Tre approcci nella lettura della storia del movimento comunista
Domenico Losurdo (Contributo al I° Forum promosso dalla Rete dei Comunisti – Roma 13-14 Maggio 2006)
1. Movimento comunista, superamento delle tre grandi discriminazioni e conquista della democrazia e dello Stato sociale
In che modo possiamo sintetizzare il bilancio storico del movimento comunista nel Novecento? Su quale categoria dobbiamo in primo luogo far leva? Ai giorni nostri, il discorso sul “fallimento” del “socialismo reale” è così incontrastato da non suscitare obiezioni neppure a sinistra. L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia; divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: evidente e inglorioso è da considerare il fallimento del comunismo.
Senonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia contemporanea si fonda sul principio per cui titolare di diritti inalienabili è da considerare ogni individuo, indipendentemente dalla razza, dal censo e dal genere (o sesso) e dunque presuppone il superamento delle tre grandi discriminazioni (razziale, censitaria e sessuale) ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917. Soffermiamoci intanto sulla prima. Essa si presenta in duplice forma. Da un lato, a livello planetario, vediamo l’asservimento di centinaia di milioni di lavoratori dell’Asia, delle colonie in generale e dei piccoli paesi” ad opera di “poche nazioni elette”, le quali – prosegue Lenin – si attribuiscono “il privilegio esclusivo di formazione dello Stato”, negandolo ai barbari delle colonie o semicolonie [1]. Dall’altro, la discriminazione razziale si fa sentire anche all’interno degli Stati Uniti, negando ai neri i diritti politici e talvolta gli stessi diritti civili, e comunque sottoponendoli ad un regime di white supremacy.
Eloquenti sono le conclusioni cui giunge, nel 1944, un illustre sociologo svedese (Myrdal): “La segregazione sta divenendo ora così completa che un bianco del Sud non vede mai un negro se non come servo e in situazioni analoghe, formalizzate e standardizzate, proprie dei rapporti tra caste”. E tuttavia, negli anni successivi, la mobilitazione e l’agitazione dei neri cominciano a riscuotere qualche successo.
Il mutamento di clima può essere spiegato a partire da una lettera che, nel dicembre 1952, il ministro statunitense della giustizia invia alla Corte Suprema impegnata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche: “La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica”. Washington corre il pericolo – osserva lo storico americano che riporta queste dichiarazioni – di alienarsi le “razze di colore” non solo in Oriente e nei Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli USA: anche qui la propaganda comunista riscuote un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla “causa rivoluzionaria” facendo crollare in loro la “fede nelle istituzioni americane” [2].
È privo di senso voler mettere il comunismo sullo stesso piano del nazismo, cioè della forza che con più conseguenza e brutalità si è opposta al superamento della discriminazione razziale e quindi all’avvento della democrazia. Se da un lato il Terzo Reich si presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra totale, di realizzare un regime di while supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca e “ariana”, dall’altro lato il movimento comunista ha fornito un contributo decisivo al superamento della discriminazione razziale e del colonialismo, di cui il nazismo intende assumere e radicalizzare l’eredità. Voler liquidare l’epoca iniziata con la rivoluzione d’Ottobre come il periodo di crisi della democrazia significa tornare a considerare quantité negligeable i popoli coloniali (oltre alle altre vittime delle clausole d’esclusione della tradizione liberale), significa voler ricolonizzare la storia.
Ma ora volgiamo pure le spalle alle colonie e alla sorte delle “razze minorenni”, per concentrare lo sguardo sulla metropoli capitalistica, anzi esclusivamente sulla sua popolazione “civile”. Anche a questo livello – osserva Lenin – continuano ad essere operanti significative clausole di esclusione dalla cittadinanza e dalla democrazia. In Inghilterra il diritto elettorale “è ancora abbastanza limitato da escludere lo strato inferiore propriamente proletario” [3]; per di più, possiamo aggiungere, alcuni privilegiati continuano a godere del “voto plurale”, che verrà completamente soppresso solo nei 1948. Particolarmente tortuoso è stato nel paese classico della tradizione liberale il processo che ha condotto alla realizzazione del principio “una testa, un voto”, e tale processo non può essere pensato senza la sfida costituita dalla rivoluzione in Russia e dallo sviluppo del movimento comunista.
Anche là dove il suffragio maschile è divenuto universale o pressoché universale, esso viene neutralizzato dalla presenza di una Camera Alta che è appannaggio della nobiltà e delle classi privilegiate. Nel Senato italiano vi siedono, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri sono nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Considerazioni analoghe valgono per le altre Camere Alte europee che, ad eccezione di quella francese, non sono elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure ha alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso, agli inizi del Novecento, risulta da un’elezione indiretta ed è costituito in modo da garantire una marcata sovra-rappresentanza della campagna (e della conservazione politico-sociale) a danno di Parigi e delle maggiori città. Ancora una volta, di particolare interesse è la situazione della Gran Bretagna. Al di là della Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), l’aristocrazia terriera detiene il controllo degli affari pubblici: una situazione non molto diversa da quella che caratterizza Germania e Austria.
Persino negli Stati Uniti continuano a sussistere residui di discriminazione censitaria, la quale però si manifesta soprattutto, come abbiamo visto, sotto forma di discriminazione razziale che nei neri colpisce al tempo stesso gli strati più poveri della popolazione.
Se si prende l’Occidente nel suo complesso, la clausola d’esclusione più macroscopica è quella che colpisce le donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che dirigono il movimento delle suffragette, sono costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. Denunciata da Lenin (e dal partito bolscevico), l’“esclusione delle donne” dai diritti politici viene cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, salutata come “rivoluzione proletaria” (per il peso esercitato dai Consigli e dalle masse popolari) da Gramsci, il quale sottolinea calorosamente il fatto che essa “ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne”. Questa medesima strada viene poi imboccata dalla repubblica di Weimar (scaturita dalla rivoluzione scoppiata in Germania ad un anno di distanza dalla rivoluzione d’Ottobre) e solo in seguito dagli USA [4].
Il superamento delle tre grandi discriminazioni è stato reso possibile da un duplice movimento: alle numerose e grandi rivoluzioni dal basso, sviluppatesi sia nella metropoli capitalistica che nelle colonie e spesso ispirate dalla rivoluzione d’Ottobre e dal movimento comunista, si sono intrecciate rivoluzioni dall’alto, promosse al fine di impedire nuove rivoluzioni dal basso.
Della democrazia come oggi viene per lo più intesa fanno poi parte anche i diritti sociali ed economici. Ed è proprio il gran patriarca del neo-liberismo, Hayek, a denunciare il fatto che la loro teorizzazione e la loro presenza in Occidente rinviano all’influenza, da lui considerata funesta, della “rivoluzione marxista russa”. Naturalmente, le classi subalterne non hanno atteso il 1917 per rivendicare il riconoscimento di tali diritti. La loro conquista è scandita dalle stesse tappe attraverso cui passa il trionfo del suffragio universale. Robespierre, che denuncia nella discriminazione censitaria del suffragio un’eco della schiavitù antica, celebra altresì il “diritto alla vita” come il primo e il più imprescrittibile tra i diritti dell’uomo. La rivoluzione del ‘48, che sancisce il trionfo del suffragio universale (maschile), vede emergere anche la rivendicazione del diritto al lavoro: è l’inizio della seconda tappa che ha come protagonista il movimento socialista. In Germania, dove esso è particolarmente forte, Bismarck provvede a prevenire una rivoluzione dal basso mediante una rivoluzione dall’alto che introduce i primi vaghi elementi di sicurezza sociale. Infine la terza tappa che, prendendo le mosse dagli sconvolgimenti in Russia, si prolunga sin quasi ai giorni nostri. Nel corso del secondo conflitto mondiale, Franklin Delano Roosevelt dichiara che, per distruggere una volta per sempre “i germi dell’hitlerismo”, bisogna realizzare la “libertà dai bisogno”, incidendo quindi in profondità sui rapporti economico-sociali esistenti. Le parole d’ordine del presidente USA sembrano delineare un progetto di democrazia sociale che – osserva giustamente Kissinger – va “molto al di là” della precedente tradizione politica americana, anzi – incalza Hayek – finisce col rinviare alla famigerata rivoluzione bolscevica [5].
E, di nuovo, senza l’Ottobre e, più in generale, senza il ciclo rivoluzionario che dal giacobinismo conduce al comunismo, non è possibile comprendere gli sviluppi e, ancor prima, l’avvento dello Stato sociale in Occidente. Anche in questo caso assistiamo all’intreccio di rivoluzioni dal basso e dall’alto, di rivoluzioni attive e passive. Si potrebbe dire che questa è la regola nei processi di trasformazione storica: che senso ha allora parlare di “fallimento” per la vicenda iniziata con la rivoluzione d’Ottobre? Per rendersi conto del carattere inadeguato o decisamente fuorviante di questa categoria, si provi ad applicarla ai paesi e popoli ex-coloniali, che hanno conquistato l’indipendenza e la dignità sull’onda di una lotta ispirata ed alimentata dal movimento comunista. Com’è noto, al momento della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, Mao Tsetung proclamava che la nazione cinese si era sollevata in piedi e che nessuno poteva più calpestarla. Il suo pensiero forse correva agli anni in cui, all’ingresso di un parco della concessione francese a Shanghai, si poteva leggere un cartello: “Vietato l’ingresso ai cinesi e ai cani”. La nuova situazione venutasi a creare nel grande paese asiatico è il risultato di un “fallimento”? Considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito del Vietnam o di Cuba e di non pochi paesi del Terzo Mondo che, pur non richiamandosi al socialismo, hanno conquistato l’indipendenza e la dignità, a partire dalla sfida lanciata al sistema capitalistico mondiale dalla rivoluzione d’Ottobre, dal “socialismo reale” e dal movimento comunista. Il meno che si possa dire è che l’odierno discorso relativo al “fallimento” è grevemente eurocentrico. È vero, si tratta di una categoria assai diffusa: Hannah Arendt parla di “disastro” della rivoluzione francese. Epperò, il mondo contemporaneo e l’odierna democrazia non sono pensabili senza l’azione e l’efficacia dispiegate, in modo diretto o indiretto, prima dalla rivoluzione francese e poi dalla rivoluzione d’Ottobre: come abbiamo visto, il movimento comunista influenza lo stesso paese-guida dell’occidente.
2. Dal “fallimento” al “tradimento”
Tanto più singolare è il successo che la categoria di “fallimento” continua a riscuotere anche a sinistra. Proprio in questi ambienti, la storiella edificante raccontata dall’ideologia e dalla storiografia dominanti conosce talvolta una piccola variante. Se anche si faceva passare per il signor ComuniSmo, il bruto che per primo aggredisce la signorina Democrazia era in realtà il signor Stalinismo, un volgare impostore o, nella migliore delle ipotesi, un rozzo ignorante che nulla aveva compreso della teoria di Marx. Ecco allora che il discorso sul “fallimento” tende a cedere il posto al discorso sul “tradimento” (ovvero, nella migliore delle ipotesi, del fraintendimento).
Com’è noto, quello della “rivoluzione tradita” è un motivo particolarmente caro a Trotskij. Peraltro, gli autori che in un modo o nell’altro risentono della sua influenza hanno la tendenza ad utilizzare la categoria di “tradimento” per prendere di mira un po’ tutte le rivoluzioni. Anche nel corso della Rivoluzione francese assistiamo al triste spettacolo dei “funzionari politici”, dei burocrati, che soffocano la “democrazia diretta”. Siamo in presenza di un “meccanismo al termine del quale la democrazia diretta, l’autogestione del popolo, si trasforma, gradualmente, attraverso l’instaurazione della “dittatura” rivoluzionaria, nella ricostituzione di un apparato per l’oppressione del popolo”. Sia nel caso della rivoluzione francese che della rivoluzione russa – osserva uno storico assai erudito e ancor più fervido seguace di Trotskij – si tenta di giustificare la “concentrazione del potere”, lo sbocco autoritario o “totalitario” facendo riferimento alla “necessità”. In realtà si trascura il ruolo nefasto della “burocrazia” e della “sclerosi burocratica”. È essa in primo luogo la responsabile della degenerazione: “La democrazia dal basso provoca la nascita di una casta di parvenus, che sono inclini a differenziarsi dalla massa e aspirano a confiscare la rivoluzione popolare a loro profitto” [6].
Se dalla Francia del Settecento passiamo alla Spagna del Novecento, vediamo che la musica non cambia. Come spiegare la tragedia che negli anni ‘30 si conclude con la vittoria del fascismo? Per Chomsky non ci sono dubbi: come risposta all’insurrezione franchista si sviluppa “una rivoluzione sociale senza precedenti”, della quale sono protagoniste le masse; ma ecco che poi a dirigere la “controrivoluzione” interviene il partito comunista staliniano che espropria i “lavoratori” del loro potere di controllo per trasferirlo alla “burocrazia statale” [7].
E ora dall’Europa ci trasferiamo in Asia. Come spiegare la crisi della Rivoluzione culturale in Cina? In questo caso, l’intento antiburocratico è esplicito e dichiarato; disgraziatamente, le “squadre operaie di propaganda”, le organizzazioni chiamate a condurre la lotta, “finirono per trasformarsi anch’esse in un settore della burocrazia, ora in armonia ora in urto con gli altri burocrati” [8].
Nel suo ingenuo dogmatismo – i burocrati che soffocano lo slancio delle masse e tradiscono la rivoluzione sono sempre gli altri -, nella sua infinita monotonia e nella sua universale applicabilità ai fenomeni di crisi ovvero al processo di consolidamento e di “burocratizzazione” di qualsiasi rivoluzione, la categoria di “tradimento” rivela tutta la sua vuotaggine. In ogni caso essa non è più persuasiva della categoria di “fallimento”. Immutati rimangono i motivi di debolezza: si tratta pur sempre di spiegare come sia riuscito ad un “fallito” ovvero ad un “traditore” (o al protagonista di un colossale “fraintendimento”) di dare un poderoso contributo al processo di emancipazione dei popoli coloniali e, per quanto riguarda l’Occidente, all’abbattimento dell’Antico regime e all’edificazione dello Stato sociale. Nel 1923, allorché, gravemente ammalato, Lenin è costretto ad abbandonare la gestione del potere, lo Stato nato dalla rivoluzione d’Ottobre e uscito mutilato dalla pace di Brest-Litowsk conduce una vita stentata e precaria; nel 1953, al momento della morte di Stalin, l’Unione Sovietica e il “campo socialista” da essa guidato godono di un’estensione, di una forza e di un prestigio enormi. Ancora un paio di questi “tradimenti”, e a diventare precaria e insostenibile sarebbe stata la condizione del sistema imperialistico e capitalistico mondiale!
3. Il “tradimento” da Stalin a Krusciov
Negli anni che seguono immediatamente la disfatta del Terzo Reich così grande è il prestigio dell’URSS che esso si fa avvertire ben al di là del movimento comunista. Nel 1945, lungi dall’accostare il paese nato dalla rivoluzione d’Ottobre al Terzo Reich come farà negli anni successivi, Hannah Arendt attribuisce a merito del primo il “modo, completamente nuovo e riuscito, di affrontare e comporre i conflitti di nazionalità, di organizzare popolazioni differenti sulla base dell’uguaglianza nazionale”; è qualcosa “cui ogni movimento politico e nazionale dovrebbe prestare attenzione” [9]. Ho fatto ricorso al corsivo per evidenziare il rovesciamento di posizioni che si verificherà alcuni anni dopo, in seguito allo scoppio della guerra fredda, allorché la Arendt rimprovererà a Stalin la disarticolazione mirata delle organizzazioni già esistenti, in modo da produrre artificialmente quella massa amorfa che è il presupposto dell’avvento del totalitarismo.
Negli anni che seguono immediatamente la disfatta del Terzo Reich il prestigio di cui gode l’URSS è anche il prestigio di cui gode il suo gruppo dirigente. Nel luglio 1944, Alcide De Gasperi, leader della Democrazia cristiana e successivamente Presidente del Consiglio, celebra “il merito immenso, storico, secolare delle armate organizzate dal genio di Giuseppe Stalin”. I meriti di quest’ultimo vanno ben al di là dell’ambito militare:
“C’è qualcosa di immensamente simpatico, qualche cosa di immensamente suggestivo in questa tendenza universalistica del comunismo russo. Quando vedo che mentre Hitler e Mussolini perseguitavano degli uomini per la loro razza, e inventavano quella spaventosa legislazione antiebraica che conosciamo e vedo contemporaneamente i russi composti di 160 razze cercare la fusione di queste razze superando le diversità esistenti fra l’Asia e l’Europa, questo tentativo, questo sforzo verso l’unificazione del consorzio umano, lasciatemi dire: questo è cristiano, questo è eminentemente universalistico nel senso del cattolicesimo”.
De Gasperi, pur evidenziandone i costi umani, esprime un giudizio fondamentalmente positivo anche sulla “grande impresa economica” della collettivizzazione delle campagne e dell’industrializzazione, resa necessaria dalla “minaccia rivelata dal Mein Kampf’. Infine, a proposito dei processi di Mosca, il leader della Democrazia cristiana sottolinea l’attendibilità dell’accusa, facendo riferimento ad “oggettive informazioni americane” [10].
Ancora nel 1953, subito dopo la morte di Stalin, un suo nemico, e cioè un fervido seguace di Trotskij, traccia questo significativo bilancio storico:
“Nel giro di tre decenni, il volto dell’unione Sovietica si è completamente trasformato. Il nocciolo dell’azione storica dello stalinismo è questo: esso ha trovato la Russia che lavorava la terra con aratri di legno e la lascia padrona della pila atomica. Ha innalzato la Russia al grado di seconda potenza industriale del mondo e non si è trattato soltanto di una questione di puro e semplice progresso materiale e di organizzazione. Un risultato simile non si sarebbe potuto ottenere senza una vasta rivoluzione culturale nel corso della quale si è mandato a scuola un paese intero per impartirgli una istruzione estensiva”.
Pur condizionato e in parte sfigurato dall’eredità asiatica e dispotica della Russia zarista, nello stalinismo l’ideale socialista aveva una sua innata, compatta integrità” [11]. Tre anni dopo, sull’onda del XX Congresso del PCUS, il quadro cambia in modo radicale. Deutscher attribuisce a merito di Krusciov di aver finalmente denunciato “l’enorme, cupo, capriccioso, degenerato mostro umano, davanti al quale i comunisti si erano prostrati per oltre un quarto di secolo” [12]. Non c’è dubbio che a determinare l’odierna immagine di Stalin siano state due svolte: lo scoppio della guerra fredda nel 1947 e il XX Congresso del PCUS. Dopo il 1956 la campagna antistaliniana non solo riprende in blocco i motivi di fondo della campagna scatenata dall’occidente contro l’URSS nel suo complesso, ma talvolta si compiace di rincarare la dose: ad esempio, nel 1965, Deutscher non esita a criticare “l’ondata di filostalinismo nei paesi alleati, e soprattutto negli Stati Uniti dell’immediato dopoguerra” [13]!
Su questa base si sviluppa un processo a Stalin francamente grottesco. Richiamandosi al rapporto Krusciov, Deutscher dipinge Stalin come un traditore (dell’ideale socialista”) non solo ripugnante ma anche privo di qualsiasi reale capacità politica: dirige il paese in guerra “tracciando fronti e linee d’attacco su un mappamondo da tavolo” [14]! Guidata da un “generalissimo” così risibile, come avrà fatto l’Urss a sconfiggere la gigantesca macchina da guerra, che aveva liquidato in pochi giorni lo stato maggiore francese, uscito vittorioso dalla prima guerra mondiale? Assieme alla storia del comunismo nel suo complesso, il ritratto caricaturale di Stalin finisce con lo sfigurare e rendere incomprensibile una delle pagine più tragiche ma anche più belle della storia mondiale, quella indissolubilmente legata al nome di Stalingrado.
Si comprende allora che, nell’ambito dei circoli comunisti impegnati a reagire alla campagna anticomunista, emerga la tendenza a pensare o a sospirare: In principio era Krusciov! Questi finisce col configurarsi come il battistrada della campagna anti-comunista e tende pertanto ad essere individuato e bollato come il punto di partenza della parabola rovinosa sfociata nel crollo dell’unione Sovietica: in questa prospettiva, egli è colui che, pur formatosi nell’ambito del partito e della tradizione comunista, ne ha dissipato l’enorme patrimonio politico e ideale. In conclusione: il pubblico ministero nel processo per “tradimento del socialismo” intentato a Stalin è costretto ora lui stesso a sedere sul banco degli imputati!
4. Massima estensione e crisi incipiente del “campo socialista”
E, tuttavia, se la versione antistaliniana del discorso del “tradimento” non riesce a spiegare il gigantesco processo di emancipazione sviluppatosi a livello mondiale negli anni in cui il “traditore” esercita il potere, la versione anti-kruscioviana del discorso del “tradimento” non riesce a dar conto dei conflitti drammatici che si sviluppano ben prima del XX Congresso del PCUS. A un paio di mesi di distanza dalla morte di Stalin, Beria viene isolato e liquidato ad opera di una maggioranza che vede schierati accanto a Krusciov coloro che erano stati i più stretti collaboratori di Stalin. A chi dev’essere rivolta in questo caso l’accusa di tradimento? Danno comunque da pensare le modalità con cui viene liquidato Beria: è una sorta di regolamento dei conti in stile mafioso, è una violenza privata che non fa riferimento alcuno né all’ordinamento giuridico statale né allo statuto del partito.
E, ben prima del 1956 o del 1953, un altro gravissimo problema erode dall’interno l’intero “campo socialista”. È vero, esso ha conseguito un’estensione impressionante, ma sono già emerse crepe vistose, come dimostra in primo luogo la rottura dell’unione Sovietica con la Jugoslavia di Tito. E la prima, inaspettata, crisi nazionale del “campo socialista”. Ne seguiranno altre: l’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, gli scontri sull’Ussuri, la guerra tra Vietnam e Cambogia e tra Cina e Vietnam. Naturalmente, anche in questo caso è possibile scatenare la caccia al “traditore”. Ma, nel passaggio da una crisi all’altra, questa caccia diviene sempre più affannosa e confusa: chi è il “traditore” nel corso dello scontro tra Cambogia e Vietnam e tra Vietnam e Cina? E che senso ha voler trasformare la storia del “campo socialista” in una serie ininterrotta di “tradimenti”, di cui si rendono responsabili anche i protagonisti di grandi lotte di emancipazione? È una visione che finisce con l’infangare irrimediabilmente i decenni di storia che essa pure afferma di voler difendere.
È più produttivo un approccio diverso. Proprio la straordinaria estensione del “campo socialista” fa emergere un problema assolutamente inedito: in che modo devono configurarsi i rapporti tra i diversi paesi, piccoli e grandi, che fanno parte di tale campo? E come conciliare l’unità nella lotta contro l’imperialismo con la salvaguardia della sovranità statale dei singoli paesi? Il problema diviene ancora più acuto in seguito alla vittoria della rivoluzione in Cina e all’ingresso nel “campo socialista” di un paesecontinente, che già per le sue dimensioni, oltre che per la sua storia, si sente chiamato ad assumere un ruolo di primo piano sull’arena internazionale. I colloqui che poco dopo si svolgono a Mosca tra Stalin e Mao Tsetung sono tesi sino al punto da sfiorare la rottura. Tenendo lo sguardo rivolto al conflitto che poi avrebbe contrassegnato la guerra fredda, Stalin era riuscito ad estendere la presenza politica e militare dell’Unione Sovietica anche in Asia e nella stessa Cina: dai suoi interlocutori di Yalta aveva ottenuto il riconoscimento dell’indipendenza della Mongolia esterna, che la Russia prima zarista e poi dei generali bianchi aveva strappato alla Cina e che invece l’Unione Sovietica aveva riconosciuto, ancora nel 1924, come “parte integrante” della Cina stessa [15]. A Yalta, Stalin aveva inoltre ottenuto l”‘internazionalizzazione del porto commerciale di Dairen, con la salvaguardia degli interessi predominanti dell’Unione Sovietica in questo porto e il ripristino dell’affitto di Port Arthur, come base militare marittima dell’URSS”, nonché “lo sfruttamento comune della ferrovia cino-orientale e della ferrovia della Manciuria del Sud” [16]. Pressato da Stati Uniti e Gran Bretagna, anche Chiang Kai-shek finisce con l’acconsentire a queste sostanziose concessioni a Stalin, firmando con l’Unione Sovietica un trattato che non a torto è stato definito “l’ultimo “trattato disuguale” della Cina” [17]. Tocca poi a Mao Tsetung rimetterlo in discussione.
A Mosca, la delegazione cinese solleva solo con estrema cautela il problema della Mongolia esterna. Ma, se su questo punto fa subito marcia indietro, sul recupero il più rapido possibile delle ferrovie e dei porti cinesi Mao si rivela irremovibile. In tal caso è Stalin che è costretto a cedere, ma egli cede solo quando riceve la notizia delle trattative in corso per lo scambio di ambasciatori tra Pechino e Londra: prendeva corpo così il pericolo di un titoismo cinese [18].
Il rapporto tra i due grandi paesi socialisti si rivela difficile sin dagli inizi. Entrambi fanno appello alla lotta contro l’imperialismo. Senonché, essa per l’Unione Sovietica significa in primo luogo fronteggiare la politica del Roll back adottata da Washington e quindi consolidare i risultati della Conferenza di Yalta (da Stalin esplicitamente difesa nel corso dei suoi colloqui con Mao). Per la Repubblica Popolare Cinese, invece, contrastare l’imperialismo significa recuperare l’integrità territoriale e riaffermare la piena sovranità anche sulla Manciuria orientale, cancellando le concessioni e i privilegi strappati da Stalin prima ai suoi interlocutori di Yalta e poi a Chiang Kaisheck. Uscita dalla guerra prostrata (a causa anche dell’esasperante lentezza con cui Stati Uniti e Gran Bretagna avevano proceduto all’apertura del secondo fronte in Europa) ed esposta alla minaccia di una nuova aggressione, l’URSS ha assoluto bisogno per un verso di respirare, per un altro verso di riunire attorno a sé il fronte più ampio e più compatto possibile. Diversa è la situazione della Repubblica Popolare Cinese: la conquista del potere da parte dei comunisti non ha segnato il completamento del processo di ricostituzione dell’unità nazionale. S’impone il recupero di Taiwan, a cominciare dalie due isolette di Quemoy e Matsu. Queste ultime – sottolinea Churchill, cercando invano di rendere più flessibile l’amministrazione americana – sono “al largo della costa”, “sono giuridicamente parte della Cina”, la quale persegue “un ovvio obiettivo nazionale e militare, e cioè sbarazzarsi di una testa di ponte che si presta meravigliosamente per un’invasione della Cina continentale” [19]. Si comprende allora la determinazione con cui Mao Tsetung persegue questo obiettivo, senza lasciarsi troppo intimidire dalle minacce nucleari ripetutamente profferite dagli Stati Uniti. È un atteggiamento indice di limitatezza nazionalistica e provincialistica agli occhi dei dirigenti sovietici, i quali vengono a loro volta sospettati di esser sordi, per calcolo egoistico o opportunistico, alle esigenze di emancipazione e di riscatto dei popoli coloniali o ex-coloniali. Se già dalle ripetute minacce nucleari statunitensi la Cina è spinta a raddoppiare gli sforzi per entrare a far parte del ristretto club delle potenze atomiche, l’Unione Sovietica teme che una tale politica incoraggi il riarmo nucleare di paesi come la Germania e metta in crisi la “coesistenza pacifica” di cui ha bisogno per poter respirare.
Le divergenze, che pure rinviano in primo luogo alla situazione oggettiva, diventano l’occasione di uno scontro ideologico (e diplomatico) sempre più aspro. La critica di miopia provincialistica e di avventurismo rivolta ai dirigenti cinesi conosce una rapida scalata: all’apice della polemica essi vengono accusati di stimolare la catastrofe nucleare sovietico-americana, al fine di poter dominare il mondo grazie al loro superiore potenziale demografico [20]. Sul versante opposto si assiste ad una scalata analoga: ben lungi dall’essere dei semplici “opportunisti” nella lotta contro l’imperialismo, i dirigenti sovietici si trasformano essi stessi in imperialisti e persino negli imperialisti più perfidi e più pericolosi, quelli che hanno assunto l’eredità dell’insaziabile espansionismo zarista e che ora, in qualità di nuovi zar, minacciano direttamente la Repubblica Popolare Cinese, il cuore stesso del movimento di lotta dei popoli coloniali o ex-coloniali. La denuncia del “tradimento” e la conseguente scomunica rimbalzano da Mosca a Pechino. Senonché, ben lungi dall’essere l’uno o l’altro traditore, entrambi i partiti comunisti si rivelano semmai troppo “ortodossi” nel loro marxismo: fanno discendere meccanicamente dal socialismo il dileguare dei conflitti nazionali; e poiché questi, nonostante tutto, continuano a sussistere, ecco che vengono messi sul conto della degenerazione e del tradimento imputati all’uno o all’altro.
In conclusione, se per un verso può vantare la sua massima estensione, per un altro verso, al momento della morte di Stalin, il “campo socialista” rivela già due crepe assai preoccupanti: sono due problemi irrisolti, quello della successione ordinata da un gruppo dirigente ad un altro e quello dei rapporti tra i diversi paesi socialisti. Se la mancata soluzione del primo ha spianato la strada persino alle forme più brutali e più primitive di violenza all’interno stesso dei partiti comunisti, la mancata soluzione del secondo problema ha significato la dissoluzione del campo socialista attraverso una serie di prove di forza, invasioni e occupazioni militari, nonché vere e proprie guerre.
5. Tra utopia e stato d’eccezione
Un quadro tutt’altro che esaltante. Si comprende allora che, anche a sinistra, non manchino coloro che vorrebbero liquidare la vicenda storica iniziata con l’Ottobre, sia pure contrapponendo ad essa non già il capitalismo e il liberalismo occidentali bensì l’utopia. Epperò, un tal modo di procedere rischia di raccomandare come rimedio quello che spesso ha contribuito ad aggravare il male. Vediamo la dialettica che si è sviluppata a partire dalla rivoluzione bolscevica. Infuria ancora il primo conflitto mondiale: la carneficina in atto e la cancellazione delle libertà più elementari, in nome dello stato d’eccezione, ad opera anche degli Stati di più consolidata tradizione liberale, tutto ciò fa apparire del tutto insoddisfacente ogni programma politico che si fermi al di qua della rivendicazione di un ordinamento sociale privo di apparato statale e militare, anzi liberato da ogni forma di costrizione. Il marxismo finisce così con l’appiattirsi sull’anarchismo e anzi col configurarsi come una sorta di religione. Il giovane Bloch si attende dai Soviet la “trasformazione del potere in amore” [21]. In modo non dissimile argomentano nella Russia sovietica esponenti del partito socialista rivoluzionario. Proclamano che “il diritto è oppio per il popolo” [22] e che “l’idea di Costituzione è un’idea borghese’’ [23]. Su tale base non solo è agevole giustificare qualsiasi misura terroristica per fronteggiare l’emergenza, ma, soprattutto, risulta assai problematico o impossibile il passaggio ad una normalità costituzionale, già in anticipo bollata come “borghese” E così, lo stato d’eccezione radicalizza l’utopia sino a renderla astratta e questa utopia astratta irrigidisce ulteriormente e rende insormontabile lo stato d’eccezione.
La retorica patriottarda e gli odi nazionali, in parte “spontanei” in parte sapientemente attizzati, erano sfociati nel macello della guerra imperialista. Imperiosa si presenta l’esigenza di iniziare un capitolo di storia del tutto nuovo. Ecco allora emergere in certi settori del movimento comunista un internazionalismo irrealistico, che tende a liquidare come semplice pregiudizio le diverse identità nazionali. È un “universalismo” che non sa rispettare le peculiarità, le differenze: esso non può che aggravare i conflitti e la questione nazionale, prima all’interno dell’URSS e poi nei rapporti tra i diversi Stati socialisti. E di nuovo vediamo agire l’infausta spirale stato d’eccezione-utopia astratta-stato d’eccezione ulteriormente acutizzato.
La percezione del peso che gli interessi capitalistici avevano avuto nello scatenamento della carneficina rende odioso agli occhi degli spiriti più sensibili non solo il capitalismo ma persino il denaro in quanto tale. Il giovane Bloch chiama i Soviet a metter fine non solo a “ogni economia privata” ma anche a ogni “economia del denaro” e, con essa, alla “morale mercantile che consacra tutto quello che di più malvagio vi è nell’uomo” [24]. Per quel che riguarda in particolare la Russia, la catastrofe verificatasi in seguito al primo conflitto mondiale e alla successiva guerra civile comporta il tracollo anche dell’economia monetaria, la quale finisce con l’essere sostituita in certe zone dallo scambio in natura. Questa situazione d’emergenza viene invece letta come “comunismo”, sia pure “di guerra”; come avanzata verso il comunismo viene persino gabellata un drastico provvedimento d’emergenza quale la requisizione coatta da parte del potere sovietico delle eccedenze alimentari accumulate dai contadini. In tutti e tre i casi qui esaminati, l’utopia enfatica e divenuta astratta (l’attesa messianica del dileguare dello Stato, delle identità nazionali e della moneta) finisce col trasfigurare come anticipazione del futuro post-capitalistico fenomeni (assenza di un preciso quadro costituzionale, oppressione nazionale, insufficiente sviluppo del mercato nazionale) che sono invece espressione della persistenza dell’antico regime.
6. Rivoluzione e processo di apprendimento
E, tuttavia, l’emergere di un’utopia enfatica e astratta non è il prodotto della fantasia di singoli autori e singole personalità, bensì il risultato di un oggettivo processo storico. Ci può essere qui d’aiuto un’indicazione di Engels, il quale, nel fare il bilancio della rivoluzione inglese e francese, osserva: “Affinché potessero venire assicurate almeno quelle conquiste della borghesia che erano mature e pronte ad essere mietute, era necessario che la rivoluzione oltrepassasse il suo scopo (…] Sembra che questa sia una delle leggi dell’evoluzione della società borghese [25]. Non c’è motivo per sottrarre alla metodologia materialistica elaborata da Marx e Engels la rivoluzione che a loro si è ispirata. In fondo, ogni rivoluzione tende a presentarsi come l’ultima, anzi come la soluzione di ogni contraddizione e quindi come la fine della storia. Se da un lato stimola l’entusiasmo di massa necessario per travolgere l’accanita resistenza dell’Antico regime, dall’altro l’utopia enfatica e astratta finisce col rendere più difficile il processo di costruzione della nuova società.
Solo attraverso un faticoso e spesso contraddittorio processo di apprendimento una grande rivoluzione riesce a definire con precisione i suoi obiettivi e le forme politiche chiamate a realizzarli. Come ha chiarito Gramsci, perché una rivoluzione possa considerarsi realmente compiuta, non basta la conquista del potere; è necessaria altresì la scoperta ovvero la costruzione dei meccanismi istituzionali e giuridici di esercizio regolare e ordinato del potere. Per questo la rivoluzione borghese abbraccia in Francia un periodo che va dal 1789 al 1871. Nel corso di questi decenni, la nuova classe dominante, attraverso tentativi ed errori, contraddizioni e lotte, sperimenta i più diversi regimi politici: la monarchia costituzionale e la repubblica, la dittatura giacobina e la dittatura militare, l’impero e il regime bonapartista, il sistema rappresentativo monocamerale e quello bicamerale, forme più o meno ampie di restrizione censitaria (con la tentazione talvolta di far ricorso ad un congegno elettorale a più gradi ovvero al voto plurale a favore dei più “intelligenti” o dei più abbienti) e il suffragio diretto universale (maschile). Per quanto riguarda più propriamente i rapporti sociali, alla fase iniziale di divieto delle “coalizioni” operaie succede una fase più matura in cui i sindacati ottengono riconoscimento legale. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per quanto riguarda l’organizzazione dell’esercito, degli apparati ideologici e degli altri settori della vita politica e sociale. Nel complesso, solo con la liquidazione della Comune di Parigi e l’avvento della Terza Repubblica, con la costruzione di un regime rappresentativo fondato sulla competizione di più partiti ma, al tempo stesso, sul saldo controllo esercitato da una sola classe, la borghesia francese trova le forme politiche e sociali per l’esercizio del potere in condizioni di normalità, con la forza militare che fa un passo indietro per essere pronta ad intervenire in modo diretto solo nelle situazioni di crisi acuta. E queste forme politiche e sociali vengono inventate e costruite non già mediante asettici esperimenti in laboratorio ma nel corso di aspre lotte sia con l’Antico regime sia con le masse popolari e persino di conflitti internazionali.
La classe o il blocco sociale che si propone di sostituire la borghesia ha dinanzi a sé un compito ancora più difficile. Deve “inventare” non solo un nuovo regime politico, ma anche nuovi rapporti sociali, che non pre-esistono, come avviene per i rapporti sociali borghesi, già all’interno della vecchia società, ma possono essere costruiti solo a partire dalla conquista del potere. È la fondamentale differenza tra “rivoluzione socialista” e “rivoluzione borghese”, messa in luce da Lenin [26]. Tanto più complesso è il processo di apprendimento che si impone ad un movimento che vuole superare il capitalismo. Ed è sul terreno della mancata soluzione di questo compito, reso ancora più difficile dalla politica di contenimento, accerchiamento e aggressione dell’imperialismo, che si è verificata la sconfitta del socialismo.
7. Processo di apprendimento e de-messianizzazione del progetto comunista
Il movimento socialista e comunista è ben lungi dall’aver condotto a termine questo processo. Dobbiamo pensare il futuro post-capitalistico come il totale dileguare non solo degli antagonismi di classe,ma anche dello Stato e del potere politico e della norma giuridica in quanto tali, nonché delle religioni, delle nazioni, della divisione del lavoro, del mercato, di ogni possibile fonte di conflitto? Dobbiamo continuare a ritenere con Bebel che, assieme al capitalismo, sono destinati a dileguare non solo lo Stato ma anche i “parlamenti”, le dogane, il fisco, i “tribunali”,”gli avvocati e i pubblici ministeri”, le “prigioni”, la stessa norma giuridica, i delitti e persino i sentimenti di “odio” e di “vendetta”, sicché “decine di migliaia di leggi, decreti e ordinanze vanno al macero” [27]? Dobbiamo ritenere con Trotskij, che nel comunismo, assieme allo Stato è destinato a dileguare anche il “denaro” e ogni forma di mercato [28]? Anzi, a giudicare da certe dichiarazioni di Trotskij, trasformazioni miracolose avvengono già nell’ambito del socialismo: “La vera famiglia socialista, liberata dalla società dai pesanti e umilianti fardelli quotidiani, non avrà bisogno di nessuna regolamentazione e la sola idea di leggi sul divorzio e sull’aborto non le parrà migliore nel ricordo delle case di tolleranza o dei sacrifici umani” [29].
Abbiamo già visto gli effetti rovinosi della dialettica stato d’eccezione-utopia astratta- irrigidimento ulteriore dello stato d’eccezione. Conviene invece tener presente la lezione di Gramsci, che forse più di tutti si impegnato nello sforzo di de-messianizzazione del progetto comunista. Mettendo in discussione il mito dell’estinzione dello Stato e del suo riassorbimento nella società civile, egli ha fatto notare che la stessa società civile è una forma di Stato; ha inoltre sottolineato che l’internazionalismo non ha nu la a che fare col misconoscimento delle peculiarità e identità nazionali, le quali continueranno a sussistere ben oltre il crollo del capitalismo; quanto poi al mercato, Gramsci ritiene che converrebbe parla re di “mercato determinato” piuttosto che di mercato in astratto.
Ma, al di là della lezione di questo o quel grande autore, si tratta soprattutto di analizzare il processo di apprendimento del movimento comunista in quanto tale. Mentre infuria la prima guerra mondiale, Lenin ribadisce e radicalizza la tesi dell’estinzione dello Stato; ma negli ultimi anni della sua vita, egli chiama a costruire un apparato statale “veramente nuovo” e che “meriti veramente il nome di socialista, di sovietico”, impegnandosi anche ad imparare dai “migliori modelli dell’Europa occidentale” [30]. Negli anni di Krusciov, un giurista ha il coraggio di reinterpretare la tesi dell’estinzione dello Stato, distinguendo tra “funzione di oppressione”, destinata a ridursi e a dileguare, e funzioni “economiche e culturali”, che conoscono invece uno sviluppo. A criticare questa reinterpretazione è Bloch. Anche lui si è lasciato alle spalle l’attesa messianica della trasformazione del “potere” in “amore”. Sì, continua ad agitare la tesi dell’estinzione dello Stato, che però egli ora rilegge come un “ideale-limite” ovvero un “concetto-limite” [31], dunque come un ideale che orienta l’azione senza mai realizzarsi in una realtà compiuta.
Non meno faticoso si rivela il processo di apprendimento in altri campi. Subito dopo la rivoluzione d’Ottobre, Rosa Luxemburg invita il nuovo regime a “soffocare sul nascere con pugno di ferro ogni tendenza separatistica” proveniente da “popoli senza storia”, “cadaveri imputriditi che emergono dai loro sepolcri secolari” [32]. La lotta tra capitalismo e socialismo e l’avvento del nuovo regime sociale rendono più che mai obsolete, fuorvianti e intollerabili le rivendicazioni e contraddizioni nazionali. Assieme alle identità nazionali e statali, l’avanzata della rivoluzione sembra dover relegare nel museo delle anticaglie anche i tradizionali problemi dei rapporti tra gli Stati. Nell’assumere la carica di commissario del popolo per gli Affari Esteri, Trotskij dichiara: “Emanerò qualche proclama rivoluzionario ai popoli del mondo, poi chiuderò bottega” [33]. Pur generalmente lontano da questi toni enfatici, nel concludere il congresso di fondazione dell’Internazionale, in un momento in cui il capitalismo sembra sul punto di essere travolto. Lenin non esita a dichiarare: “La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della repubblica sovietica internazionale”. Circa dieci anni dopo, Stalin è invece costretto ad osservare: “la stabilità delle nazioni è grande in misura colossale”. D’altro canto – farà notare più tardi lo stesso Stalin – la lingua, elemento essenziale dell’identità nazionale, non è una semplice sovrastruttura, come dimostra il suo tenace permanere attraverso il passaggio da un regime sociale ad un altro: il socialismo non è il dileguare delle diverse lingue e delle diverse identità nazionali. Epperò, dopo aver così lungamente e aspramente condannato la teoria o la tentazione trotskista dell’esportazione della rivoluzione, sul finire della seconda guerra mondiale, Stalin sembra in qualche modo farla propria. Così si esprime nel corso di una conversazione con Gilas: “Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente” [34]. La questione nazionale qui rimossa si farà sentire con forza pochi anni dopo: è proprio in Europa orientale che inizia la crisi che poi conduce alla dissoluzione del “campo socialista”.
Diamo ora uno sguardo alle contraddizioni che si manifestano in relazione alla costruzione del nuovo ordinamento sociale chiamato a sostituire il capitalismo. Abbiamo visto il giovane Bloch aspirare alla liquidazione dell’“economia del denaro” in quanto tale. Non è solo l’atteggiamento di un filosofo imbevuto dello “spirito dell’utopia”. Negli anni ‘40 un bolscevico descrive in modo efficace il clima spirituale degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d’Ottobre: “Noi giovani comunisti eravamo tutti cresciuti nella convinzione che il denaro fosse stato tolto di mezzo una volta per tutte […] Se ricompariva il denaro, non sarebbero ricomparsi anche i ricchi? Non ci trovavamo su una china scivolosa che ci riportava al capitalismo?” [35].
Ma facciamo pure astrazione da queste attese più o meno messianiche. Una volta giunti al potere i comunisti si trovano ad affrontare scelte difficili e, talvolta, drammatiche: devono in primo luogo preoccuparsi di allargare o consolidare la loro base sociale di consenso o devono dare immediato inizio al loro programma di collettivizzazione integrale dei mezzi di produzione? Quest’ultima è la tesi di Rosa Luxemburg, che critica duramente i bolscevichi per la loro riforma agraria “piccolo-borghese” e la concessione della terra ai contadini [36]. La Russia è uscita stremata dalla guerra: l’obiettivo principale del potere sovietico risiede nella distribuzione più o meno egualitaria delle scarse risorse disponibili oppure nello sforzo per accrescerle? Nel caso che il compito principale venga individuato nello sviluppo delle forze produttive, ecco che un nuovo dilemma s’impone: bisogna far leva sugli incentivi materiali o sulla coscienza rivoluzionaria e sulla dedizione alla causa del socialismo da parte dell’“uomo nuovo”? Per lunghi anni Mao Tsetung ha nutrito l’illusione di poter rapidamente colmare il distacco rispetto ai paesi capitalistici più avanzati facendo appello all’entusiasmo rivoluzionario di massa; senonché, la mediocrità dei risultati conseguiti e la contemporanea stabilizzazione del capitalismo hanno spinto i comunisti cinesi ad imboccare, e con una radicalità tutta nuova, il percorso precedentemente bollato in quanto “revisionista”. E così che ha visto la luce l’“economia socialista di mercato”.
Ancora una volta il processo di apprendimento si rivela complesso e faticoso, e non solo per coloro che sono chiamati a svolgere funzioni di governo. Nel salutare la rivoluzione d’Ottobre, Gramsci sottolinea che essa inizialmente produrrà solo “il collettivismo della miseria, della sofferenza”. In questo momento, il compito principale del potere sovietico sembra risiedere, ai suoi occhi, nella distribuzione egualitaria delle risorse disponibili. Più tardi, nel difendere la NEP, il dirigente comunista italiano osserva che, solo a partire da una visione semplicistica e superficiale del processo di costruzione di una società post-capitalistica, ci si può scandalizzare per lo spettacolo del “nepman impellicciato”, che gode di un tenore di vita decisamente superiore rispetto agli operai, che pure costituiscono la classe politicamente dominante. Ora, contrariamente al passato, il compito principale del nuovo potere sovietico sembra essere individuato nello sviluppo delle forze produttive [37].
8. De-demonizzazione di Stalin (e di Krusciov) e de-canonizzazione di Marx, Engels e dei “classici”
La storia del socialismo è anche la storia di questi dilemmi, di questi dibattiti e di queste lotte. E tali lotte hanno segnato profondamente non solo la storia dei singoli partiti comunisti (al governo o all’opposizione che fossero) e del movimento comunista internazionale nel suo complesso, nonché l’evoluzione dei grandi intellettuali di orientamento comunista. La consueta liquidazione della storia reale del socialismo in nome dell’utopia ovvero del pensiero “autentico” di Marx ed Engels implica anche la celebrazione dei grandi intellettuali ovvero dei politici rimasti estranei o ai margini del potere in contrapposizione a coloro che hanno realmente assunto responsabilità di governo. Ma questo quadro in bianco e nero non è in alcun modo persuasivo, e per una serie di ragioni: a) istituisce un confronto tra grandezze eterogenee, e cioè tra intenzioni da un lato e azioni reali dall’altro (è l’atteggiamento che Hegel rimprovera all”‘anima bella”); b) è privo di credibilità sul piano storico: i grandi intellettuali ovvero i politici rimasti estranei al potere non sono immuni dalle ingenue illusioni, dagli errori e persino dalle brutalità che possiamo riscontrare in coloro che gestiscono il potere reale; c) contrapponendo l’eccellenza delle buone intenzioni da un lato e la mediocrità o peggio delle azioni reali dall’altro, questo approccio spiana di nuovo la strada alla pseudo-spiegazione in chiave di “tradimento”. A suo tempo, Engels si è fatto beffe di “quella superstizione che riconduceva la rivoluzione alla malvagità di un pugno di agitatori” [38]. Disgraziatamente, nell’ambito del movimento comunista ha infuriato e tuttora infuria la “superstizione” in base alla quale i momenti di crisi ovvero la sconfitta di una rivoluzione sono da attribuire alla “malvagità” di un pugno di traditori. È ora di rompere definitivamente con questa infausta tradizione.
Comunque essa sia declinata, la categoria di “tradimento” presuppone la canonizzazione di Marx ed Engels (e dei “classici” comunque definiti) nonché la scomunica di coloro che vengono accusati di aver tradito il canone. Il ricorso qui suggerito alla categoria di “processo di apprendimento” implica invece da un lato la de-demonizzazione di Stalin (ma anche di Krusciov e di Trotskij), dall’altro la de-canonizzazione di Marx ed Engels (e dei “classici”). E questa de-canonizzazione implica a sua volta che il processo di apprendimento è ben lungi dall’essersi concluso.
9. Capitalismo e socialismo: esperimenti in laboratorio o lotta e condizionamento reciproco?
Se è ridicolo voler ridurre il Novecento alla storiella edificante di cui ho parlato all’inizio, non meno ridicolo è configurare la storia di questo secolo come il confronto tra due esperimenti in laboratorio, condotti separatamente l’uno dall’altro e l’uno fallito e l’altro riuscito. In realtà, come non può essere compresa la storia dell’occidente e del Terzo Mondo (col superamento delle tre grandi discriminazioni e l’avvento dello Stato sociale), senza la sfida rappresentata dal “socialismo reale”, così la storia del “socialismo reale” non può essere compresa senza la politica di intervento, accerchiamento e di embargo tecnologico e economico portata avanti dall’occidente.
Per quanto riguarda il primo punto, abbiamo visto che sono autori insospettabili a mettere lo smantellamento dello Stato razziale nel Sud degli USA e l’edificazione dello Stato sociale in Occidente in connessione con l’influenza in un modo o nell’altro esercitata dalla “rivoluzione marxista russa” e dal “campo socialista”. Ora si tratta di analizzare più compiutamente la dialettica sviluppatasi a partire dall’ottobre 1917. Il sistema capitalistico, rafforzato dall’assorbimento di elementi desunti dal bagaglio ideale e politico del movimento operaio e comunista e dalla stessa realtà del socialismo reale, ha poi saputo esercitare a sua volta un’attrazione irresistibile sulla popolazione dei paesi caratterizzati da un socialismo che sin dall’inizio porta impressi sul volto i segni della guerra scatenata e imposta dall’occidente e che poi diviene via via più ossificato e sclerotico sino a diventare la caricatura di se stesso. E cioè, i regimi nati sull’onda della rivoluzione bolscevica non hanno saputo misurarsi concretamente con quell’occidente che essi stessi avevano contribuito a modificare in profondità; in ultima analisi ha vinto il sistema politico-sociale che meglio ha saputo rispondere alla sfida lanciata o oggettivamente costituita dal sistema contrapposto e concorrente. Ed è così che anche in questo caso l’iniziale vittoria parziale conseguita dal movimento operaio e comunista, con la capacità dimostrata di dispiegare la sua concreta efficacia storica anche in campo avversario, si è trasformata in una sconfitta di portata strategica.
Possiamo così comprendere il processo contraddittorio in atto ai giorni nostri. In un paese come la Cina, a partire dall’allentarsi dello stato d’eccezione permanente imposto dall’imperialismo e sulla base di un processo di apprendimento reso più agevole da questa nuova situazione, matura il riconoscimento teorico dell’importanza del governo delle leggi e si sviluppano sforzi per costruire uno Stato socialista di diritto (è in questi termini che, rompendo sia con la tradizione del “socialismo reale” sia con l’eredità della “rivoluzione culturale”, si esprimono l’odierna Costituzione e i dirigenti della Repubblica Popolare). In Occidente, invece, al venir meno della sfida rappresentata dal “campo socialista” e da un forte movimento comunista internazionale corrisponde un processo di involuzione. Non si tratta solo dello smantellamento dello Stato sociale. Tendono persino a ripresentarsi, sia pure in forma diversa, due delle tre grandi discriminazioni superate nel corso del Novecento. Negli Stati Uniti – sottolinea fra gli altri un autorevole storico liberal come Schlesinger jr. – il peso del denaro nelle competizioni elettorali è così forte che gli organismi rappresentativi rischiano di ridiventare monopolio delle classi proprietarie (come negli anni d’oro della restrizione censitaria del suffragio). Per quanto riguarda, invece, i rapporti internazionali, un teorico pressoché ufficiale della “società aperta”, qual è Popper, procede ad una riabilitazione esplicita del colonialismo [39]. Conosce altresì una rinnovata vitalità la mitologia imperiale in base alla quale un “popolo eletto” ha il diritto-dovere di guidare gli altri: al motivo del White Man’s Burden caro a Kipling sta subentrando il motivo dell’American Man’s Burden caro a Bush jr.
La “sconfitta” non è il “fallimento”: mentre quest’ultima categoria implica un giudizio negativo totale, la prima si configura come un giudizio negativo parziale, che fa riferimento ad un contesto storico determinato e che rifiuta di rimuovere la realtà di alcuni paesi e persino di un paese-continente, che continuano a richiamarsi al socialismo. La loro resistenza e la loro vitalità derivano dalla capacità dimostrata di portare avanti concretamente, tra limiti, errori ed esperimenti più o meno felici, il necessario processo di apprendimento, depurando il progetto socialista delle sue componenti astrattamente utopistiche e riscoprendo il mercato socialista, il governo della legge in versione socialista, la persistenza delle differenze e identità nazionali ecc. Si apre una fase nuova e ricca di incognite: il processo di apprendimento non è e non può avere un successo garantito, non è immune né dall’insorgenza di contraddizioni e conflitti né dal pericolo della sconfitta. È un processo che è ben lungi dall’essere giunto alla sua conclusione.
NOTE
[1] ↑ Lenin, 1955 c, p. 403 e Lenin, 1955 a, p. 417.
[2] ↑ In Woodward, 1966, pp. 118 e 131-4,
[4] ↑ Su ciò cfr. Losurdo, 1998, cap. 2 § 3.
[5] ↑ Su ciò cfr. Losurdo, 1998, cap. 2 § 3.
[6] ↑ Guérin, 1968, voi. li. pp. 468-470 e 475-479,
[7] ↑ Chomsky, 2002, pp, 141 e 145.
[10] ↑ De Gasperi, 1956, pp. 15-7
[11] ↑ Deutscher, 1972, pp. 167-168.
[12] ↑ Deutscher, 1972, p. 20.
[13] ↑ Deutscher, 1972, p. 221.
[14] ↑ Deutscher, 1972, p. 19.
[15] ↑ Cfr. Paine, 1996, p. 325.
[16] ↑ Si veda il testo degli accordi di Yalta in Clemens, 1975, pp. 375-76.
[17] ↑ Kindermann, 2001, p. 303.
[19] ↑ Boyle, 1990, p. 193 (Lettera a Eisenhower del 15 febbraio 1955)
[20] ↑ Cfr. Borissow-Koloskow, 1973. pp. 188 e 191.
[21] ↑ Losurdo, 1997, cap. IV, 10.
[22] ↑ In Bloch, 1961, p. 253.
[24] ↑ Losurdo, 1997, cap. IV, 10.
[25] ↑ Marx-Engels, 1955. voi. XXII, p. 301.
[27] ↑ Bebel, 1964, pp. 482-3.
[29] ↑ Trotskij, 1968, pp. 144-45.
[30] ↑ Losurdo, 1997, cap. V, 3.
[31] ↑ Bloch, 1961, pp. 256-9.
[32] ↑ Losurdo, 1997, cap. VII, 2.
[35] ↑ In Figes. 2000, p. 926.
[36] ↑ Losurdo. 1997. cap. VII, 2.
[37] ↑ Losurdo, 1997, cap. VII, 3.
[38] ↑ Marx-Engels, 1955, voi. Vili, p. 5.
[39] ↑ Losurdo. 1993, cap. 8. §§ 4 e 7.
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