peggioramento qualitativo dei flussi di capitale. Gli investimenti di capitale migliori sono gli investimenti diretti (ad esempio l’acquisto di imprese americane): sono migliori in quanto meno facilmente smobilizzabili. Questo genere di flusso di capitale ha finanziato il deficit delle partite correnti USA alla fine degli anni Novanta (attualmente questo flusso è negativo, cioè sono maggiori gli investimenti diretti USA all’estero che il reciproco). Poi si è passati agli investimenti azionari. Questo tipo di investimenti è più facile a dismettersi, ma rispetto ad altri strumenti finanziari (ad es. le obbligazioni) ha un vantaggio per il creditore: l’azionista, se l’azienda in cui ha investito fallisce, non può pretendere nulla. Oggi questi investimenti diminuiscono, ed aumentano gli investimenti in obbligazioni: queste ultime nel 2002 hanno finanziato il deficit delle partite correnti americane per una quota dell’85%, contro un 33% del 2000 (attualmente, un terzo dei titoli di Stato americani ed un quarto del debito delle imprese è posseduto da stranieri). Questa parabola discendente è caratteristica delle crisi finanziarie dei “mercati emergenti”, e di regola conosce due ulteriori fasi: gli investitori prima richiedono obbligazioni a scadenze sempre più ravvicinate, poi pretendono che il debito sia denominato in valuta straniera (per mettersi al riparo da svalutazioni improvvise). La curva dei rendimenti delle obbligazioni USA suggerisce che gli investitori stiano già scegliendo obbligazioni a scadenze più ravvicinate [6] . Quanto al fatto di esigere che le obbligazioni USA siano espresse in un’altra valuta, questo allo stato è fantascienza: per il semplice motivo che il dollaro è tuttora la valuta internazionale di riserva. Ma anche a questo riguardo ci sono problemi in vista.
FUGA DAL DOLLARO?
I problemi del dollaro si chiamano “euro”. Il peso della valuta europea a livello internazionale cresce: le obbligazioni internazionali denominate in euro hanno già eguagliato quelle denominate in dollari; aumentano anche le transazioni commerciali effettuate in euro; inoltre, aumenta (a discapito del dollaro) il peso relativo delle riserve in euro detenute dalla banche centrali di tutto il mondo (dalla Russia alla Cina, dal Canada a Taiwan): nel 2002 tale peso è raddoppiato rispetto all’anno precedente, passando dal 10% al 20% del totale [7] . Di fatto, i paesi che adottano l’euro nel regime di cambio o come valuta di riferimento sono oggi ben 56, oltre ai 12 dell’Unione Europea che l’hanno adottata ufficialmente. Tra essi vi sono i paesi dell’Europa Centro Orientale; i Balcani (Kosovo, Montenegro e Macedonia, Slovenia Croazia, Bosnia, già ancorati al marco tedesco); i paesi africani tradizionalmente legati al franco francese; e – guarda un po’ – la maggior parte dei paesi del Medio Oriente Per contro, la diffusione del dollaro incontra problemi seri: a cominciare dalla grave crisi che ha investito i paesi dollarizzati dell’America Latina.
Tutto questo contribuisce all’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro. E fa sì che un volume maggiore di capitali sia attratto verso la zona euro sia nella forma di investimenti diretti che di investimenti “di portafoglio” (cioè finanziari): in concreto, l’afflusso netto di capitali verso la zona euro è stato di 29,4 miliardi di euro nel 2002 (l’anno precedente ne erano usciti 63,4) [8] .
Ma, soprattutto, ha in prospettiva una conseguenza di fondamentale importanza: l’euro si avvia ad insidiare il primato del dollaro come moneta mondiale di riferimento. Se le cose continueranno così, si giungerà entro pochi anni ad un sistema valutario mondiale imperniato su due valute (dollaro ed euro), con una terza (lo yen) molto staccata per importanza (per quanto riguarda la sterlina, già oggi assai meno importante delle prime tre valute, essa appare destinata a perdere peso indipendentemente dall’ingresso o meno del Regno Unito nell’euro) [9] .
Questo significa principalmente una cosa: il dollaro cesserà di essere l’unica valuta internazionale di riserva (perdendo così i privilegi economici connessi a tale status: primo tra tutti il fatto di attrarre ingenti capitali e quindi di potersi permettere un rilevante deficit delle partite correnti anche per periodi molto lunghi). Il rifiuto di svalutare il dollaro nasce da questa paura, oltreché dalla centralità economica assunta dalle grandi corporation finanziarie che ruotano attorno a Wall Street; laddove le imprese manifatturiere americane (quelle che potrebbero invece giovarsi di un’eventuale forte svalutazione) producono soltanto il 25% del PIL USA.
Il punto è che la fuga dal dollaro è già in corso. In particolare, gli europei, per la prima volta dal 1993, nei primi dieci mesi del 2002 sono diventati venditori netti di strumenti finanziari USA. E un vero e proprio crollo del dollaro sinora è stato evitato soltanto perché i governi asiatici (e in particolare quello giapponese, che vanta il miglior attivo della bilancia commerciale nei confronti degli USA) hanno comprato dollari per impedire che le loro monete si apprezzassero eccessivamente rispetto al dollaro. Ma la cosa non può durare all’infinito. Ad esempio, “la riunificazione delle due Coree potrebbe scatenare una completa riallocazione/ristrutturazione dell’imponente risparmio dell’Asia” [10] . Oppure la crisi del Giappone potrebbe approfondirsi, inducendo questo Paese a liberarsi di un po’ di dollari e titoli denominati in dollari. Oppure la Cina potrebbe decidere di convertire in euro una ingente percentuale delle sue riserve in dollari.
O, più semplicemente, i banchieri asiatici potrebbero decidere che è troppo rischioso tenere titoli in dollari.
Insomma, il rischio è reale. Infatti, come scriveva Marcello De Cecco già all’inizio del 1999, “esiste ora un’alternativa al dollaro che è assai più credibile dello yen, perché proviene da un’area dell’economia mondiale con i conti in regola, anche se afflitta da crescita insufficiente e da disoccupazione ostinata”. De Cecco proseguiva chiedendosi: “Come farà [Greenspan] a convincere gli investitori istituzionali di ogni paese a continuare a comprare azioni e titoli di Stato americani, (…) ora che l’euro propone un vasto mercato finanziario alternativo su cui investire?”. E soprattutto, come reagiranno gli Stati Uniti a questo rischio? De Cecco pensava a due possibili tipi di reazioni. “La prima è di far venire in luce i “keynesiani” tra gli strateghi della politica economica” (Stiglitz, Krugman), favorevoli ad un accordo con Europa e Giappone sui tassi di cambio, per non rendere la svalutazione del dollaro eccessiva. Oppure? “La seconda [reazione], che purtroppo non è affatto da scartare, è un tentativo caparbio e arrogante di negare la nuova situazione, e di riportare il contesto a quello che è stato fino a qualche mese fa, con qualche azione di politica estera che crei turbamento tra Cina e Giappone, o destabilizzi ulteriormente la Russia, o infiammi il Medio Oriente” [11] .
L’inizio degli anni 2000 segna perciò un passaggio fondamentale dove vengono al nodo una serie di contraddizioni strutturali che segnano anche la cosiddetta sovrastruttura politica ed ideologica; lo scatenamento della competizione globale è il sintomo inequivocabile che i margini di profitto ormai non possono essere mantenuti per tutti i paesi imperialisti nello stesso modo, che la tendenza al monopolio del sistema industriale e finanziario impone una svolta politica interna ed internazionale e che gli stati ed i blocchi politico-economici devono adeguarsi a questa prospettiva.
In estrema sintesi siamo entrati in un periodo dove le condizioni strutturali, e dunque difficilmente rimuovibili, spingono verso una politica di tipo reazionario sia verso l’esterno che verso l’interno delle aree imperialiste. In altre parole la guerra guerreggiata e la guerra sociale diventano i segni predominanti dell’epoca attuale.
Per capire cosa concretamente pensiamo vogliamo eliminare ogni interpretazione catastrofista ed estremistica; quello che si sta aprendo è un periodo contrassegnato da questi elementi ma è allo stesso tempo un processo che ha bisogno dei suoi tempi per potersi manifestare appieno in tutte le sue conseguenze. Dunque non possono essere escluse della fasi che si manifesteranno in controtendenza, come sempre accade nelle vicende concrete. Quello che va capito è che per modificare effettivamente la situazione sarebbe necessario agire sulla struttura attuale del capitalismo, fatto questo da non potersi escludere a priori, ad esempio con una ripresa economica di lungo periodo grazie ad innovazioni tecnologiche o ampliamento dei mercati, ma che oggi appare altamente improbabile.
Se questa analisi è sostanzialmente corretta la tendenza alla reazione politica condizionerà gli scenari del futuro e ciò riguarderà direttamente le lotte per l’autodeterminazione, che andranno valutate in questo contesto. Questa per ora è sostanzialmente rappresentata dalla amministrazione Bush ma nemmeno l’Europa Unita potrà chiamarsene fuori in quanto, aldilà della immagine buonista e democratica che si vuole dare, sarà costretta ad adottare politiche di riarmo per intervenire da grande potenza sullo scenario internazionale, ed a rafforzare politiche antipopolari all’interno per poter creare i margini per una competizione internazionale all’altezza della sfida che viene dagli Stati Uniti e dal resto del mondo.
NOTE
[1] ↑ M. Inamdar, Global Vigilance in a Global Village: us expands its military bases, Cit.
[2] ↑ Parlo di “teorie dell’imperialismo” al plurale, perché in fondo a tutte (sin da quella di Hob son) è comune l’insistenza sulla funzionalità dell’elemento militare a determinati obiettivi eco nomici. Le elaborazioni marxiste sull’argomento hanno ovviamente il pregio aggiuntivo di col legare il concetto di “imperialismo” da un lato alla centralità assunta dal capitale finanziario (Hil ferding), dall’altro all’affermarsi delle concentrazioni monopolistiche (Lenin, Bucharin). Su que sto tornerò più avanti.
[3] ↑ Dati ufficiali USA, riportati in Don’t Bank on a Bounce-Back, “Business Week” 24/3/2003.
[4] ↑ R. J. Samuelson, Don’t Let Productivity Fool You, “Washington Post”, 18/3/2003.
[5] ↑ G. Palladino, È la banca più potente, ma è senza riserve, “Corriere della Sera”, inserto Corriere Economia, 24/3/2003.
[6] ↑ Dati tratti da Super Euro, “Business Weeb”, 17 febbraio 2003.
[7] ↑ Dati resi noti dalla Banca Centrale Europea il 24 febbraio 2003. Va notato che tali afflussi sono avvenuti nonostante il fatto che i mercati finanziari europei non siano pienamente integrati.
[8] ↑ M. Lynn, Sterlina, il lungo declino della moneta di Sua Maestà, “Bloomberg Investimenti”, 15 marzo 2003.
[9] ↑ Questa affermazione è contenuta in un articolo pubblicato dal “Wall Street Journal Europe”, dal titolo significativo Sliding Dollar’s Fate May Be Deterrnined in East (20/1/2003). Essa contribuisce a spiegare per quale motivo gli USA, interrompendo gli approvvigionamenti di energia alla Corea del Nord, abbiano innescato una grave crisi nell’area, mettendo a rischio (tra l’altro) il processo di riunificazione delle due Coree.
[10] ↑ J. Leathy, Asia Stores up trouble with its dollars, “Financial Times”, 24/2/2003.
[11] ↑ M. De Cecco, Postfazione 1999 a L’oro di Europa, Donzelli, Roma 1999, pp. 204-6. Le cose andarono poi diversamente, e fu la guerra in Kosovo ad incaricarsi di ridimensionare il valore dell’euro. Sino a pochi mesi fa.
CREDITS
Immagine in evidenza: Mural del no al ALCA en un edificio de la FaHCE, UNLP
Autore dell’immagine: Kurco92, 19 settembre 2022
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