Antonello Petrillo – in Il Mondo alla rovescia
Settimane dell’Odio, Giornate dell’Odio e, persino, sedute di Due Minuti d’Odio quotidiano rompono con eccitata regolarità l’ordine monotono del tempo del Socing. Psicopolizia, Lega Giovanile Anti-Sesso e Bambini Spia sembrano non essere sufficienti alla gestione dell’incubo totalitario immaginato da Orwell per la società del 1984′. la gigantesca machinerie per la delazione di massa ha bisogno di essere costantemente alimentata di immaginari, icone pronte verso le quali dirigere, rovesciandolo, il desiderio. Icone, bersagli dello sguardo, di uno sguardo addestrato. Com’è facile immaginare, se si smonta l’onnipresente teleschermo, esso rivela, tra circuiti stampati e tubi catodici, la sua insopprimibile, doppia natura: dispositivo panottico di controllo e, insieme, dispositivo disciplinare di addestramento. Quello del Grande Fratello è, ovviamente, un potere produttivo: l’odio non costituisce un semplice collettore delle pulsioni distruttive della società, né si esaurisce ingenuamente nella sua funzione ideologica, ossia nella forma del mero stampo per la produzione seriale di “capri espiatori” verso i quali indirizzare il rancore sociale, stornandolo dai bersagli “naturali” della politica “interna”. Il gesto positivo consiste nella produzione di tipi specifici di popolazione: Nemici del Popolo, Membri della Fratellanza, Eurasiani prendono consistenza, assumono tratti propri, riescono a stagliarsi sullo sfondo scuro dello schermo, soltanto nel gesto che li istituisce come bersagli di un’attenzione politica specifica. Il movimento che fa apparire questi soggetti collettivi è doppio: li addita alla paranoia sociale nel momento stesso in cui ne ricomprende l’infinita variabilità individuale come pura essenza: non c’è più nessun Winston Smith, signori: di fronte a voi è una razza, la Razza dei Traditori! L’odio è, dunque, innanzitutto una didattica, una ortopedia dello sguardo: nessuna macchina di delazione può funzionare compiutamente senza un efficiente addestramento all’individuazione del nemico sociale: le descrizioni minuziose dei tratti somatici, delle abitudini, degli stili di vita, gli ordinati repertori nei quali ogni differenza viene annotata e classificata non costituiscono un mero predicato dell’odio, bensì la sua intima natura e la sua politica.
Nell’inflazione odierna di letture “biopolitiche” del pensiero di Michel Foucault -spesso suggestive, non sempre accurate- vale la pena riprendere direttamente il testo di una sua lezione tenuta al College de France esattamente trent’anni fa, il 17 marzo 1976. Al fondo degli stermini di massa del XX secolo -suggeriva Foucault- non c’è l’odio, bensì la riscrittura biopolitica della guerra delle razze nel razzismo di stato: come può -si chiedeva- un potere politico che pone ormai la conservazione biologica della vita a propria istanza suprema, tale vita organizza minuziosamente, garantisce, protegge da ogni rischio «[…] fare la guerra contro i propri avversari e per di più esporre i propri cittadini alla guerra, farli uccidere a milioni (com’è per l’appunto accaduto a partire dalla seconda metà del XIX secolo), se non attivando il tema del razzismo? Nella guerra ormai si tratterà di distruggere non semplicemente l’avversario politico, ma la razza avversa, quella specie di pericolo biologico rappresentato, per la razza che noi siamo, da coloro che ci stanno di fronte.^[Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990, p. 167], La razzizzazione del nemico costituisce l’unico varco per la reintroduzione dell’antico diritto sovrano di uccidere nel cuore delle società liberali d’Occidente, nell’economia del moderno bio-potere: «[…] la messa a morte, l’imperativo di morte, nel sistema del bio-potere è ammissibile solo se tende non alla vittoria sugli avversari politici, ma all’eliminazione del pericolo biologico e al rafforzamento, diretta- mente collegato a questa eliminazione, della specie stessa o della razza.»[Ivi, p. 166],
L’antirazzismo di maniera si è lungamente esercitato (e si esercita) nella minuziosa confutazione dei dispositivi terminali del congegno razzista: inferiorizzazione e messa a morte (falsità della proposizione “ebreo = inferiore”, orrore dello sterminio), operazione che ha largamente contribuito a lasciare intatti i territori più profondi del discorso razziale, il quale precede senza ombra di dubbio quello razzista, oltre che, ovviamente, la sua vulgata nazista. La shoà è certamente incubata da una lunga sequenza di pregiudizi anti-ebraici “specifici” (dalle accuse di infanticidio rituale ai Protocolli…) ma, affinché gli “ebrei” potessero essere realmente eradicati dal corpo sociale, quello europeo, nel quale erano da secoli pienamente inseriti, strappati alle formazioni sociali ed economiche concrete, alle relazioni produttive che li definivano secondo le complesse ed usuali articolazioni della cittadinanza moderna, c’era bisogno di un meccanismo più “generale”: la “razza”, appunto. Meccanismo nient’affatto scontato, per nulla spontaneo, come prova la sua inequivocabile “unicità” europea (a meno di confondere la thanatopolitica nazista con l’esperienza antropologica dell’erànos pur presente nella maggior parte delle culture storiche): per la sua messa a punto si resero necessari secoli di sperimentazione “interna”.
La gran parte delle feroci guerre dinastiche che insanguinarono le radici nazionali dell’Europa furono narrate come “guerre di razza” da storici come Coke, Lilbume, Boulainvilliers o Thierry: tali narrazioni non segnarono soltanto il primo tentativo di fondare la sovranità su basi storico-politiche anziché filosofico-giuridiche (sono il vigore fisico, la forza, l’energia di una razza e la debolezza dell’altra -e non già astratti pacta subjectionis e investiture divine- a determinare il destino delle nazioni e la legittimità di un sovrano…), esse condussero fatalmente alla possibilità di individuare nuove razze all’interno stesso del corpo sociale nazionale. Se il potere politico del re e dei nobili non discende, in ultima analisi, che da un surplus di potere biologico, è chiaro che gli altri, i dominati, non possono che costituire una “sotto-razza” interna: alla superiorità biologica non può che corrispondere, simmetricamente, una inferiorità non più solo politica, giuridica ed economica. Il corpo politico hobbesiano si fende irreversibilmente e si sdoppia: d’ora in poi temi come la degenerazione delle classi popolari e la difesa della società contro la parte peggiore di essa costituiranno un assillo costante della politica, istituendo il discorso della lotta fra razze come principio cruciale di eliminazione, segregazione e, infine, “normalizzazione” della società. Evoluzionismo e positivismo permisero successivamente una più efficiente e completa riscrittura del discorso politico in termini biologici: in gioco non era, banalmente, l’opportunità ideologica di fornire una copertura scientifica alla brutalità dei rapporti di dominazione, quanto la possibilità di ripensare -a partire da nozioni quali selezione naturale, lotta per la sopravvivenza, gerarchia delle specie viventi- temi e fenomeni come l’espansione coloniale, la necessità della guerra, la criminalità, la normalità e la malattia, la follia, i rapporti fra le differenti classi sociali…
La riduzione a bios, corredo genetico, di sé c dei propri nemici (ad esempio attraverso l’inflazione delle diagnosi di “malattia mentale” per i nemici di classe in URSS), l’invenzione improvvisa -e l’altrettanto subitanea eclissi- di razze molteplici nella storia dell’Europa -i Germani di Francia, i Cagot del Nord della Spagna, le varie, forzate etnicizzazioni del nomadismo continentale (Rom, Gitani, Korakhane, Sinti etc.), la costruzione delle identità nazionali in Scozia, nell’Italia post-unitaria (con il corredo delle razze Calabresi e Sarde descritte da Lombroso, Orano, Niceforo) o, assai più recentemente, nei Balcani, fino alla più ruspante fondazione di una autoctonia padana- rivelano l’assoluta labilità ed eterogeneità dei principi di volta in volta adottati per istituire i confini della razza, sia quando essi guardano dentro di sé e si declinano nella forma dell’identità, sia quando si articolano come strumento di inferiorizzazione ed esclusione o quando, assai più frequentemente, si mescolano insieme fondendo etnocentrismo e razzismo in un’unica istanza nazionalista. L’antirazzismo di maniera guarda a ciò che è ricompreso entro tali confini, ne contesta l’ordine interno (la supremazia razziale) e, nel far ciò, dimentica di interrogarsi sull’arbitrarietà del gesto che li ha istituiti. Il razzismo è nell’arbitrarietà politica che istituisce la razza, non nei suoi mutevoli predicati (inferiorità/superiorità), non nelle conseguenze che ne discendono (segregazione, sterminio), anch’esse estremamente mutevoli e storicamente contingenti. Le forme reali del vivente, quelle che gli antropologi definiscono popolazioni “politetiche” (caratterizzate, ossia, da una grande varietà di elementi comuni e di discontinuità), vengono incessantemente scomposte e ricomposte secondo i principi di volta in volta più utili all’economia politica dell’esclusione: i confini della pelle o della lingua o della fede tracciano cartografie di un’umanità a geometrie variabili, distinguendo non solo l’umano dal sub-umano, ma anche il non-umano e infinite gradazioni interne per ciascun raggruppamento. Razza è innanzitutto ratio, ordinamento delle cose. Il senso ultimo del razzismo è, in definitiva, nel gesto che classifica assai più che nel contenuto di tali classificazioni; è nella naturalizzazione delle differenze, ancor prima che nella loro gerarchizzazione. Esso consiste precisamente nel trasferire blocchi di relazioni storiche (economiche, sociali, politiche) nel campo senza tempo della natura: l’interruzione del continuum sociale può allora trasformarsi in interruzione del continuum biologico, le masse divenire “gregge”, “mandria”, l’universo indistinto dei migranti rendersi come “orda”, “flusso”, “inondazione”( Mezzadra), la povertà trasfigurarsi in inadeguatezza personale, “tara familiare”. In gioco è l’occultamento della natura processuale, relazionale del fatto sociale, ossia la sua depoliticizzazione: i nessi tra miseria e ordine produttivo vigente, tra arretratezza di alcune regioni del pianeta e pratiche coloniali che le hanno investite etc., possono così scomparire nell’indistinta ascrizione al campo della natura. Introdurre elementi di differenziazione, classificare, frammentare, produrre asimmetrie e squilibri all’interno di quel continuum biologico che il bio-potere investe costituiscono la ratio profonda del razzismo.
Se la questione politica fondamentale attiene in ultima istanza al bios, la morte non può che esservi permanentemente contemplata, sullo sfondo, in potenza, al di là del fatto che tale potenza si trasformi presto o tardi in atto. Al contempo, la morte -intesa come diritto di dare la morte, di uccidere- non potrà che ricalcarsi per contrasto sulla vita, intesa come protezione del corpo biologico della “vera” nazione, funzione suprema dell’organizzazione politica e sua fonte di legittimazione. Il nemico sarà, dunque, sempre “nemico biologico”, minaccia alla sopravvivenza della specie eletta: la sua storia andrà riscritta in termini di bio-storia, i suoi tratti classificati e catalogati nell’erbario delle civiltà, i suoi comportamenti minuziosamente osservati e ricondotti a questa o quella anomalia genetica.
Può certo dispiacere alla Fallaci, a Ratzinger e pure a Pera, ma le radici dell’Europa affondano in questa gleba natale. Una fortunata linea di riflessione che corre da Foucault ad Agamben si è incaricata di mostrarci per tempo sia il rovesciamento operato dallo stato moderno della nota massima clausewitziana (è la politica a costituire la continuazione della guerra con altri mezzi…), sia la sostanziale indifferenza manifestata dalle procedure di sospensione eccezionale della cittadinanza e della dignità di appartenenza al genere umano rispetto alle forme di stato c le forme di governo. Da questo punto di vista -da un punto di vista biopolitico- nessuna credibile cesura è dato stabilire tra ordine liberale, democrazia e totalitarismi del XX secolo. La creazione deliberata di uno stato d’urgenza permanente è divenuta da molto tempo una delle pratiche essenziali dello stato, ivi compreso quello democratico, e ciò senza che vi sia alcun bisogno che tale stato d’urgenza sia dichiarato nel senso tecnico della parola. L’apparente paradosso, l’odiosa ossimoricità delle odierne guerre di difesa preventiva, si giocano del tutto all’interno di questa polarità bio-politica: protezione dagli attacchi terroristici e razzizzazione islamofobica del nemico costituiscono elementi indispensabili l’uno all’altro nella declinazione contemporanea del discorso della guerra. Il Patriot Act, le leggi inglesi o italiane del post 11 settembre non hanno alcun bisogno di sospendere tecnica- mente lo stato di diritto (neppure il III Reich, d’altra parte, ne ebbe bisogno…): attraverso l’iscrizione di intere categorie di soggetti nel regime delle relazioni biologiche pure si rende possibile il loro trattamento nei termini del puro allontanamento di una minaccia fisica alla vita della nazione. L’urgenza biologica permette di superare d’un balzo l’ordinaria farraginosità tanto dei dispositivi giuridici di proclamazione dello stato di guerra, quanto dei meccanismi di regolazione democratica del consenso e della rappresentanza: si può muovere guerra senza dichiararla, impegnandosi piuttosto in “operazioni militari”, azioni di “polizia intemazionale”, “missioni umanitarie”; si può tranquillamente occupare un altro paese prescindendo non solo dalla volontà delle popolazioni che lo abitano, ma anche e soprattutto dalla maggioranza della “propria” popolazione. Le politiche di razza divengono la base teorica delle contemporanee politiche della paura: è solo a partire da questo passaggio che possiamo comprendere come la guerra universale al terrorismo possa porsi -ben al di là delle mere implicazioni strategico-militari- come istanza generale di rimodellamento dei rapporti sociali, influenzando la forma di istituzioni chiave della società civile, dei programmi di sviluppo, del sistema giuridico, delle leggi internazionali e dello stesso dibattito culturale, mediatico o accademico.
E’ soltanto a partire da questo nesso che il dentista post- auschwitziano Calderoli può assurgere alla dignità di una riflessione. Il grottesco tableau vivant offerto dal ministro in canottiera, più che un manifesto politico è un cartellone didattico; non deve mobilitare alcun consenso, la sua funzione è l’addestramento. Nel mentre estrae dal cilindro magico delle razze quella “musulmana”, nel mentre ce nc mostra l’odiosità dei comportamenti verso donne e bambini da avviare al martirio, ci sussurra: riconoscete i segni della barbarie, la sotto-razza musulmana possiede per nostra fortuna tratti di tipicità antropologica che la rendono millimetricamente individuabile… Allenate, dunque, il vostro sguardo… Siate pronti a riconoscere i segni nella foggia degli abiti, nei ghirigori della scrittura! Denunciateli subito alle autorità, giacché essi non sono i nemici d’ astratti interessi geopolitici, ma una minaccia concreta per voi, p quella vita che ogni giorno noi prendiamo in cura e ci sforziamo proteggere dai rovesci dell’aggressività commerciale dei Cines dalla criminalità crescente dei migranti, dall’eccesso statalista dell’imposizione fiscale… Negli Stati Uniti, del resto, hanno da tempo fatto la loro apparizione organizzazioni per la delazione di massa in tutto simili a quelle immaginate da Orwell, che si tratti del Neighborhood Watch Program, concepito originariamente per il contrasto del crimine ordinario, o dell’Operation TIPS (Terrorist Information and Prevention System), nel quale milioni di lavoratori connessi ai settori strategici dei trasporti, della sanità e delle telecomunicazioni trasferiscono ogni giorno -grazie ad un telefono e una connessione internet gratuita- una messe spaventosa di dati sensibili alle autorità competenti. Operatività ed efficienza di queste ultime ne risultano, è ovvio, sensibilmente compromesse, ma la questione in gioco è tutt’altra: le denunce non devono servire a bloccare imminenti attentati, bensì ad addestrare la base più ampia possibile di popolazione interna al riconoscimento di specifiche razze di nemici: a fondare e fondere, in definitiva, la razza e l’odio di razza.
Lo “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington (e, per la verità, da molti altri prima di lui, fra i quali Buzan, Pipes etc.), funziona, da questo punto di vista, come un “manuale d’uso”, uno strumento di costruzione/riscrittura del conflitto entro i termini del riconoscimento di alcuni tratti “caratteristici” di una specifica cultura: è per quello che le descrizioni di Huntington non descrivono alcuna realtà vagamente simile a quella dell’esperienza concreta; esse non stanno descrivendo, stanno addestrando.
L’antirazzismo di maniera è difficilmente disposto a riconoscere caratteri di “razza” tout court all’attuale guerra contro il terrorismo. Si produce in raffinati distinguo tra razzismo biologico e culturale, articola sofisticate differenze tra nazionalismo, xenofobia e razzismo etc. … La natura di tali descrizioni appare il più delle volte assolutamente tautologica: si limita ad elencare ovvie ed immediatamente visibili differenze formali e, per questa via, finisce col dissolvere la sostanza del fenomeno, a dimostrazione di quanto il pensiero analitico possa talvolta disintegrare il proprio oggetto anziché aiutarci a metterlo a fuoco. A differenza che sul piano formale della logica, nell’esperienza storica concreta tali elementi appaiono in realtà raramente scindibili: se Boulainvilliers invoca la biologica superiorità del sangue germanico, egli lo fa per giustificare un ordine politico, una superiorità di tipo eminentemente culturale, quindi, di una razza sull’altra; i processi di costituzione dell’identità nazionale emergono da impegnative separazioni di una razza dalle altre, come ben dimostra il dazegliano “fare gli italiani” puntualmente accompagnato dall’energico dispiegamento del sapere positivista nella distinzione dei “veri” italiani dalle razze infami del Mezzogiorno; gli ebrei vengono definiti tali a partire da presunte caratteristiche genetiche e somatiche, ma anche dai rituali praticati o immaginati (cannibalismo infantile incluso).
Allo stesso modo, se è stato già ampiamente osservato (Badiou, per esempio, e Zizek) che “islamico”, nell’espressione “terrorismo islamico” costituisce ormai poco più che un pleonasmo, dove la sua importanza risiede principalmente nell’essenzializzare l’aggettivo nei tratti del sostantivo, ossia nel fondare una categoria di homo islamicus come un “a sé” autopoietico, occorre appuntare lo sguardo proprio sul termine denotativo /homo/ non meno che su quello connotativo /islamicus/. Come in ogni razzizzazione, l’iconografia del musulmano gioca sull’uomo, sia pure a partire dalla fede: a nessuno, osservando la recente produzione vignettistica, può sfuggire il fatto che, se i testi delle vignette mostrano l’essenzializzazione travisata di alcune credenze religiose, le figure in campo -la forma biologica, cioè, dei corpi riprodotti, ivi incluso quello del profeta Mohammed- risultano essenzializzate secondo moduli tipicamente razziali; capelli, statura, prognatismo, prominenza dei nasi devono rappresentare tutta la distanza biologica dei soggetti ritratti dalla bionda e auspicabile dolicocefalia ariana.
La larga prevalenza di matrici culturali nella definizione contemporanea dell’Islam, il suo attingere più volentieri alle icone dell’Orientalismo coloniale descritte da Said piuttosto che all’antisemitismo biologico non deve indurci, dunque, a ritenere la battaglia che si dispiega sotto i nostri occhi come un mero esercizio di differenzialismo culturalista: affinché l’Islamicus divenga compiutamente sacer, affinché possa essere sottratto -a Guantanamo come Mazar I Sharif, ad Abu Ghraib come a Fallujah, Ramallah o Jenii alle ordinarie disposizioni del diritto e consegnato al puro dispiega mento del potere sulla nuda vita, bisogna che esso venga assunto biologicamente in quanto homo e in quanto tale classificato ed ascritto ad una precisa famiglia della popolazione vivente.
La performatività così capillare del discorso di mobilitazione contro il “terrorismo islamico” non potrebbe, altrimenti, essere intesa fino in fondo. Quale altra spiegazione fornire, infatti, per la capacità unificante di tale nozione, ben al di là del consenso espresso alle operazioni materiali di guerra, ben al di là delle divisioni -pur presenti nel campo occidentale- tra fautori della “guerra giusta” (per i diritti umani) e sostenitori dell’intrinseca immoralità della “guerra sporca” (per il petrolio)? Non casualmente le abituali categorie sociologiche, largamente applicate all’ermeneutica degli aspetti più minuti della vita sociale in Occidente, categorie quali giovani/vec- chi, uomini/donne, occupati/disoccupati, poveri/ricchi, operai/conta- dini, implodono al cospetto dell’IsIam (come opportunamente ricorda, fra gli altri, Adel Jabbar). Tali categorie sono disegnate in funzione di e direttamente connesse allo sviluppo delle tecnologie di gestione del vivente all’interno dei confini delle popolazioni delle quali il biopotere si prende cura: ciò che è fuori è minaccia biologica, la sua descrizione deve essere affidata ad altre categorie, appositamente modellate sul confine fra le razze. E’ patir cause che ogni fenomeno maturato al di là del Mediterraneo non può che assumere tratti “culturali” ed essere ricondotto alla immanente, irrappresentabile -indicibile- brutalità del fanatismo religioso.
Sappiamo bene quanto parecchi di tali fenomeni potrebbero essere spiegati ben altrimenti. Sappiamo bene, ad esempio, quali e quanti legami complessi e sottili il c.d. fondamentalismo intrattenga con la modernità (valga per tutte la lezione di Eisenstadt); quanto ciò che accade “sul terreno” in Medio Oriente sia strettamente connesso alle strategie geopolitiche che i signori occidentali della guerra vi impiantano, ivi incluse le protezioni di volta in volta accordate a questa o quella fazione, a questo o quel tiranno; quanto le retoriche sulla democrazia e i diritti delle donne nascondano la nozione storica brutale che tale superiorità occidentale -lungi dall’essere stata scritta una volta per sempre a caratteri d’oro dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino- costituisca invece, in gran parte, il frutto recente di lotte sanguinose, dispiegate nel cuore dell’Europa ben dentro il XX secolo, in un’epoca, vale a dire, in cui gran parte del mondo musulmano viveva ancora sotto il gioco di una feroce dominazione coloniale, o ne stava tormentosamente uscendo. Sappiamo bene quanto molti degli elementi costitutivi del discorso etnicizzante sull’IsIam rechino, ben occultata, la targhetta del mode in Europe: l’enorme ruolo giocato dalle élites militari nella compressione dello sviluppo democratico di molti di quei paesi, per esempio, strettamente legato alle necessità della dominazione coloniale, con la sua esigenza di produrre una specifica classe di ufficiali modernizzanti -vale “occidentalizzanti”- da reintrodurre, dopo averli opportunamente fonnati nelle accademie militari europee, con il compito preciso di garantire lealtà alla metropoli ben oltre l’avvio dei processi di decolonizzazione (non a caso, per lungo tempo, la costituzione di un Ministero della Guerra, fu il primo atto della potenza mandataria britannica in Iraq…); anche sotto il profilo “ideologico”, utili raffronti potrebbero essere svolti -come suggeriscono Buruma e Margalit- tra la “naturale” disposizione al martirio degli shadid musulmani e l’esaltazione per la “bella morte” che ha infiammato una storia europea non poi troppo lontana (si scoprirebbe allora, forse, in Bin Laden un po’ di Junger: del resto, l’esposizione generalizzata della propria stessa razza al rischio della morte non è forse l’esito ultimo di ogni biopotere, secondo quanto l’intera vicenda nazista sembra suggerire?).
Sappiamo tutte queste cose, e molte altre ancora. Eppure, un po’ come nel mistero della lettera rubata di Edgar Allan Poe, qualcosa occulta la possibilità di mettere insieme, di unificare allo sguardo indizi così evidenti. Come la scrivania ingombra di Poe, il piano di gioco dell’Iraq occupato può mostrarsi ai nostri occhi come un intrico impenetrabile di etnie e tribù deterministicamente prese nella morsa di una incomprensibile, ancestrale necessità di scontro. Si può dimenticare, allora, che quelle etnie sono di costruzione recente, che la mano della storia le ha fatte apparire soltanto ieri e quella mano coloniale era europea prima, americana poi; che quelle qabileh e quelle tribù sono -giù giù fino ai gruppi patronimici che ne compongono la base- strutture segmentane assolutamente scomponibili e ricomponibili secondo l’esigenza politica del momento, in definitiva non dissimili dai gruppi di clientela che costituiscono parte cosi essenziale nel gioco della nostra amata democrazia politica. Possiamo dimenticare, così, che Fallujah prima di essere rasa al suolo secondo dispositivi tattici che la storiografia di altre, recenti guerre, definisce tecnicamente “rappresaglia” e prima di divenire la patria (chissà…) di Al-Zarkawi, fu il teatro delle prime manifestazioni di massa dell’Iraq occupato, manifestazioni invero poco “esotiche”, fatte di cartelli più che di cinture esplosive, di tute più che di djellabiah, manifestazioni che chiedevano -secondo le formule usuali ed abusate del rivendicazionismo sindacale e welfarista- cose banali per gli Europei di un tempo, come salari, occupazione, pensioni, assistenza… Quale esperienza storica aveva fornito alle masse di Fallujah un know how così specifico? Dimenticandolo, rimuoviamo -assieme alla lezione gramsciana che la storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente frammentaria ed episodica- non solo la presenza del partito comunista più antico e più grande dell’intero Medio Oriente, non solo il passato industriale dell’Iraq, il dato non banale che una feroce dittatura potesse convivere con un’organizzazione semi-moderna della produzione e livelli avanzati di stato sociale (conseguiti -non dimentichiamo neppure questo!- grazie ad un gesto banale quanto la nazionalizzazione delle risorse petrolifere); rimuoviamo, soprattutto, la possibilità di spiegarci (al di là di Al- Zarkawi…) il perché l’occhio armato dell’occupante sia stato attratto cosi fatalmente proprio da Fallujah e dal c.d. “triangolo sunnita” e di cogliere il nesso includibile che unisce, al tempo della globalizzazione, la “guerra al terrorismo” in partibus infidelis e la guerra sociale quotidianamente in scena sotto i cieli dell’Ovest.
La trappola ottica, la distorsione dello sguardo propria dell’essenzialismo esotizzante coglie anche noi: ogni qual volta i pecorai dei villaggi afgani, le vite nude dei campi profughi palestinesi o quelle leucemizzate dall’uranio dell’Iraq cessano di corrispondere allo stereotipo della vittima, ogni qual volta fuoriescono dai quadri mediatici delle campagne umanitarie magistralmente descritte da Mesnard, sfuggono alle campagne delle ONG o si rifiutano protervamente di inserirsi in qualche rete del commercio equo e solidale, ogni qual volta provano ad abbozzare sia pur maldestri tentativi di auto-organizzazione o manifestano il desiderio di sottrarsi ai ranghi di caricaturali resistenti pre-moderni alla globalizzazione spersonalizzante di Latouche, per imboccare la strada di forme di resistenza meno astratte sul piano storico, tutte queste volte, essi ci sconcertano… Non li capiamo più, le sofisticate categorie della parola politica progressista e bien-faisante implodono, e le vittime tornano ad essere ciò che ce ne raccontano le vulgate televisive: fanatici e oscurantisti, meglio, terroristi… A scadenze più o meno regolari, del resto, Bin Laden o il suo vice Al-Zawahiri non mancano di comparire sul nostro schermo, come la faccia da pecora di Emmanuel Goldstein nella provincia orwelliana di Pista Prima, a imprimerci bene nella mente i tratti di razza del supremo Nemico, puntuali per l’appuntamento quotidiano dei Due Minuti d’Odio… D’altra parte, se saremo bravi, se compiremo con la dovuta applicazione questo semplice esercizio dello sguardo, anche noi potremo -come Winston Smith- essere un giorno depennati dalle liste dei cattivi grazie a un atto di clemenza del Ministero dell’Amore e forse, chissà, magari trovare un posto nelle affollate aule di una qualche democrazia
CREDITS
Immagine in evidenza: Abu_Ghraib, Iraq.
Autore: U.S. Government copyright; 4 novembre 2003
Licenza: Public domain
Immagine originale ridimensionata e ritagliata