Documento per la seconda assemblea nazionale della Rete dei Comunisti
Formato: 15×21
Pagine: 36
Prima edizione: novembre 2006
L’ANALISI DELLA SITUAZIONE POLITICA
Le elezioni ed il referendum istituzionale del 2006 hanno segnato nel nostro paese una svolta che va capita ed analizzata nella sua natura e nelle sue caratteristiche concrete così come sono emerse finora attraverso l’azione del governo Prodi.
Non possiamo certo dire di essere di fronte ad un passaggio strutturale nella situazione ma quella che si è determinata è una nuova condizione politico-istituzionale con sue specifiche caratteristiche che non sono però in discontinuità con il precedente governo sulle politiche sociali come su quelle internazionali.
In questi mesi abbiamo avuto diverse verifiche importanti a partire dall’invio, in Agosto, dei militari italiani in Libano a sostegno del ruolo di grande potenza che il nostro paese vuole assumere nell’ambito europeo. Anche le politiche sociali e del lavoro previste nel programma dell’Unione ed attuate con l’azione di governo ricalcano in linea di massima quelle di Berlusconi, vedi, ad esempio, la questione della precarietà, della spesa sociale, delle pensioni, della immigrazione etc.
Naturalmente c’è una differenza tra i due governi ma questa non ha riguardato i dati di fondo che sono stati di riferimento anche per l’azione di Berlusconi come, ad esempio, i parametri economici europei. È un fatto che il governo precedente ha avuto, nei passati cinque anni, una posizione che non ha portato a rotture nette con l’Europa. Tutto ciò nonostante che la volontà della gran parte di quelle forze politiche, a cominciare da FI e dalla Lega, fosse molto più filoamericana di quanto abbia potuto esserlo effettivamente nella realtà.
Una tale condizione è in effetti il riflesso di una situazione internazionale complessiva e di una specifica caratteristica del processo di costruzione dell’Unione Europea che delimitano in modo netto sia le politiche interne che quelle internazionali di ogni paese del continente in quanto determinate dalla competizione globale e dal ruolo imperialista che svolge l’Europa unita e, nel suo ambito, il nostro paese.
Questa “camicia di forza”, che non vede emergere momenti di rottura e di conflitto di classe cosciente e progettualmente antagonista, determina anche le caratteristiche, nell’attuale fase storica, dei paesi imperialisti che, dopo il salto di qualità manifestatosi nel 2001 con la crisi finanziaria mondiale, l’attentato alle torri gemelle e con l’avvio della politica unilateralista del governo Statunitense, è segnata da un accumulo di forti contraddizioni che ancora non portano ad un ulteriore passaggio politico caratterizzato da una situazione più pericolosa, conflittuale e contraddittoria.
Quello che è stato superato, in questa tornata elettorale, è il Berlusconismo ed il blocco sociale ad esso collegato che, dopo cinque anni di governo, ha mostrato i suoi limiti di fondo, politici, strategici e culturali.
È necessario oggi rimettere in chiaro la natura della destra italiana in quanto è proprio su questo elemento che viene giocata dall’Unione la carta dell’antiberlusconismo che ha come effetto concreto la paralisi di ogni azione che si ponga in autonomia nei confronti del Centrosinistra; effetto questo che tocca anche quegli ambiti politici e sociali che si pongono, almeno verbalmente, al di fuori dell’attuale maggioranza di governo.
Il governo della Casa delle Libertà è stato il prodotto, in gran parte, delle televisioni e delle capacità mediatiche del proprio leader, capacità manifestatesi appieno nella fase finale delle elezioni politiche, ma non ha avuto alle spalle un blocco sociale e di potere capace di sostenere le sfide che l’attuale competizione globale richiede.
Non va ignorato, soprattutto, che quel blocco sociale è composto dalla piccola imprenditoria, in minoranza oggi anche in Confindustria, da settori popolari e di ceto medio in crisi, dalla anomala base sociale della Lega Nord, anch’essa in forte ridimensionamento, dai vecchi settori clientelari degli ex DC, che nel meridione sono ancora presenti e legati ad ambienti illegali, insomma da parti sociali sottoposti alla “pressa” della ristrutturazione messa in moto dall’attuale “turbocapitalismo”.
Sicuramente questa è una base quantitativamente ampia, da qui la inaspettata ripresa finale di Berlusconi alle elezioni di Aprile, ma che di per se non ha allo stato un progetto credibile né una classe dirigente seria, capitalisticamente parlando, né alleati affidabili.
Infatti, la Confindustria, il mondo della finanza, la stessa Chiesa hanno sempre avuto il piede in più staffe conoscendo bene i punti deboli di Berlusconi; ovviamente a cominciare dal famoso conflitto di interessi che è una contraddizione con quelle stesse imprese che avrebbero dovuto essere invece il retroterra naturale di quel governo.
Data la situazione anche l’appoggio importante che ha fornito il governo di Bush, in cambio dell’intervento italiano in Iraq, ha avuto effetti limitati che hanno aiutato Berlusconi nella sua tenuta ma che non poteva determinare una stabilizzazione strategica dell’alleanza di Centrodestra ed addirittura in chiave filoamericana ed antieuropea, nello stile Blairiano di Londra.
Questa analisi va oggi ribadita in quanto fa emergere due questioni politiche fondamentali.
La prima è che il governo di Berlusconi è stato un governo fortemente antipopolare e di destra ma dentro l’ambito del parlamentarismo occidentale, vedi ad esempio la Tatcher o Reagan, e non certo un eversore e prodromo di un nuovo fascismo, argomento questo che a tutt’oggi viene usato a mò di clava contro chiunque si rifiuta di sottostare ai dettami dell’Unione.
Naturalmente questo non può far dimenticare che l’azione della Casa delle Libertà ha dato fiato in questi anni a rigurgiti fascisti ed ad una sottocultura fascistoide che oggi non sono pericolosi in termini generali però sono causa di numerose aggressioni contro militanti e compagni della sinistra, in alcuni casi anche mortali, e che comunque vanno contrastati con tutte le iniziative possibili e necessarie.
La seconda è che la base sociale del Centrodestra è stata via via amplificata dalle politiche, anch’esse antipopolari, prima del governo Amato e poi dei governi di Centrosinistra succedutisi dal 1996 al 2001. Le politiche di taglio alla spesa pubblica, di sostegno alla flessibilità ed alla precarietà, di intervento militare, le stesse modifiche costituzionali adottate a maggioranza in quegli anni, hanno aumentato la credibilità del Berlusconismo e dei suoi comportamenti antisociali e reazionari presso ampi strati della popolazione e di settori del mondo del lavoro.
Questo stesso rischio si corre anche con l’attuale governo dell’Unione; insomma, anche questa volta, il “meno peggio” non fa altro che preparare il peggio.
Evidenziare quelle dinamiche evitando comode rimozioni che frequentemente vengono fatte dalla sinistra, anche più radicale, serve ad avere un metro di valutazione sulle politiche del governo Prodi nel momento in cui allo sbandierato programma succedono le scelte concrete, prima fra tutte la finanziaria del 2007; tali scelte rischiano di riprodurre gli stessi effetti perversi degli anni precedenti o, in alternativa, una stretta ancora più forte sul piano delle riforme istituzionali ed elettorali per bloccare ogni variabile indipendente rispetto al quadro europeo sia che questa sia di destra o di sinistra.
La evidente inadeguatezza dell’ipotesi berlusconiana ha posto, dunque, il problema della governabilità nel nostro paese e la necessità di costruire un nuovo blocco sociale e di potere che sia in grado di garantirla.
Nella rappresentanza dell’Unione sono contenuti certamente i settori sociali e politici penalizzati dalle politiche del Centrodestra, dal lavoro dipendente fino al movimento per la pace, ma questi hanno una funzione del tutto subordinata e secondaria rispetto a chi oggi detiene potere ed egemonia.
Le Banche ed i poteri finanziari, le grandi imprese, le esigenze strategiche politico-militari della Unione Europea, i sindacati concertativi sono in realtà gli “azionisti” di maggioranza del governo Prodi e costituiscono il nocciolo duro del nuovo blocco di potere legato al Centrosinistra.
Questo nocciolo è in grado di avere progettualità politica a livello interno ed internazionale, pace sociale e governance, una classe dirigente, insomma tutte quelle condizioni necessarie per uscire dall’approssimazione ed irrazionalità del precedente governo Berlusconi.
Va aggiunta a questa valutazione una riflessione relativa allo sviluppo delle contraddizioni già evidenti nella maggioranza di governo, da quelle legate alla politica economica a quelle più strettamente istituzionali, che se si dovessero amplificare rischiano di rimettere in discussione il ruolo dello stesso Prodi determinando l’emergere di una variabile nella ricerca dell’alternativa a Berlusconi e nella garanzia di governabilità dell’Italia.
È in campo, da tempo, l’ipotesi di un governo di unità nazionale (o come altro potrà essere eventualmente definito) che, di fronte ad una potenziale crisi del governo Prodi, metta assieme tutte quelle forze, in particolare quelle di centro dei due schieramenti, in modo da garantire misure sociali, politiche, istituzionali ed elettorali, atte a superare definitivamente la fase di transizione della cosiddetta seconda repubblica.
Un governo che riesca, in modo autoritario nei fatti se non nelle forme, ad eliminare quelle variabili indipendenti, caratterizzanti la cosiddetta anomalia italiana, che impediscono una gestione compiutamente capitalistica ed imperialistica del nostro paese.
Questo allo stato attuale è uno scenario teorico che non può essere scartato a priori, anche perché viene frequentemente evocato da più parti, e che comunque non modificherebbe la natura del passaggio politico che abbiamo vissuto in questi mesi.
Infatti la natura del passaggio effettuato appartiene strettamente alla sfera della politica in quanto dentro un quadro strutturale dato è evidente che l’unico campo di azione è quello della gestione della società e della sua adattabilità, flessibilità, alle continue modifiche e ristrutturazioni sociali e produttive imposte dalla competizione globale che si rafforza sempre più e che oggi va oltre il campo strettamente economico-finanziario raggiungendo la dimensione politico-militare.
Gli effetti della modifica in atto
Gli effetti nell’ambito della politica e delle istituzioni sono molteplici e vanno analizzati per capire bene le condizioni in cui ci verremo a trovare nei prossimi mesi ed anni.
Il primo è sicuramente relativo alle riforme istituzionali ed elettorali.
È stato più volte dichiarato che il referendum costituzionale del Giugno del 2006 non chiudeva ma apriva la fase di una vera revisione della nostra costituzione.
La sconfitta sulla devolution riguarda soprattutto la destra, in particolare la Lega Nord, e lascia mano libera all’Unione ed al costituendo Partito Democratico nella modifica costituzionale avviata già nel 2001 con il cambiamento del titolo quinto e della impostazione federalista funzionale al liberismo ed alla logica privatistica che appartiene anche al centrosinistra.
Aumento delle firme per i referendum abrogativi, il Senato, copiando dalle posizioni della destra, come rappresentanza delle autonomie locali, riduzione netta dei senatori e federalismo fiscale sono alcuni punti del programma dell’Unione che danno l’idea di come si intenda riformare la costituzione.
Alla riforma costituzionale si aggiunge poi quella elettorale che, date le premesse, reintrodurrà il maggioritario nel nostro sistema eliminando ulteriormente ogni possibile spazio che possa potenzialmente mettere in discussione il bipolarismo e capace di togliere di mezzo ogni possibile espressione politicamente indipendente.
Questo la dice lunga sul carattere “democratico” dell’Unione quando si parla e molto di partecipazione che di fatto viene limitata alle cosiddette primarie che sono un fatto del tutto interno alle alleanze politiche.
Un altro effetto legato alla governabilità ed alla gestione razionale delle esigenze imperialistiche è quello della “autoriforma” dei partiti e delle alleanze. I fatti sono già sotto i nostri occhi per quanto riguarda l’alleanza di Centrosinistra dove si delineano le due aggregazioni che intendono essere i soggetti determinanti.
Il primo è il Partito Democratico che unisce la parte centrista della maggioranza attuale e che si sta tentando di costruire eliminando le contraddizioni di potere esistenti tra i partiti. La convivenza problematica tra DS e DL, la permanenza dell’UDEUR, dell’Italia dei Valori e la nascita della Rosa nel Pugno come forze autonome sono i problemi che vanno affrontati non certo sul piano delle divergenze politiche ma della cogestione del potere e di un equilibrio tra le forze che, a tutt’oggi, è ancora in via di definizione.
Anche la trasformazione del PRC in “Sinistra Europea” risponde alla esigenza di governabilità in quanto intende egemonizzare ogni espressione di sinistra esistente nel nostro paese, quelle interne ed esterne all’Unione e quelle di movimento, con l’obiettivo di dare vita ad una solida seconda “gamba” dell’alleanza. Anche qui siamo in presenza di una molteplicità di problemi che riguardano la incompatibilità tra PRC e PDCI, la difesa oligarchica del gruppo dirigente dei Verdi, l’atteggiamento ondivago della Sinistra DS ed il permanere di una serie di contraddizioni che rendono incerta l’egemonia sui movimenti e che sono causa di complicazioni nel percorso preventivato da Bertinotti nel concepimento del nuovo aggregato.
I due progetti, che si sostengono vicendevolmente, dimostrano certamente una capacità “pianificatrice” dei gruppi dirigenti dell’Unione funzionale al cosiddetto “sistema Italia” ma che però deve fare ancora i conti con la realtà.
Tutte e due le ipotesi incontrano grosse resistenze e contraddizioni che rendono molto tortuoso il suo percorso e lo espongono agli andamenti congiunturali della situazione che, almeno in questa prima fase di riorganizzazione politica, potrebbero rimettere in discussione i progetti già avviati.
La necessità di “autoriforma” riguarda anche le forze di destra che però devono fare i conti con una contraddizione molto forte, il ruolo ed il conflitto di interessi che esprime Berlusconi.
Proprio le caratteristiche deboli del blocco sociale della destra hanno permesso l’affermazione della leadership di Berlusconi grazie alle sue televisioni ed alle sue capacità personali di comunicazione.
Oggi quegli stessi elementi di forza sono divenuti elemento di crisi dell’alleanza di destra perché non permettono di adeguarla alle esigenze di governabilità ed europeismo necessario ad una gestione razionale del paese.
Anche qui i fatti sono sotto gli occhi di tutti; lo scontro palese tra l’UDC ed il resto della coalizione, la tendenza all’autonomizzazione della Lega Nord, la indeterminatezza di AN sono il prodotto di una impossibilità di ristrutturazione dell’alleanza che rimane inchiodata su un piano di scontro con il governo Prodi a causa delle posizioni e degli interessi dell’ex premier.
Su questo fronte non si capisce bene quali potranno essere gli sbocchi ma è chiaro che la dialettica innestatasi dopo la sconfitta elettorale influenzerà non solo le forze di Centrodestra ma anche gli equilibri nell’altro polo soprattutto se il governo in carica si troverà ad affrontare ostacoli seri per la propria maggioranza.
La sinistra in Italia
Tra gli effetti politici che ha generato il risultato delle elezioni dell’Aprile passato ce ne è uno che va analizzato a fondo ed è quello che si è avuto sulla sinistra italiana.
Naturalmente l’analisi ed il giudizio che diamo vanno collocati in una situazione dinamica in quanto la fase iniziale del governo Prodi dovrà successivamente fare i conti con lo sviluppo delle contraddizioni.
Il primo elemento da affrontare è relativo all’analisi di quello che sta accadendo nella sinistra più in generale, e per fare questo non si può non partire dalle scelte del PRC e di Bertinotti.
Aver eletto il segretario del partito a presidente della Camera dei Deputati lega il PRC strettamente alla prospettiva dell’Unione evitando il ripetersi della situazione del ’98 con la crisi del governo Prodi dell’epoca. Questa scelta istituzionale sommata alla trasformazione in Sinistra Europea definisce chiaramente la prospettiva di quel partito fuori da ogni ipotesi comunista e produce una modificazione nella relazione a sinistra e con i movimenti sociali e politici.
Mentre prima il PRC ha inteso giocare un ruolo di spinta, anche se controllata, dei movimenti che comunque ha creato una condizione che andava oltre l’influenza del partito e con la quale questo non poteva entrare in conflitto diretto, oggi la collocazione governativa cambia radicalmente quel comportamento.
Nel momento in cui ci si propone come referente, e controllore, di quello che succede a sinistra ed all’esterno dell’area di influenza governativa è chiaro che riuscire o fallire in quell’obiettivo significa giocarsi il proprio ruolo politico e forse anche le proprie prospettive.
La scelta è, dunque, inevitabilmente tra la cooptazione o la repressione di quello che è al di fuori del proprio controllo; la vicenda dell’espulsione di Ferrando ed i ricatti fatti in occasione della votazione sull’Afghanistan sono esempi tangibili di come si potrà attuare la repressione di ogni tendenza anomala. Ma anche la tattica del partito “di lotta e di governo” come cooptare i movimenti anche in funzione degli equilibri interni all’Unione.
Anche le altre due realtà istituzionali, il PDCI ed i Verdi, vivono questo cambiamento politico e modificano in tutto od in parte la propria funzione e ruolo; mentre prima rappresentavano delle possibilità di movimento, grazie alla competizione di fatto che avevano con il PRC che già allora si riteneva l’unico soggetto politico della sinistra, oggi questo spazio si chiude sul piano della politica interna e internazionale, non sappiamo se qualche margine può rimanere sul piano dell’internazionalismo solo per quanto riguarda il PDCI dopo la vicenda Libanese.
In questa condizione peraltro queste forze sono il “vaso di coccio” della compagine governativa e questo è un fatto particolarmente pericoloso per il PDCI che vive una fase di divisione interna in vista del proprio congresso a cominciare dalla crisi con Cossutta e la sua componente.
Un’altra crisi palese è quella dei movimenti che nelle condizioni attuali sono bloccati, divisi e disorientati; il movimento per la pace, quello contro il precariato, sull’immigrazione, sul carovita etc. sono oggetto non solo delle “cure” e delle strumentalizzazioni delle forze governative ma vivono una fase di stallo e di confusione anche a causa della mancata capacità di analisi e di progetto delle soggettività meno legate alla sinistra di governo.
Questa non è una questione secondaria ma è il vero nodo politico per chi si ritiene fuori dalle compatibilità date dall’Unione. Questa crisi, va detto con molta chiarezza, riguarda anche la sinistra più radicale e comunista la quale risponde ponendosi sul piano della rappresentazione politica generale, e talvolta anche ideologica, sbagliando non sui contenuti ma sul livello della risposta da dare che oggi non può più essere essenzialmente “politica” ma progettuale e capace di sedimentazione delle forze.
Questa condizione generale produce un altro effetto che è quello della attivizzazione delle “cinghie di trasmissione” che puntano a coprire tutti gli spazi sociali e politici potenzialmente contraddittori per il governo dell’Unione. Questo riguarda il PRC ma anche, soprattutto, la CGIL, l’ARCI e tutte quelle strutture di massa che fanno capo alla sinistra di governo.
La pace, il precariato, l’immigrazione sono i terreni su cui operare la mistificazione e dunque il depotenziamento dei momenti di indipendenza politica. Anche in questo caso siamo di fronte al binomio cooptazione/repressione che sarà una costante della attuale fase politica in quanto il governo non può permettersi una reale opposizione sociale e politica a sinistra perchè riprodurrebbe all’interno della stessa maggioranza quelle contraddizioni che si vorrebbero esorcizzare proprio con l’attivazione delle suddette cinghie di trasmissione.
Quest’analisi empirica dei fatti oggettivi deve portare ad alcune conclusioni politiche generali necessarie ad orientare il nostro lavoro.
La prima è la constatazione che si sta chiudendo la fase aperta nel 1991 con la Bolognina ed il cambiamento del nome del PCI.
La nascita della Sinistra Europea, la chiusura di fatto del maggiore partito che si chiama ancora comunista e che deriva direttamente dal PCI, porta a conclusione un processo di revisione che ha riguardato tutta la classe dirigente della sinistra italiana e non solo quella dei DS.
Sintomatica è al riguardo la parabola di Cossutta che da fondatore del PRC si appresta a rientrare nella Sinistra Europea, concepita dal suo antagonista Bertinotti, facendo così abiura non solo della propria storia nel PCI ma anche della sua velleità di rappresentare quella storia dopo la svolta di Occhetto.
Tentare di chiudere la storia dei comunisti nel nostro paese non è stato comunque facile e per questo il processo ha richiesto tempi lunghi, ma la svolta Bertinottiana vuole dare un affondo definitivo sul piano ideologico e culturale.
Paradossalmente però questo avviene in presenza di una evidente ripresa delle contraddizioni del capitalismo e di un movimento internazionale che si pone il problema del superamento della società attuale e di un Socialismo del XXI° secolo che tragga lezione dalle vicende di quello passato.
Questa ultima operazione non rimarrà certo indolore e gli effetti ricadranno su tutti quei compagni che ancora fanno riferimento nel nostro paese al comunismo e ad una capacità di lettura della realtà e di analisi che ancora oggi mostra tutta la sua vitalità.
È vero che nell’ambito della rappresentazione generale ed istituzionale c’è il PDCI che si richiama alla storia del movimento comunista ma è anche vero che, al di la delle divergenze che ci possano essere, questo partito ci sembra orientato su una prospettiva errata incapace di riprendere quel filo rosso che si vuole tagliare a tutti i costi.
L’altra constatazione da fare è che il movimento antagonista nel nostro paese non esprime, almeno fino ad oggi, una vera indipendenza e progettualità politica rimanendo diviso e subordinato di fronte alla iniziativa delle forze istituzionali che con le loro articolazioni sociali e di massa riescono a contenere le spinte centrifughe.
Questa è responsabilità delle soggettività e di quella cultura che permette ancora l’affermarsi della cosiddetta “autonomia del politico” oggi del tutto inadeguata ad affrontare i nodi strategici che si pongono. Non vanno però sottovalutati i motivi strutturali che determinano questi comportamenti politici.
Viviamo in un paese che ha una natura imperialista intesa nel senso ampio e dunque strutturale del termine, come abbiamo già più volte analizzato anche in questo documento, che produce una distorsione nei comportamenti politici delle classi subalterne ed una egemonia del capitale, in Italia verificabile anche nell’alta percentuale di votanti nelle scadenze elettorali determinanti ed alla scarsa incidenza dell’astensionismo inteso se non come rifiuto almeno come estraneità al sistema politico.
Nonostante l’accumularsi delle contraddizioni politiche e sociali non si giunge ad evidenti momenti politici di rottura e questa assenza di conflitto di classe direttamente politico agisce anche sui comportamenti della sinistra nostrana dove prevale la contingenza, la tattica e l’incapacità di progetto.
Si tratta di capire bene le implicazioni di una tale condizione generale, di riuscire a far divenire questa analisi di classe del nostro paese un elemento di dibattito generale e di mettere bene in evidenza che la soggettività organizzata è una premessa ineludibile per far evolvere le grandi contraddizioni sul piano di una politica di effettiva indipendenza.
Proprio a causa delle difficoltà che si vivono nei paesi imperialisti assume ancora più importanza la soggettività che per noi concretamente significa capacità di analisi e di teoria, capacità di sedimentazione delle forze sociali e politiche ed infine anche capacità di rappresentazione e di azione politica generale ribaltando così quella prassi che mette al primo posto l’autonomia del politico che spesso tracima nel politicismo.
RIDEFINIRE IL PROGETTO
Come abbiamo già detto l’analisi che facciamo va considerata in divenire in quanto lo schieramento dell’Unione ha appena cominciato a governare ed è naturale che l’emergere degli eventuali punti di crisi ha bisogno di tempo per manifestarsi.
Agiscono sullo sfondo internazionale e nazionale una serie di forze che tendono a modificare in continuazione il quadro di riferimento ed ha creare nuovi problemi e cambiamenti.
Quella più evidente a livello internazionale è la tendenza alla guerra che contiene, e ne è il prodotto, quella della competizione e del conflitto interimperialista. La Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Palestina e le recenti vicende Libanesi sono le manifestazioni concrete di queste tendenze che hanno visto protagonisti nel nostro paese sia i governi di Centrodestra che quelli di Centrosinistra; dunque il governo Prodi, che si è buttato a capofitto nell’avventura Libanese, dovrà fare i conti con una situazione che non è affatto pianificabile e pacificatrice come vorrebbero farci credere le forze dell’Unione.
Anche le politiche finanziarie, del lavoro e sociali dovranno fare i conti con la competizione globale e dunque con i parametri europei che sono propedeutici alle politiche antisociali che da oltre un decennio vengono attuate nel nostro paese.
La concertazione sindacale, i tentativi di cooptazione dei movimenti e la repressione, che il nostro Centrosinistra usa con molta più sagacia di Berlusconi, riusciranno a contenere fino ad un certo punto la condizione sociale che inevitabilmente tenderà a degradarsi ed a trovare degli sbocchi conflittuali.
Significativi in questo senso sono i provvedimenti sulla liberalizzazione adottati da Bersani nella passata estate e la finanziaria 2007. Traspare palesemente in questi interventi la necessità di coprire con una rappresentazione “egualitaria” manovre economiche che invece devono colpire pesantemente lo stato sociale ed il salario indiretto della classe lavoratrice.
Queste due questioni principali assieme ai problemi ambientali, del territorio e delle grandi opere pubbliche, alla strategica questione dell’immigrazione, al nodo della democrazia negata e dell’assenza di una reale partecipazione sono le contraddizioni che operano e che possono aprire spazi di movimento, di iniziativa politica indipendente e, soprattutto per noi, di sedimentazione delle forze che rimane l’obiettivo principale da porsi oggi.
Nell’avviare la discussione per l’assemblea nazionale della Rete dei Comunisti dobbiamo avere ben chiara l’analisi di queste tendenze in quanto la parte propositiva della nostra ipotesi politica deve sapersi collocare tatticamente nella contingenza ma deve predisporsi soprattutto a cogliere gli sviluppi della situazione mantenendo saldo il riferimento al progetto che ci siamo dati adeguandolo alla condizione di movimento che la situazione generale oggi impone.
Se l’analisi fatta sulla situazione politica italiana, in questa parte del documento, è vicina alla realtà delle cose, nel definire la parte propositiva del lavoro dobbiamo aver presenti due riferimenti.
Il primo è che la discontinuità che si sta manifestando appartiene alla dimensione politico-istituzionale e non a quella strutturale in quanto questa si mantiene sul livello delle contraddizioni generali emerse dopo il 2001, come abbiamo detto in precedenza.
Il secondo discende dal primo ed è legato alla riconferma della nostra ipotesi sui tre fronti con una necessaria rimodulazione delle relazioni interne tra i tre interventi, tenendo conto sia della situazione attuale che della dinamica potenziale che si potrà manifestare tramite l’azione delle contraddizioni obiettive che abbiamo approssimativamente già descritto.
L’articolazione del conflitto di classe
Il punto di partenza nella discussione sulle proposte è infatti dato dalla riconferma del nostro impianto complessivo in quanto non ci sono elementi che possano allo stato attuale produrre una sintesi generale sia per dati oggettivi ma soprattutto per l’assenza di una soggettività, non politica perché di quelle ce ne sono fin troppe ma progettuale e strutturata, che sia capace di portare avanti un tale processo; né è credibile che questa funzione possa essere svolta, anche solo in via teorica, dal PRC, vista la mutazione in atto, né dal PDCI viste le contraddizioni di questo partito.
È necessario riproporre anche in questo scritto un accenno della nostra analisi sulla condizione storica in cui stiamo agendo.
I comunisti hanno sempre avuto chiara la distinzione tra l’azione sindacale e quella direttamente politica. Questa distinzione è, per noi, ancora vigente non per convinzione ma per verifica continua nella realtà di classe e sociale nel nostro paese; in Italia c’è chi ha teorizzato il superamento tra il politico ed il sindacale ma nei fatti non esiste allo stato nessuna verifica concreta di una tale posizione, anzi chi si è avventurato su questa strada ha avuto l’opportunità di fare esperienze, a nostro modesto avviso, fortemente negative.
Una serie di eventi e condizioni, come abbiamo detto, storiche ci costringe a trattare in modo diverso anche la riorganizzazione dei comunisti e quella che abbiamo definito in questi anni la rappresentanza politica del blocco sociale antagonista.
La sconfitta registrata alla conclusione del secolo passato, la mutazione dei partiti comunisti occidentali, il conseguente disorientamento politico e sociale hanno scisso un binomio, quello tra comunisti e rappresentanza politica, che nel secondo dopoguerra ha rappresentato un momento di forza per il movimento dei lavoratori e per le classi subalterne tanto da portare ad una sostanziale modifica delle loro condizioni sociali.
Questa è una presa d’atto che non vuole entrare nel merito delle possibili critiche alle politiche seguite dal PCI o dalla sinistra extraparlamentare negli anni ’70, ma comunque era ed è chiaro a tutti che, nonostante i limiti e le contraddizioni, i rapporti di forza tra le classi in quella fase storica erano ben diversi.
Oggi è invece evidente la divaricazione tra la necessità dei comunisti di ridefinire una loro funzione generale legata al superamento della società capitalistica e la necessità dei settori di classe, ma anche della società più in generale, di trovare validi strumenti di difesa delle proprie condizioni e di affermare politiche radicali sul piano della giustizia sociale, necessità queste che non portano oggi direttamente alla presa di coscienza della necessità della rottura e del superamento del capitalismo da parte di ampi strati della società.
Questa è una condizione storica nuova nel nostro paese, prodotta anche dal carattere imperialista dell’Italia e della Unione Europea, che va trattata con attenzione per non farla divenire una contraddizione tra la prospettiva del cambiamento sociale generale e la condizione materiale che vive la classe attuale, classe mutata dai processi di riorganizzazione produttiva e sociale.
Dunque i punti del conflitto tra le classi, quello strategico per il cambiamento, quello politico e quello economico e sociale, vivono dinamiche separate che vanno riportate a sintesi per ridare una funzione ai comunisti.
Va però anche detto che questa nostra analisi si basa non su un assioma teorico ma sulla presa d’atto che le forze comuniste in Italia hanno preso altre strade da quella della affermazione di una prospettiva indipendente del conflitto di classe e dunque hanno smobilitato quelle forze e quegli strumenti che pure in questa difficile fase storica avrebbero potuto favorire un processo di ricomposizione più avanzato.
In questo quadro si riconferma la funzione avanzata del conflitto di classe in quanto rimane a tutt’oggi il settore dove l’indipendenza si esprime anche tramite processi organizzativi e non solo sul piano delle enunciazioni politiche.
Quella delle mere enunciazioni è invece la caratteristica del piano politico-istituzionale che invece tende ad attestarsi su livelli sempre più arretrati come dimostra, tra gli innumerevoli esempi possibili, la deludente vicenda degli 8 senatori sull’Afghanistan durante il voto del Luglio 2006.
Tale arretratezza svela chiaramente il ruolo dei vari mediatori “professionisti” tra la dimensione politico-istituzionale e quella sociale e di movimento che assumono sempre più la funzione di paraurti del centrosinistra.
Sembra, perciò, che ci sia un dato nuovo da prendere in considerazione che è il prodotto delle valutazioni fatte precedentemente.
Sul piano sindacale e sociale esiste potenzialmente una fase di crescita che le politiche dei confederali ed affini non sono capaci di mettere strategicamente in difficoltà, dunque c’è un terreno, il più importante sul piano concreto, sul quale è possibile tenere il punto e rafforzare le spinte alla indipendenza.
La stessa cosa non pare possa dirsi sul piano della politica dove chi ha sempre avuto l’egemonia è costretto a ritirarsi attestandosi su una strenua difesa del governo Prodi, come ha più volte dichiarato lo stesso Bertinotti.
Anche in caso di governo di unità nazionale le cose non dovrebbero cambiare di molto in quanto le contraddizioni investirebbero il PRC e le altre forze di sinistra e la situazione di disorientamento e crisi rischierebbe di amplificarsi ulteriormente.
In questo caso, infatti, sarebbe molto problematico spiegare la scelta dello schieramento nell’Unione in funzione antiberlusconiana, fino ad accettare la presidenza della Camera, a discapito di una prospettiva indipendente se in cambio si otterrà l’esclusione dal governo o la completa subordinazione alle forze centriste.
Se cosi è ci sono le condizioni potenziali, teoriche, per poter avanzare anche su quel terreno politico dove esistono ancora grandi difficoltà.
In questo caso il punto è capire come “addentrarci” sapendo che qui si pone il problema centrale della soggettività ovvero quel problema che riguarda sia i comunisti che la questione della rappresentanza politica.
Un altro elemento va considerato nel riprogettare il nostro intervento ed è quello del peso specifico che ha assunto la Rete dei Comunisti in questi anni.
Nell’assemblea del 2002, fatta nel giorno in cui Cofferati portava un milione di persone a Roma, sembrava che la nostra posizione fosse completamente isolata ed “annegata” nella massa mobilitata dall’attuale sindaco di Bologna.
Oggi, a quattro anni di distanza e dopo tante verifiche della realtà, la situazione per noi è sostanzialmente mutata; infatti il lavoro complessivo fatto, da quello teorico a quello legato al conflitto di classe, dalle battaglie politiche alla presenza nel movimento, ha portato ad avere una crescita politica e di credibilità della Rete che ha determinato alcuni risultati organizzativi ma ci ha soprattutto consentito di divenire un soggetto che si presenta, al di là del merito delle questioni, con una proposta organica e con una capacità tattica di rapportarsi ai processi reali in atto.
Ciò va detto non tanto per confortarci nelle scelte fatte in passato, cosa del tutto inutile, ma per capire che questa nostra modifica di condizione ci pone problemi politici nuovi e più gravosi cui dobbiamo saper far fronte.
Una evidenza politica maggiore spinge inevitabilmente verso un passaggio qualitativo nella elaborazione e nella gestione al quale non possiamo sottrarci.
La Rete dei Comunisti
La scelta fatta in questi anni rispetto all’attività della RdC è stata quella di concentrarci sugli elementi di qualità analitica e teorica e di lavorare sulla sua strutturazione nazionale con i nuclei dei compagni che si andavano formando.
Tale scelta ha permesso in questi anni di accumulare ed affinare una capacità di lettura strategica della realtà che abbiamo sistematicamente riversato nell’azione politica e sociale che direttamente o indirettamente la RdC promuoveva o alla quale partecipava.
Un primo passaggio nella attività della RdC è stato individuato circa 2/3 anni fa quando il processo di politicizzazione delle contraddizioni, inteso come reazione alla mancata risoluzione delle contraddizioni stesse, spingeva in avanti la necessità di rappresentare in termini complessivi una prospettiva. Fase questa che si è manifestata dopo gli eventi internazionali del 2001.
Comunque la scelta di collocare la RdC non in primo piano nell’intervento politico ci ha permesso di costruire un impianto complessivo che è stato decisivo per far crescere la credibilità che dicevamo.
L’analisi sulla formazione dei blocchi imperialisti, sulle tendenze alla guerra, sul ruolo dello Stato nei paesi imperialisti e della periferia, sulla composizione di classe internazionale, sulla aristocrazia salariata ed in ultimo l’avvio del lavoro sul movimento comunista del ‘900, inteso come avvio di una elaborazione critica sulla soggettività dei comunisti, sono stati momenti importanti di elaborazione e di teoria intesa come guida dell’azione pratica.
L’elaborazione teorica che affronta la questione della soggettività, la costruzione di relazioni e strutture della RdC, la definizione e l’organizzazione dell’intervento nei movimenti politici e sociali rimangono la base fondamentale della iniziativa della RdC.
Oggi, però, ci troviamo di fronte ad un passaggio politico che ci riguarda direttamente e rispetto al quale si impone un ruolo più avanzato che nel passato.
Il passaggio politico è quello relativo al tentativo di chiusura in Italia della storia e dell’organizzazione dei comunisti che viene fatto dal partito nato dallo scioglimento del PCI e di una parte del movimento degli anni ’70; la trasformazione del PRC in Sinistra Europea ha effetti politici devastanti per quei settori politici e sociali che in vario modo fanno riferimento al movimento comunista.
Naturalmente questi settori non hanno la dimensione quantitativa che avevano negli anni passati e sono stati oggetto di una campagna culturale sistematica mirante a smontare, anche dall’interno della sinistra, ogni riferimento culturale, politico e teorico del movimento comunista che ha generato una confusione tanto enorme quanto dannosa.
Non di meno questo passaggio rappresenta un problema politico oggettivo con il quale siamo chiamati a fare i conti ed a misurarci in positivo individuando delle strade che riaprano, in termini inevitabilmente diversi e tenendo conto che viviamo in un paese imperialista, gli spazi di una nuova prospettiva politica e determinino le condizioni di una battaglia culturale per chi si pone nella prospettiva del superamento del capitalismo.
Si apre un periodo di dibattito e di verifica nella realtà su come far fare dei passi in avanti sul piano direttamente politico sapendo che a sinistra e tra i comunisti c’è molta terra bruciata da sconfitte ed arretramenti continui fino all’ultima giravolta del PRC; si tratta ora di individuare i punti politici centrali e le proposte operative che ci consentano di fare questa verifica.
L’identità comunista
Parlare di identità significa affrontare un tema tanto cruciale quanto difficile per i comunisti dopo la sconfitta del ‘900.
Le identità comuniste oggi sono innumerevoli anche nel solo nostro paese e tentare di trovare dei punti in comune che rafforzino questo elemento, centrale per una soggettività politica, significa fare un lavoro complesso ma che non può prescindere dall’individuare dei riferimenti solidi nella realtà internazionale e nazionale.
L’identità del movimento comunista faceva riferimento ed era costituita innanzitutto da una dimensione internazionale ben definita, anche nelle dinamiche contraddittorie che si erano sviluppate già dagli anni ’50, che era il prodotto di una teoria organica che aveva riscontrato nella realtà la possibilità di “modificare lo stato presente delle cose”.
Oggi possiamo dire di non avere più una teoria, non nel senso di una analisi del capitalismo e della realtà mondiale ma intesa come guida ad un processo di trasformazione effettivo.
Definire una identità comunista nelle nuove condizioni significa vivere dentro un processo di ricostruzione non breve che deve muoversi dal più alto livello di analisi per individuare il “filone” e le tendenze materiali che portano alla trasformazione sociale.
Identità non significa solo avere dei riferimenti storici e teorici saldi ma capire la relazione con la realtà, avere la capacità di leggere ed intervenire nei processi concreti che qui ed ora abbiamo di fronte tenendo ben presenti le condizioni soggettive in cui versa il movimento comunista.
Si tratta in sostanza di superare nella pratica la scissione tra il generale ed il particolare, tra la prospettiva e la contingenza politica ovvero quel limite strutturale del pensiero politico della sinistra di oggi.
Questa necessità ripropostasi “ex novo” nell’attuale passaggio di secolo cambia completamente i parametri di analisi e di azione dei comunisti sia in termini generali che specifici; una concezione “aggiornata” della rivoluzione possibile dopo il ’900, il nuovo livello di sviluppo delle forze produttive, la composizione di classe internazionale che nasce dalla nuova dimensione produttiva, l’arretramento soggettivo dei comunisti ed altre questioni ancora, modificano i riferimenti materiali e l’azione politica concreta.
Questa modifica è ancora più significativa per chi agisce in un paese imperialista dove le contraddizioni di classe sono mistificate dalle politiche economiche e dalla preminenza ideologica della borghesia; se analizziamo gli effetti di questa condizione emerge con ancora più evidenza la divaricazione crescente che c’è tra un modo di fare politica a sinistra e tra i comunisti e la realtà di classe che si impone.
Va rilanciata una battaglia anche culturale dove far emergere quanto il tatticismo, la sovrastrutturalità, il muoversi solo negli ambiti dati della politica formale siano elementi inservibili non per la sinistra moderata ma proprio per quella che si definisce di classe, antagonista, etc. in quanto al centro dell’azione va messa prioritariamente la questione dell’accumulo delle forze complessivamente intese.
Questo cambiamento di parametri ha un effetto radicale nei comportamenti politici che riguardano il metodo dell’analisi, la concezione della funzione dell’organizzazione politica e di massa, le caratteristiche dell’iniziativa e del processo di ricomposizione che si manifesta sempre più come necessità ineludibile; insomma bisogna rafforzare una dialettica a sinistra, fortemente motivata, che dimostri l’impotenza di un modo di fare politica anche della sinistra comunista e antagonista.
La presa di coscienza di un tale passaggio è cruciale per le prospettive ed è possibile solo se si riesce nella concretezza della realtà politica e sociale del nostro paese ad incidere fattivamente ed a costruire organizzazione a tutti i livelli.
L’identità non può essere solo “metodologica”, come abbiamo fin qui scritto, ma deve avere dei contenuti che siano adeguati alla realtà nazionale ed internazionale di oggi. Sicuramente dirsi comunisti significa concepire una azione e delle relazioni di dimensione europea.
Il PRC con la fondazione della Sinistra Europea coglie questo dato strategico e lo piega ad una prospettiva riformista.
Per quanto difficile possa apparire, la dimensione “minima” su cui devono ragionare, elaborare e, nei limiti del possibile, agire i comunisti è questa dimensione continentale.
La Rete dei Comunisti dal 2001, con convegni, relazioni politiche e culturali, strumenti di informazione, cerca di praticare questo livello, registrando difficoltà, ma praticandolo con determinazione sapendo che la sola dimensione nazionale è inadeguata.
In questi decenni sono emerse nuove grandi contraddizioni prodotte dalla ripresa dello sviluppo capitalistico, la questione della fame nel mondo, la regressione democratica, le tendenze alla guerra e, soprattutto, la questione ambientale che si presenta come una “strettoia” difficilmente evitabile per questo modo di produzione.
Ma a differenza di non molto tempo fa si sta riaffermando nei fatti, se non addirittura nelle cronache quotidiane, la centralità della contraddizione capitale lavoro.
La nascita di enormi masse di lavoratori impiegati nelle fabbriche in Cina, India, Indonesia, America centrale e meridionale sono la prova provata che la retorica sulla scomparsa della classe operaia era appunto solo una retorica.
Questo è ancora più vero se vediamo che nei paesi imperialisti “centrali” la questione del lavoro si ripropone tramite la questione del precariato che sta divenendo una problema di civiltà per quei paesi che si definiscono più avanzati.
Le altre enormi contraddizioni che abbiamo citato stanno prendendo corpo, si collocano a fianco e sono il prodotto diretto ed indiretto della contraddizione capitale lavoro, così come abbiamo cercato di analizzare in questi anni, che rimane un riferimento centrale anche nel nuovo secolo che si vorrebbe del tutto estraneo agli eventi del ‘900.
Una questione fondante da ribadire è quella della organizzazione e cioè del partito.
Se è vero che siamo in una fase di molteplicità delle identità comuniste è anche vero che la realtà e l’azione politica possono operare per il superamento di questa condizione di diaspora.
Dunque la questione del partito rimane un obiettivo della nostra azione sapendo che questo non nasce per decreto ma grazie ad un lavoro teorico e pratico in grado di modificare le condizioni politiche soggettive che vivono i comunisti. È proprio in questo senso che abbiamo cominciato il lavoro sul ‘900 che ha come obiettivo principale quello di capire come si possa ragionare sui limiti della soggettività in quella fase storica per riorganizzarsi oggi in modo adeguato alle nuove condizioni.
Anche in questo senso va interpretata l’Assemblea Nazionale, in quella sede si deve porre il problema della ricomposizione dei comunisti.
Un’altro punto fa parte della nostra identità ed è la questione dell’internazionalismo che, però, vive anch’esso dentro una modifica strutturale.
La solidarietà internazionale ai popoli in lotta contro l’imperialismo è parte integrante della nostra storia ed azione, ma dobbiamo essere coscienti che stiamo vivendo in un periodo di profonda trasformazione che produce un processo di proletarizzazione internazionale molto forte, come più volte abbiamo analizzato.
Dunque la solidarietà internazionalista riguarda non solo i popoli colonizzati ed oppressi ma anche la nuova dimensione internazionale della classe. Come la produzione è organicamente dislocata su un piano internazionale lo è anche la contraddizione capitale lavoro, anche se soggettivamente questo processo unitario non è oggi percepito.
La solidarietà dei comunisti deve avere perciò anche una funzione di “ponte” tra i settori della classe lavoratrice collocati nei diversi paesi contrastando le spinte verso la competizione interna messe in moto sul piano culturale e politico dalle borghesie tramite la guerra di civiltà, il razzismo, la comunicazione manipolata etc.
In questo senso va anche la battaglia culturale che dobbiamo fare contro l’Eurocentrismo delle sinistre e di alcune forze comuniste dei paesi imperialisti che, sotto una rappresentazione solidaristica verso i poveri, nasconde la convinzione della superiorità del sistema occidentale.
L’internazionalismo è ancora un elemento forte della identità a condizione che venga collocato dentro le nuove condizioni materiali.
La Rete come organizzazione di militanti
Nella modifica della situazione naturalmente ci dobbiamo chiedere anche se il carattere militante della RdC vada cambiato.
Su questo piano non c’è solo il dato contingente da tenere in conto ma anche una riflessione teorica più approfondita sul partito che di fatto per noi è cominciata con il convegno sul ‘900 e che dovremo portare avanti nei prossimi mesi in modo più approfondito e specifico.
Più concretamente nella condizione attuale riteniamo che non sia possibile modificare l’impostazione di militanza della RdC perché, nella crisi di orientamento che si vive più complessivamente, la necessità di fare verifiche di lavoro sul progetto non può che essere affidato ad una struttura militante che abbia chiara non certo la verità, non pretendiamo tanto, ma un metodo di lavoro politico e di costruzione organizzata che è il vero riferimento della nostra azione nell’ambito della sinistra e dei comunisti in Italia.
La gestione dell’intervento sul piano politico, sindacale, sociale, richiede, proprio in una condizione di debolezza, una discussione continua, una capacità di azione ed una attenzione e cura organizzativa e delle relazioni che sappiamo bene essere fondamentale per modificare la realtà ma anche molto difficile da praticare anche per i settori di compagni più attivi.
D’altra parte la debolezza politica non è un dato solo soggettivo o addirittura individuale ma è il frutto di una già citata condizione sociale generale che “nasconde” alle coscienze, grazie al disorientamento, le possibilità di fuoriuscita dalla attuale arretratezza, possibilità che invece esistono.
Una modifica della nostra relazione militante rischierebbe di bloccare quella capacità di riflessione e di azione che in qualche modo la RdC ha dimostrato di avere, soprattutto in questi ultimi anni, e che ha portato ad avere alcuni risultati positivi.
Se questa valutazione sulla necessità della militanza è vera è anche vero che siamo dentro una fase di passaggio e che questa nostra impostazione dell’organizzazione rischia di essere non compresa e valutata insufficiente e troppo chiusa se non tiene conto degli spazi potenziali che si stanno aprendo e di una possibilità di ampliare le relazioni.
Questo significa lavorare già dai prossimi mesi per dare più dinamicità alla RdC ed alle sue iniziative dotandoci di strumenti adeguati.
Vanno anche individuati altri livelli di relazioni organizzate sui quali intervenire con proposte che non sono rivolte al solo nostro ambito politico organizzato ma che tengono conto degli sviluppi e delle opportunità analizzati dentro questo documento.
I due piani possibili delle proposte sono quello diretto verso altre strutture comuniste, nazionali e locali, organizzate e quello verso l’area più ampia, diffusa e disorganizzata di compagni che vivono con difficoltà e frustrazione l’odierna condizione di impotenza politica.
Una ipotesi associativa per i comunisti
Siamo partiti in questa nostra ipotesi di riorganizzazione dalla esigenza per i comunisti di ricostruire una identità nella condizione attuale perché questa è il cemento, il punto di partenza per un processo di riaggregazione che sappia riconnettere una capacità di analisi e di teoria ad una conseguente capacità di incidere socialmente e politicamente sui processi in atto nel nostro paese in modo stabile.
Questa necessità si trova di fronte una situazione di sbandamento e di disgregazione dei settori comunisti che vivono il paradosso tra la necessità e la possibilità evidente di dover e poter intervenire nelle molteplici contraddizioni che si esprimono a livello complessivo e l’assenza di una soggettività organizzata che sappia dare una pur minima indicazione politica e di organizzazione.
Il problema che si pone a forze organizzate come la RdC è sapere dare una risposta che non sia solo di carattere teorico ma, pur sapendo che la possibilità di una sintesi generale è il prodotto di un processo più o meno lungo, anche di carattere organizzativo che avvii processi di ricomposizione e di ricostruzione.
In questo senso va trovata una risposta che potrebbe essere la costituzione di strutture associative che non richiedono certo un impegno militante ma che si pongono il problema di dare vita ad aree organizzative di confronto e di dibattito e, se possibile, di iniziativa unitaria tra i comunisti.
Per noi questo sarebbe un passaggio politico importante perché riteniamo possa coinvolgere compagni anche legati a diverse esperienze che vivono con difficoltà la loro condizione di marginalità, per chi sta in un partito, o di impotenza per chi non si riconosce e non agisce dentro una qualsiasi area organizzata.
I motivi che ci portano ad avanzare una tale ipotesi sono legati a più cause, una prima determinata innanzitutto dal fatto che nessuna azione politica per i comunisti è possibile se non si trova una chiave di lettura comune dei processi in atto ed una possibilità di confronto reale e non formale come quello vissuto nei partiti.
Un altro motivo risiede nella “diffidenza” dei compagni rimasti quanto meno scottati da altre esperienze politiche, il che determina una difficoltà diffusa ad identificarsi immediatamente dentro una proposta in qualche modo già strutturata.
Infine, ci sono i motivi che abbiamo esplicitato sul carattere militante della RdC che è una condizione essenziale per mantenere una capacità di incidere in modo organico e non solo come rappresentazione politica ma che non è forse idonea a raccogliere tutte le aspettative che si stanno manifestando.
Si tratta di favorire, insomma,la costruzione di ambiti di massa dei rapporti politici che è diverso dall’ambito di massa in cui noi siamo abituati ad operare e cioè quello specifico dei movimenti.
In questo senso ci sentiamo interessati e impegnati a far crescere queste esperienze perché riteniamo possano essere molto utili per dare vita a strutture formalizzate dove possa svilupparsi una reale dialettica politica che non necessariamente debba essere quella interna alle organizzazioni esistenti.
Infatti la capacità di avviare processi organizzativi più avanzati ed ampi viene fornita dalle condizioni oggettive che sempre più spingono verso una critica radicale all’attuale sistema politico ed ad una affermazione di indipendenza che riguarda soprattutto chi si definisce comunista.
Per un coordinamento delle forze comuniste in italia
Sappiamo che questo è un terreno difficile e complesso in quanto in questi anni si sono imposti più gli elementi di divisione che quelli dell’unità infatti l’arretramento e la divisione sono state caratteristiche internazionali del movimento comunista che ancora oggi sono presenti.
In Italia abbiamo avuto la specificità, l’anomalia, di avere un partito Comunista che ha mantenuto un seguito di massa e che oggi, assieme al PDCI, rappresentano ancora una parte consistente dell’elettorato. Questo elemento che poteva sembrare positivo, soprattutto negli anni ‘90 a confronto con altre situazioni, in verità aveva dei “veleni” nascosti che poco dopo la nascita di Rifondazione hanno cominciato a manifestarsi.
La pratica prevalentemente istituzionale, l’incapacità o la non volontà di contrastare i sindacati concertativi ed infine la gestione Bertinottiana hanno portato alla luce la natura di questo partito non senza bruciare prima decine di migliaia di compagni e militanti che spesso hanno “gettato la spugna” rispetto ad ogni impegno militante.
Questo lungo processo di mutazione ma anche di “presidio” di uno spazio politico effettivo ha impedito che si potessero esprimere altre esperienze organizzate funzionando da elemento disgregante sul piano politico ma anche sul piano sindacale.
Dunque una proposta di apertura del confronto deve fare i conti con i risultati della disgregazione e capire quale può essere un livello reale di ricomposizione che non può partire da ipotesi organizzative immediate. D’altra parte la svolta del PRC ed il ruolo governativo del PDCI pongono obiettivamente la necessità di trovare una risposta a questa esigenza.
Per la RdC è dunque un passaggio obbligato, al di là dei possibili risultati, avanzare una proposta di relazione più stabile possibile tra le diverse espressioni e strutture comuniste trovando le modalità di relazione positivamente praticabili.
Va individuata, inoltre, anche la base politica che allo stato attuale non può essere generale ma deve seguire un percorso di ricostruzione che per noi può essere basato su tre elementi: un confronto ed una elaborazione teorica comune indispensabile ad una visione unitaria da costruire, l’iniziativa di solidarietà internazionale e contro gli imperialismi ed infine la strutturazione del conflitto di classe indipendente nel nostro paese in tutte le sue espressioni concrete.
I comunisti ed il conflitto di classe
In questi anni abbiamo lavorato all’organizzazione delle lotte sindacali ma anche di quelle sociali, perciò il riferimento che va assunto è quello del conflitto sociale inteso in termini più estesi e con le forme proprie di un paese imperialista.
In questo ambito va riconfermata la centralità del conflitto economico e sociale inteso come terreno più avanzato in quanto permette lo svilupparsi di organizzazione indipendente in termini concreti e non solo sul piano della volontà politica soggettiva.
Questo dato empirico, cioè concretamente verificato nella nostra azione, ha al fondo la riconferma della centralità del conflitto capitale/lavoro che rimane per noi il punto di riferimento principale e che ha trovato nei punti più sviluppati dei paesi capitalisti nuove forme di espressione.
Siamo, infatti, in una fase di socializzazione dei processi produttivi, come abbiamo più volte analizzato, e questo ha prodotto profonde mutazioni, che comunque non hanno cambiato la natura del conflitto di classe.
Il conflitto di classe penetra, tramite le modifiche produttive, nella società e produce possibilità di organizzazione che si allargano oltre la dimensione più strettamente e tradizionalmente sindacale e arrivano a coinvolgere quello che abbiamo definito il potenziale Blocco Sociale Antagonista.
Tutto ciò è per noi una possibilità di sviluppo avendo coscienza, però, che i processi di organizzazione diretta hanno bisogno non solo della modifica delle condizioni generali ma anche del precipitare dei dati materiali che riguardano il reddito, i servizi sociali, il territorio etc.
La lotta contro il precariato e per il diritto al reddito, l’organizzazione degli immigrati, la lotta contro il carovita che si confronta innanzitutto con il sistema della distribuzione gestito dalle multinazionali, la qualità ed i costi dei servizi sociali, le politiche sulla casa subordinate alla speculazione nei centri urbani sono tutti terreni dove l’organizzazione può svilupparsi e mantenere quel carattere di indipendenza che deriva dalla pressione economica e sociale che l’attuale sviluppo produce sulle classi subalterne, parti delle quali non hanno altra scelta che darsi degli strumenti di difesa sul terreno più tradizionale ovvero quello economico.
Questo carattere organizzato è importante in quanto può essere anche una precondizione di un possibile protagonismo politico dei settori sociali coinvolti.
L’insieme di queste contraddizioni, incluse quelle più dirette legate alla produzione, trovano la loro concentrazione nelle Aree Metropolitane che diventano di fatto il nuovo “ambiente” del conflitto dopo la trasmigrazione della grande fabbrica e sono il punto principale di intervento e di potenziale sviluppo organizzato.
Sulle Aree Metropolitane oggi si tratta di sviluppare l’analisi, che abbiamo cercato di fare negli anni passati anche se va approfondita e rappresentata per dare forza politica ad una prospettiva, ma soprattutto di dare vita ad esperienze concrete di organizzazione che riescano a tenere insieme l’ambito della produzione diretta e della produzione socializzata dentro un processo, forse parziale ma concreto, di ricomposizione.
Per far crescere la lotta e l’organizzazione nel nostro paese non bastano una analisi fatta in modo corretto né è sufficiente aspettare la manifestazione spontanea delle contraddizioni sociali le quali di per se non possono esprimere, soprattutto nei paesi sviluppati, automaticamente prospettive antagoniste ed organizzate; diventa centrale, dentro quella dinamica, la soggettività e dunque la capacità di intervento e di strutturazione reale.
Questa è una delle scommesse che devono fare i comunisti nel nostro paese in quanto costruire una solida base sociale è la premessa e la condizione per avere una prospettiva politica organizzata capace di incidere sulla realtà.
Il nodo “gordiano” della rappresentanza politica
Nella parte sulla “articolazione del conflitto di classe” abbiamo rapidamente riassunto il perché, a nostro avviso, esiste una separazione anche organizzativa dei vari fronti del conflitto di classe, e di questi indubbiamente quello più complesso, difficile e problematico è quello che abbiamo definito in questi anni come Rappresentanza Politica del blocco sociale.
Le motivazioni di questa difficoltà sono di vario tipo, riguardano innanzitutto il carattere imperialista del nostro paese e la conseguente modifica materiale ed ideologica dei settori di classe che si possono spingere su posizioni radicali ma sarebbe illusorio pensare che possano arrivare a concepire una rottura di prospettive con l’attuale sistema sociale.
Nella nostra elaborazione teorica abbiamo cercato di spiegare questa situazione con il recupero di una categoria leninista in disuso ma che ci sembra invece che si adatti bene all’attuale fase storica. L’aristocrazia operaia trasformata dalla modifica produttiva in aristocrazia salariata può servire ad individuare la collocazione della classe lavoratrice dei paesi sviluppati dentro un quadro prodotto dalla crescita delle filiere produttive, della composizione di classe internazionale e dei livelli di reddito.
Un altro elemento che incide in questo senso è quello delle riforme istituzionali ed elettorali; senza entrare nel merito delle tecniche della democrazia negata, perché è di questo che stiamo parlando, è evidente a tutti la estrema sofisticazione dei vari sistemi elettorali, maggioritari ed anche apparentemente proporzionali, che di fatto impediscono a chi è fuori dagli schieramenti predeterminati (li abbiamo definiti le due fazioni del partito unico) di riuscire a sedimentare forze sul piano istituzionale fuori dai parametri del mercato e del bipolarismo.
È evidente che questi due elementi sono collegati e si determinano a vicenda in quanto la mancanza di conflittualità generale permette al meccanismo istituzionale di funzionare a pieno regime rispetto alla esclusione, e questo, a sua volta, rende difficilissimi i processi di riaggregazione e di organizzazione antagonista legata al conflitto sociale.
C’è però un terzo elemento decisivo che va valutato appieno, ovvero quello del peso della soggettività. Nel nostro paese la storia del movimento comunista e del movimento dei lavoratori ha inciso profondamente nella società e nella cultura tanto che nel momento in cui è stata decretata la fine del PCI la nascita del PRC ha aggregato una massa consistente di voti, arrivata fino a quasi il 10%, e che di fatto andava oltre se si consideravano altri settori di elettori che pur non riconoscendosi nei partiti comunisti votavano comunque in modo alternativo. In parte i voti per i Verdi e delle varie liste “democratiche” negli anni passati hanno avuto questo significato.
Nonostante i dati negativi sopra riportati è evidente che c’erano, e ci sarebbero ancora, le condizioni per rompere la gabbia istituzionale che è stata costruita attorno ai settori sociali penalizzati dallo sviluppo attuale.
Questo non è avvenuto, e non è avvenuto perché i gruppi dirigenti dei partiti eredi del PCI e del movimento degli anni ’70 non hanno saputo e, ancor più, non hanno voluto ricostruire una prospettiva indipendente, prospettiva che certamente doveva tenere conto dei profondi mutamenti avvenuti e di una tattica conseguente ma che doveva avere come riferimento principale la tenuta economica, sociale e politica del mondo del lavoro e di tutti i settori sociali emersi nella trasformazione.
D’altra parte in Italia essere comunisti ha sempre avuto questo significato profondo e non è stato possibile da noi scindere l’identità politica da un solido rapporto con i lavoratori e la società.
Questo patrimonio è quello che ci hanno fatto perdere i gruppi dirigenti della sinistra ed anche i suoi intellettuali più prestigiosi.
Questa è perciò la sfida che oggi abbiamo di fronte e che è possibile accettare solo partendo dalla coscienza dei limiti politici ma anche materiali di forze disponibili e che esistono.
La domanda da porci è se, dunque, questa sfida è per noi accettabile e realistica, se ci sono i termini generali per ragionare su questa prospettiva, se invece bisogna tenersi fuori da questa dimensione politica.
La risposta non è facile ma grandi sono le contraddizioni che emergono su questo piano.
Se facciamo riferimento alle elezioni politiche dell’Aprile scorso è emerso che in quella occasione è andata a votare circa l’85% dell’elettorato per sostenere i due schieramenti.
Sono bastati pochi mesi durante i quali sono emerse importanti contraddizioni, le vicende del Libano e dell’Aghanistan, quelle della finanziaria e del precariato, per rimettere in discussione quella apparente ritrovata capacità di rappresentanza delle forze di sinistra e di centrosinistra rispetto ai settori sociali e politico-culturali che sono il nostro riferimento.
La capacità di manipolazione della rappresentazione politica tramite la comunicazione “deviata”, l’assenza di una qualsiasi partito che a sinistra sia effettivamente indipendente e la incapacità della sinistra antagonista di far divenire, nel tempo e nella società e non nelle sole occasioni elettorali, i conflitti sociali riferimento politico, hanno prodotto una grande partecipazione elettorale che però è già stata rimessa in discussione dalle scelte di Prodi che, come abbiamo prima detto, non segnano una discontinuità strutturale con le politiche del governo precedente.
Da tempo stiamo cercando di affrontare questo nodo non solo sul piano della analisi ma tentando di portare avanti alcune esperienze concrete in quanto è questo l’unico terreno su cui fare la verifica. Di crisi di rappresentanza oggi ne parlano tutti, e questo ci conforta perché noi ne stiamo discutendo da quasi un decennio, ma il punto è come avventurarci su questo terreno concretamente.
Un primo tentativo lo abbiamo fatto alla fine degli anni ’90 con la costituzione di strutture politiche che avevano un carattere popolare; questo è stato fatto sostanzialmente a Roma ed in Emilia dove ci siamo misurati anche con il terreno elettorale nelle regionali del 2000. Le difficoltà di quel primo esperimento furono legate alla incapacità/impossibilità di trasportare realtà sociali anche significative su un piano direttamente politico, e non solo in termini meramente elettorali. La battaglia sul reddito sociale risale a quegli anni e si aggiunse ad una presenza territoriale diffusa nella città di Roma; stessa cosa in Emilia Romagna dove si era costruito negli anni precedenti un intervento regionale.
Senza riproporre oggi la discussione fatta all’epoca, i dati centrali con i quali bisognava fare i conti che emergevano dalle esperienze fatte erano da una parte la mancanza di politicizzazione spontanea del conflitto e dall’altra la inadeguatezza concreta ed organizzativa, piuttosto che politica, della nostra soggettività e credibilità che non ci metteva in condizione di rappresentare una prospettiva generale rispetto a quelle parti sociali che più vivevano le contraddizioni.
Un passaggio successivo è stato fatto dopo la nascita del movimento di Genova in quanto valutammo che questo fosse certo il risultato dei comportamenti del governo Berlusconi ma anche il prodotto di un processo di politicizzazione “globale” delle contraddizioni che aveva fatto la sua prima apparizione con i fatti delle torri gemelle di New York.
La scelta fu allora di affrontare questa questione della rappresentanza senza formalismi ma partendo da alcune grandi contraddizioni e dentro un processo di movimento e di organizzazione per creare quelle condizioni minime che potessero far emergere quel nodo politico nella concretezza del conflitto.
Questa nuova fase di lavoro sulla rappresentanza politica fu impostata più chiaramente nel convegno sul conflitto capitale-lavoro del Settembre 2005 in questo modo:
“Il conflitto diretto tra capitale e lavoro ha bisogno, dal punto di vista delle forze di classe, di esprimersi anche su un livello politico e di alleanze sociali e politiche più vaste. Questa è stata la storia del movimento operaio che, quando è riuscito a creare queste condizioni, ha saputo affermarsi e superare molte barriere.
È possibile oggi riaprire direttamente questo discorso e prospettiva di lavoro? In termini diretti la risposta ci sembra essere negativa, ma le condizioni affinché questa prospettiva si riapra ci sembra che si stiano creando. Il punto di partenza di questa riflessione non può che essere costituito dalla latente crisi di egemonia del capitale che abbiamo cercato di descrivere all’inizio di questo documento; gli elementi che ne scaturiscono sono legati alle grandi questioni del mondo moderno, alle contraddizioni ed alle forze distruttive che l’ “apprendista stregone” capitalista suscita ma non riesce a dominare.
La guerra permanente, la questione ambientale e la regressione democratica, tanto nei paesi dominanti che in quelli dominati, sono le emergenze più evidenti, anche se esistono altri nodi altrettanto strategici, che escono dalla “teoria” di ristrette élite e gruppi ed entrano nella vita quotidiana dei popoli e delle nazioni assieme alle questioni del lavoro, del salario, delle tutele sociali, cioè alle questioni materiali in generale legate alle condizioni di vita. Attorno a queste necessità fondamentali dell’umanità che si riverberano nella vita politica del nostro paese è possibile definire una alleanza politica ed una proposta che sia allo stesso tempo democratica ed anticapitalistica di fatto, in quanto queste contraddizioni negano la possibilità stessa di uno sviluppo basato sulla valorizzazione del capitale.
È possibile dedurre da questa analisi delle ipotesi e delle proposte politiche praticabili in Italia? Di nuovo la risposta non può oggi che essere negativa, e per motivi abbastanza evidenti. Il sistema elettorale ed istituzionale attuale blocca infatti ogni possibilità di espressione alternativa al sistema del bipolarismo, e questo continuerà ad essere vero almeno fino a quando non emergeranno contraddizioni dirompenti; inoltre sono presenti a sinistra forze e soggettività politiche a sinistra che, nonostante le dichiarazioni di antagonismo e di sostegno dei movimenti, di fatto si adeguano al sistema vigente.
Per uscire dalla morsa tra le manifestazioni sempre più evidenti delle contraddizioni “globali” ed il blocco politico imposto dal sistema bipolare, va quindi valutata la possibilità di dare vita ad una pratica politica e di mobilitazione a carattere intermedio. Detto in altri termini: di fronte alle questioni poste, se non è possibile ancora costruire una rappresentanza politica democratica, di massa ed unitaria, riteniamo però che sia possibile individuare livelli di mobilitazione e di rapporti organizzati in modo stabile che consolidino nel tempo punti di vista ed identità diverse da quelle istituzionali, ormai ampiamente screditate.
È dentro questo spazio, praticabile già da ora, che è possibile ritrovare un ruolo ai comunisti, anche se diversamente collocati, e soprattutto lavorare in modo unitario assieme ad un ampio arco di forze diverse, democratiche, pacifiste, ambientaliste, etc. per dare gambe solide ai movimenti politici che già si esprimono nel nostro paese e per far avanzare il processo di accumulo delle forze, innescando un circolo virtuoso tra politica, cultura e teoria.”
In questo senso negli ultimi anni abbiamo contribuito a costruire movimenti nazionali per il reddito e contro il precariato, contro la guerra, il carovita ed altri ancora, sull’ambiente ad esempio, se ne avessimo avuto le possibilità organizzative pratiche; movimenti che sono effettivamente cresciuti e sono diventati un elemento costante dello scenario politico del nostro paese, adottando anche una necessaria tattica rispetto al quadro politico-istituzionale, fino a condizionare la campagna elettorale dell’Unione che si è molto basata, a parole, sulla questione del precariato.
Questa impostazione puntava non a costruire la rappresentanza politica con una sinistra più o meno di movimento ma a creare una base materiale unitaria e più avanzata delle sole nostre forze necessaria per fare dei passi in avanti sul piano dell’accumulo delle forze sociali e politiche, come premessa di tenuta su un settore strategico del nostro progetto.
Rispetto a questa ultima fase va detto che se sul piano dell’organizzazione dei livelli che abbiamo definito “intermedi” alcuni risultati di crescita e stabilizzazione ci sono stati si sono invece riconfermate tutte le difficoltà di trasportare il dato sociale sul piano politico sia in termini di organizzazione direttamente politica e tanto più sul piano meramente istituzionale.
Questa difficile condizione politica è accentuata dalla capacità di “ governance” del centrosinistra che tende a gestire i movimenti potenziali e non solo quelli reali, con la formula della cooptazione/repressione già citata.
Questo dato non è riuscito ad emergere in modo netto nella fase Berlusconiana quando bene o male eravamo tutti nella stessa condizione e dunque portati a difendere certo le proprie posizioni ed a conquistare spazi ma disponibili comunque ad una opposizione al governo di Berlusconi.
Con il governo Prodi e la riconversione del PRC la situazione si è ribaltata, ovvero siamo in una fase dove prevale la separazione, perché non deve esistere una sinistra fuori dall’Unione e dal PRC, e dunque emergono nitidamente le debolezze di una sinistra di movimento, comunista, etc. che non ha nessuna effettiva autonomia e non è saldamente radicata nei settori di classe reali di questo paese.
Il risultato possibile di questa situazione, se non c’è una reazione adeguata, è quello della scomparsa di ogni soggettività che sia poco più che virtuale o esistente sostanzialmente solo sulle pagine del Manifesto o di Liberazione.
Sulla vicenda della rappresentanza politica ci sono ancora due questioni da mettere in evidenza in funzione della assemblea nazionale e del lavoro da progettare.
La prima è quella legata ai cosiddetti settori intermedi che, nonostante tutto, tengono ancora sul piano politico e della iniziativa.
In questi anni i piani di intervento direttamente gestiti assieme ad altre forze sono stati molti ma ci sembra che oggi ne vadano salvaguardati soprattutto alcuni.
La lotta contro la guerra con il Comitato per il Ritiro delle Truppe e con il Forum Palestina rimane uno dei punti focali da mantenere e rilanciare; assieme a questo ha eguale importanza la lotta contro il precariato e per il Reddito Sociale che tramite la Rete per il Reddito è l’altro punto dove continuare una battaglia generale che rafforza le basi di una ripresa del lavoro politico.
Naturalmente è possibile mantenere in piedi anche altri settori di interveto, carovita, repressione, ambiente od altro nella misura in cui si riesce a sviluppare le relazioni e la nostra diretta capacità organizzata di intervento.
L’altro punto da discutere e chiarire bene per non ingenerare confusioni nella discussione è quello di definire con chiarezza la concezione della Rappresentanza politica intesa come processo politico ed organizzativo interno ai settori di classe; percorso che, pur tra le molteplici difficoltà e limiti, può proseguire individuando le strade che si possono aprire nella nuova condizione politica che non è in discontinuità strutturale con gli anni del berlusconismo.
Identità possibile dei settori sociali potenzialmente antagonisti, ipotesi organizzative legate alle nuove condizioni produttive e sociali, programma e rappresentazione sono gli elementi che stiamo capendo e costruendo rispetto all’obiettivo della rappresentanza.
Questa è cosa diversa dalla rappresentanza istituzionale che non è la stessa e non è sovrapponibile a quella della rappresentanza politica, come abbiamo più volte chiarito. Infatti quest’ultima può solo segnare un passaggio ulteriore di rafforzamento e di credibilità della nostra ipotesi in campo. Non è un caso che la questione elettorale è quella dove più si concentra l’attenzione del sistema politico nel restringere gli spazi di democrazia teoricamente praticabili.
Dobbiamo perciò affrontare questa condizione impegnandoci a definire e gestire bene le questioni sopra poste avviando un periodo di riflessione approfondita per uscire da una situazione di stallo nella quale dovremo tenere anche conto della possibile modifica del quadro istituzionale che è chiamato ad effettuare passaggi delicati e decisivi quali quello della Finanziaria e della tenuta degli equilibri interni alla maggioranza.
In conclusione dobbiamo crearci le condizioni pratiche e darci i tempi necessari nei prossimi mesi per andare a fondo nella discussione sulla rappresentanza e per capire le possibilità, i limiti ed anche i possibili vicoli ciechi.
Il dibattito da fare è richiesto dalla situazione e non è solo un problema nostro, riguarda infatti tutto l’ambito della sinistra e dei comunisti. Questo confronto ha dunque piena legittimità nella preparazione e nello svolgimento della Assemblea Nazionale del 2007 che non potrà permettersi di essere un momento formale e di sola rappresentazione politica ma dovrà sviscerare tutte le questioni, anche le più difficili e complesse, che la situazione oggi pone senza alcun timore.
Novembre 2006