Rete dei Comunisti. In Documento preparatorio al I° Forum promosso dalla Rete dei Comunisti – Roma 13-14 Maggio 2006)
e in Materiali Teorico-Programmatici per la seconda assemblea nazionale della Rete dei Comunisti
La Rete dei Comunisti ormai da oltre un decennio è impegnata in un lavoro teorico e di analisi che, a partire dalla crisi degli anni ’90, ha ritenuto fondamentale per ridefinire un nuovo ruolo dei comunisti. L’elaborazione sull’imperialismo del XXI° secolo, quella sulla composizione di classe internazionale, sul ruolo e la natura dell’Unione Europea ed altri ancora, sono alcune tappe dell’impegno messo in campo per ricostruire una lettura ed una concezione adeguata della realtà attuale e delle sue tendenze.
In questo nostro percorso di ricerca non possiamo non affrontare la questione della analisi e della valutazione approfondita sul complesso del movimento comunista e di classe nel ‘900, poiché se non si capisce cosa sia accaduto nemmeno si ricostruisce. Né serve chiamarsi fuori dalla storia del secolo passato dichiarando discontinuità mai spiegate e motivate a fondo per il semplice fatto che la sola rimozione non può dare risposte vere.
Questo è perciò un passaggio ineludibile per chiunque voglia ancora ritenersi ed agire da comunista o che si ponga il problema del superamento del capitalismo. Sappiamo anche che questo è l’argomento più delicato ed esplosivo che, se non viene “maneggiato” con il massimo della cura, riproduce immediatamente la frammentazione e la conflittualità più deleteria; siamo convinti che su questo terreno non serve certo l’ecumenismo ma non serve nemmeno l’arroccamento identitario.
Affrontare le questioni relative ai paesi socialisti e complessivamente al movimento comunista del ’900 è una impresa molto complicata in quanto tali questioni toccano direttamente le corde profonde della identità costruita nei decenni passati, incluse quelle sul piano della formazione personale, e che generalmente si tende a difendere anche se con le dovute critiche ed autocritiche. Questo lo abbiamo e lo debbiamo avere ben presente, soprattutto a partire da noi stessi e non certo solo per gli altri.
Ci sembra infatti che riproporre, magari riveduta e corretta, la propria identità non ci possa portare molto lontano nella ricerca e nel confronto. Si pone allora, ancor prima delle questioni di merito, una questione di metodo, di chiave di lettura, di impostazione dell’analisi che metta tutti in condizione di rompere con le rigidità prodotte da una vicenda storica concreta, che mantiene ancora tutto il suo peso ideologico e culturale che si trascina dietro inevitabili schematismi politici e mentali.
Una ipotesi di lavoro nella ricerca che vogliamo avviare, potrebbe essere quella di non partire da una valutazione basata prevalentemente su una lettura storica, che in qualche modo è già definita nelle nostre concezioni e difficile da modificare, ma di fare riferimento a quegli elementi che oggi è possibile rilevare in modo chiaro in quanto elementi resi concreti e visibili anche dalla realtà attuale – il reale è razionale – e dai suoi sviluppi. A partire da queste oggettività individuate concretamente si può poi ragionare sul ‘900 capendo, indagando, individuando quegli elementi dei quali il movimento comunista a suo tempo non ha tenuto conto, di cui non ha potuto tenere conto, oppure che ha sottovalutato o sopravvalutato, e sulla base di questi poter poi dare un giudizio che si basi su dati quanto più possibile oggettivi e non solo sulle esperienze individuali e collettive fatte.
Partire dalle tendenze emerse dopo la crisi degli anni ’90, una crisi che ha significato la fine del blocco sovietico ma anche una potente battuta di arresto ed arretramento per il movimento comunista e di classe, ci mette in condizione di valutare più oggettivamente quelle esperienze che si sono dimostrate inadeguate per il superamento del sistema capitalistico ma ci permette anche di fare i conti con le prospettive. Infatti non crediamo che sia utile fare una ricerca storica per sostenere o criticare una determinata esperienza, al contrario pensiamo che sia molto più rilevante capire i problemi sorti nella costruzione di una società alternativa in funzione dei nodi politici e strutturali che dobbiamo affrontare nella nostra epoca.
Sappiamo che su tali questioni, questo nostro contributo non è l’unico nè pensiamo che bastino alcuni convegni per trovare le risposte. Sappiamo bene invece che apriamo una lunga fase di ricerca ed elaborazione sul terreno più impegnativo, problematico e complesso che si possa affrontare per dei comunisti e questa è sicuramente la verifica politica più difficile. D’altra parte è da tempo che abbiamo scelto di lavorare in questo modo e forse anche su questo terreno il metodo utilizzato può rivelarsi funzionale anche se non privo di verifiche da costruire.
A questo punto dobbiamo perciò individuare quegli elementi che possono divenire i parametri sui quali misurare sia la situazione attuale che l’esperienza storica. Qui ne proponiamo alcuni in modo approssimativo e che non sono ovviamente gli unici da adottare, attorno ai quali va fatta una discussione finalizzata ad aprire una lunga fase di lavoro teorico e politico.
DALL’ASSALTO AL CIELO ALLA TRANSIZIONE SOCIALE
La storia del movimento comunista, pur nelle sue molteplici varianti, ha seguito una tendenza alla crescita che va dalla rivoluzione del 1917 fino di fatto alla metà degli anni ’70. I motivi di questa crescita, storicamente incontestabile, sono molteplici e possono essere analizzati ed approfonditi, ma qui ci interessa mettere in evidenza un altro aspetto relativo alla percezione, in quella determinata fase storica, sia dei comunisti verso se stessi che delle classi dirigenti dei paesi capitalisti. Cioè si era generalmente affermata in quei decenni l’idea che “l’assalto al cielo” potesse riuscire e che per il fronte anticapitalistico fosse quasi a portata di mano la trasformazione socialista.
Come sappiamo bene così non è stato, e non lo è stato non solo per motivi politici ma fondamentalmente per motivi strutturali relativi sia alla possibilità per il capitalismo di tenere e rilanciare sullo sviluppo, sia ai limiti della concreta esperienza storica in costruzione del movimento operaio e comunista.
Poiché questo è oggi un dato di fatto evidente a tutti, se non si vuole rinunciare ad una prospettiva di cambiamento sociale, la lettura alternativa alla liquidazione di tale prospettiva è quella secondo cui la transizione dal capitalismo a nuove forme sociali ricopre una intera fase storica, dove possono intervenire anche momenti forti di rottura rivoluzionaria ma dentro un processo nel quale le spinte contro il cambiamento non solo non sono affatto eliminate ma hanno già dimostrato di poter riprodurre una egemonia che fino agli Settanta appariva in rotta.
Non si tratta qui di reintrodurre un gradualismo socialdemocratico, che tra l’altro oggi avrebbe ben pochi spazi dentro le macroscopiche contraddizioni che esprime il capitalismo, ma di capire che siamo di fronte ad una situazione di estrema complessità, la quale richiede un alto livello teorico delle capacità soggettive che devono essere in grado di interpretare ed affrontare quella complessità sociale prodotta proprio dall’attuale sviluppo del capitalismo.
Se confrontiamo questo dato di fatto oggettivo – a meno che non si ritenga che ci siano rotture rivoluzionarie a breve- con la visione del movimento comunista del secolo passato, la differenza è evidente e mostra i limiti di quella concezione. Infatti il dare per acquisita la prospettiva e la possibilità irreversibile del socialismo, era la convinzione profonda che c’era in tutte le componenti del movimento comunista ed antimperialista, ed ha significato incorrere in un vero e proprio errore teorico.
Per la collocazione e la condizione del proletariato nel capitalismo il dato della soggettività era ed è centrale: concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico e determinato ha impedito di avere una visione complessiva dei rapporti di classe e dunque di cogliere lo spessore effettivo delle difficoltà della trasformazione sociale.
Anche se sappiamo che nell’URSS postrivoluzionaria tali questioni erano ben chiare, soprattutto a Lenin, successivamente nessuno è stato esente da questo difetto; il militarismo della fase finale dell’URSS, il politicismo dei partiti occidentali, la feroce competizione tra le diverse forze comuniste in campo sono state il frutto di una lettura parziale della realtà e di un conseguente inaridimento di quella capacità teorica che ha permesso invece l’affermazione del movimento operaio e rivoluzionario già dalla fine dell’800.
Adottare il punto di vista della transizione significa invece sviluppare al massimo gli strumenti della analisi e la capacità di lettura della realtà e significa anche ritrovare la giusta relazione tra la condizione oggettiva e le capacità soggettive che nel contesto odierno assumono un ruolo rilevante data appunto la estrema complessità attuale. Per capacità soggettiva si intende certamente quella teorica, ma si intendono anche le forze sociali e politiche organizzate che sono realmente in campo ed, infine, la questione del partito che va evidentemente ricollocata e riaffrontata in questa nuova condizione.
Questa non è evidentemente una critica al movimento del ‘900, non riteniamo di averne l’autorità. Il nostro problema è un altro e cioè che occorre prendere atto del prodotto del processo storico per poter operare qui ed ora. Questo è particolarmente importante per quelle forze che agiscono in una condizione estremamente difficile come quella che viviamo nel nostro paese cioè per chi agisce politicamente in un paese imperialista.
IL “METRO” UNIVERSALE DELLA LEGGE DEL VALORE
La crisi della alternativa sociale al capitalismo ha ridato piena vigenza alla legge del valore. Come Rete dei Comunisti negli anni scorsi ci siamo misurati con questa questione sul piano teorico con pubblicazioni e incontri internazionali contestando la lettura che ancora oggi va per la maggiore anche tra settori comunisti – quella “sraffiana” – e rifacendoci alla originaria interpretazione di Marx il quale riteneva che il saggio del profitto trovasse origine dal saggio del plusvalore, ovvero dallo sfruttamento della forza lavoro. Questo architrave teorico è stato per noi fondamentale ed è stata la tesi esposta nel convegno “Il Piano Inclinato del Capitale”, tenuto nell’Aprile del 2003, che ci ha consentito di completare e dare organicità alla analisi sull’imperialismo che abbiamo avanzato in questi anni.
E’ evidente come la legge del valore ed il mercato capitalistico siano strettamente collegati e siano stati per tutto il ‘900 condizione immanente e parte consistente dei problemi e delle contraddizioni nella costruzione dell’URSS, dei paesi socialisti e della Cina rivoluzionaria. Il comunismo di guerra, la NEP, la collettivizzazione di Stalin, i modelli misti del secondo dopoguerra fino alla politica odierna del Partito Comunista Cinese, sono stati tutti costretti a misurarsi direttamente o indirettamente con la legge del valore che soprassiede nel capitalismo agli scambi mercantili.
Tale questione, che oggi si ripropone con ancora più forza, ci obbliga a fare i conti con il passato ma anche con le prospettive e non può essere rimossa d’ufficio. Questa è di fatto un elemento di valutazione importante anche perché abbiamo imparato a nostre spese come siamo ben dentro una fase storica di transizione e non all’attuazione del socialismo e tanto meno del comunismo.
Questa “persistenza” della legge del valore quanto è stata compresa nella esperienza socialista del secolo passato, soprattutto nell’URSS del periodo staliniano? Se questa osservazione è corretta perché non è stato dato il giusto peso a tale questione? Per motivi “ideologici” e per limiti soggettivi oppure perché non c’erano le condizioni oggettive per individuare altre strade? Questa predominanza del mercato capitalista quanto pesa ancora? Quali possono essere le condizioni per il deperimento della legge del valore? Nelle vicende del ‘900 c’è stata questa opportunità? Se si, perché non è stata colta?
Inoltre, se la legge del valore è il metro di misura universale delle relazioni sociali nel capitalismo, da cosa va sostituito in una organizzazione sociale diversa? Una soppressione per “decreto” di questo metro di misura generale del capitalismo produce effetti permanenti? Oppure questo quanto può tenere in assenza di una diversa ed alternativa relazione sociale?
Queste non sono domande retoriche e probabilmente altre ancora ne andranno fatte, ma è certo che se vogliamo fare un confronto serio sul ‘900 non possiamo partire dai giudizi sugli eventi, che pure sono importanti, ma ricostruire l’analisi partendo dai dati di fondo che stanno caratterizzando la trasformazione sociale e la produzione socializzata e statalizzata a partire dalla rivoluzione del ’17. Comunque è certo che di fronte a questioni di tale livello non ci possiamo permettere, per salvarci di fronte a noi stessi, sconti o rimozioni sul piano della analisi e della elaborazione teorica, pena la sindrome perenne della sconfitta.
SVILUPPO DELLE FORZE PRODUTTIVE, SCIENZA E CLASSE
Fin dalla rivoluzione del ’17 la questione centrale per la edificazione socialista è stata quella dello sviluppo delle forze produttive. Questo nodo si è trascinato fino al secondo dopoguerra, anche nella rivoluzione cinese, ed ha prodotto nei partiti comunisti al potere dibattiti e scontri assai spesso pesanti sul come procedere in quella direzione.
La centralità di questo elemento ha però avuto la conferma storica, se ce ne fosse stato ancora bisogno, con la rivoluzione tecnico-scientifica avviata dai paesi capitalisti dalla seconda metà degli anni ’70. Questo non solo ha ridato sviluppo e forza egemonica al capitalismo ma l’effetto più rilevante politicamente è stato quello della modifica profonda della classe lavoratrice sia sul piano qualitativo che quantitativo. Infatti da una parte si è avviato un processo di internazionalizzazione organica della classe e dall’altra è stata modificata radicalmente la classe operaia di fabbrica, ovvero quel “reparto” della classe lavoratrice che per tutto il ‘900 è stato considerato ed è stato l’avanguardia ed il referente sociale diretto dei partiti comunisti.
La rivoluzione produttiva fa emergere a livello di massa un nuovo tipo di lavoratore non legato direttamente alla produzione di merci, inserito nel settore dei servizi e con un livello di scolarizzazione alto, cioè il capitale è riuscito a mettere a produzione del profitto anche il lavoro intellettuale. Questa figura cresce soprattutto nei paesi sviluppati del centro ma si riproduce anche nelle periferie produttive dove convive, in dimensione ridotta, con forme di sfruttamento classiche della forza lavoro che vanno dalle forme schiavistiche alla produzione fordista. Su questo la Rete dei Comunisti ha tenuto due incontri internazionali nel 2004 e nel 2005 ed ha prodotto più testi dove si espongono i risultati della analisi e del dibattito politico (“Lavoro contro Capitale” uno e due).
Quello che è utile mettere in evidenza è che il manifestarsi a livello di massa di un lavoratore qualificato a livello intellettuale in relazione ad un apparato produttivo più avanzato manifesta una tendenza storica, chiaramente finalizzata oggi nel modo di produzione capitalistico alla valorizzazione del capitale, che vede l’evoluzione della classe lavoratrice essere non solo il prodotto esclusivo del processo di valorizzazione ma anche uno sviluppo obiettivo della produzione socializzata.
Anche in questo caso, se noi paragoniamo la situazione attuale con la concezione del movimento comunista del ‘900 in tutte le sue varianti, è chiaro come questo tipo di sviluppo non fosse stato previsto o almeno non era stato valutato nella giusta misura. Anche qui ci sembra che siamo di fronte ad un “buco” teorico che non può essere addebitato ai “padri fondatori” ma al come il movimento operaio e comunista si è concretamente sviluppato.
Cosa significhi questo “buco”, quali siano gli elementi da sottoporre a critica e, ancor meno, come risolvere il problema allo stato attuale, sono interrogativi a cui ancora non siamo in grado di dare risposte, certo è che un errore oggi così evidente nei riguardi della classe di riferimento va evidenziato e analizzato a fondo. Ciò va fatto ancor prima di sparare giudizi su questa o quella esperienza o scelta politica, visto che un tale “abbaglio” ha praticamente riguardato tutte le varianti del movimento comunista sia che siano state al governo che all’opposizione, sia che siano state ortodosse o eterodosse.
Vale forse la pena di inserire un elemento di riflessione ulteriore. Qualcuno potrebbe dire che la Cina si sta ponendo questi problemi, tanto è vero che questo oggi è il paese che sta economicamente crescendo di più. In realtà il processo di accumulazione “primitiva” e accelerata che sta seguendo la Cina sembra seguire, in condizioni storiche e materiali molto diverse, lo stesso che ha seguito l’URSS con il processo di industrializzazione forzata.
Questo prova che una economia socialista, socialistica o comunque non capitalistica, fino ad oggi ha dimostrato di essere in grado di sapere – se non di raggiungere sicuramente – avvicinarsi allo sviluppo capitalistico superando la barriera della arretratezza. E’dentro questa capacità di sviluppo che va valutato anche il ruolo dello Stato, sia negli effetti positivi che negativi, che non può non avere un compito crescente nel recupero della arretratezza.
Il punto su cui invece va messo l’accento e sul quale va concentrata la riflessione, non è tanto quello del superamento della prima barriera (l’accumulazione che porta al superamento dell’arretratezza) comunque fondamentale, ma quello della seconda, ovvero quella dello sviluppo generale e della egemonia. E’ questo un nodo strategico ed irrisolto. Tutto ciò va affrontato con lo spirito della ricerca e del dibattito e con molta modestia, vista la dimensione delle questioni, ma anche qui senza fare e senza farci sconti.
In conclusione sembra che riemerga con forza la questione della capacità di progettare, della soggettività e, in ultima istanza, del partito; ovviamente sempre tenendo conto del contesto oggettivo e materiale in cui tutto ciò è avvenuto ed avviene, non solo per rincorrere il capitalismo ma anche per concepire uno sviluppo produttivo, scientifico e sociale che sia in grado di superarlo.
L’URSS, I BLOCCHI ECONOMICI E LE AREE VALUTARIE
Con la crisi del campo socialista è emersa con forza la tendenza all’aggregazione, e non solo per i paesi imperialisti, su base regionale/continentale. Gli esempi sono molti, a cominciare dalla Unione Europea, passando per il tentativo degli USA di inglobare tutto il continente Americano in una unica area economica e valutaria fino al prospettato blocco Asiatico. Questa tendenza l’abbiamo analizzata in questi anni affrontando in particolare la questione della formazione dei poli imperialisti.
Tutto ciò dimostra la giustezza della nascita dell’URSS come federazione di Stati in quanto questa era una delle condizioni fondamentali per dare corpo ad uno sviluppo potente delle forze produttive. La costituzione della Federazione che supera la concezione nazionalista dei paesi capitalisti dell’epoca è una conferma, rafforzata dalla nascita attuale dei blocchi economici, di un orientamento del pensiero e dell’analisi del movimento comunista che ha a tutt’oggi valore.
In questa dimensione sovranazionale che si va affermando non vanno collocati solo i fenomeni strettamente economici ma anche quelli che attengono alla sfera dello Stato e più precisamente quelli della evoluzione e trasformazione dello Stato nazionale. Una tale questione richiede sicuramente un approfondimento ed un dibattito che tenga conto anche del percorso storico che porta ad una nuova fase di passaggio della forma dello Stato, anticipato dalla rivoluzione del ’17 .
LA ROTTURA RIVOLUZIONARIA POSSIBILE
Nel lavoro da fare forse è necessario avanzare anche una riflessione sulle modalità della transizione sociale dopo il fallimento dei paesi socialisti “filo-sovietici”. Sappiamo bene che uno degli elementi di crisi della rivoluzione bolscevica è stata la mancata rivoluzione della classe operaia nel resto dell’Europa e che questa mancata rivoluzione sia stata il frutto delle possibilità egemoniche dell’imperialismo dell’inizio ‘900 ma anche delle scelte politiche fatte dalla II° internazionale.
Lenin a questo proposito non solo analizzò le cause strutturali, le caratteristiche del movimento operaio dell’epoca e gli effetti della sua subordinazione alle borghesie nazionali, ma comprese anche le conseguenze che una simile situazione avrebbe creato nella costruzione del socialismo, il quale in quel momento disponeva come unica base di un paese non solo arretrato (l’URSS), ma anche piegato da anni di guerra civile. Situazione successivamente ulteriormente aggravata dalla seconda guerra mondiale.
E’ chiaro che molto di quello che è accaduto, sia in termini concreti di costruzione di una società alternativa al capitalismo – ma anche in termini di tenuta teorica del pensiero comunista che una tale mastodontica opera richiedeva – è stato condizionato da quegli eventi che, per certi versi, si sono confermati per tutto il XX secolo.
Le rivoluzioni fatte, a cominciare da quella cinese, hanno avuto come base sociale sostanzialmente le masse rurali sfruttate e non le classi lavoratrici dei paesi avanzati; classi queste che, pur conducendo una forte lotta in alcuni paesi come ad esempio nel nostro, sono state sicuramente determinanti per modificare i rapporti di forza nella società e per la conquista di spazi democratici, ma non hanno mai raggiunto il punto di rottura rivoluzionaria, come è invece accaduto nell’allora cosiddetto Terzo Mondo.
Il fatto che a poco meno di un secolo di distanza, in presenza di una molto più forte integrazione dei sistemi produttivi, si riproponga una possibile frattura tra lavoratori dei centri imperialisti e della periferia produttiva sul piano internazionale, crediamo che ci debba spingere a riflettere non tanto e non solo sul piano della contingenza politica quanto sulle implicazioni teoriche relative ai modi della transizione possibile.
In altre parole l’avvio di un processo di trasformazione potrebbe mantenere le forme del ‘900, cioè la rottura rivoluzionaria che avviene nell’anello debole dell’imperialismo, in una condizione dove la relativa indipendenza strutturale dei paesi imperialisti del secolo passato viene meno a causa del processo in atto di integrazione mondiale e della costituzione dei blocchi economici.
Il “rischio” di trovarsi di fronte ad eventi rivoluzionari che riguardano i paesi meno sviluppati, e dunque la possibilità del riprodursi di situazioni apparentemente note, è sicuramente un elemento da inserire nelle nostre elaborazioni e nel dibattito anche perché i segni che vanno in questa direzione si stanno manifestando concretamente.
L’esempio più evidente e diretto, ma che non è il solo nell’attuale situazione mondiale, è il processo che si è innestato nella America Latina, dove la crisi di egemonia degli Stati Uniti è sempre più evidente e dove i movimenti popolari pur assumendo forme diversificate nei vari paesi del subcontinente, sono tutti orientati contro il modello capitalista esportato dagli USA.
IL PRIMA ED IL DOPO
Sulla vicenda del cosiddetto crollo del muro di Berlino c’è una grande, enorme, palese rimozione che viene fatta, in buona ed in mala fede, soprattutto a sinistra. Questa riguarda il confronto ineludibile da fare tra “il prima ed il dopo”. Va detto con forza che non abbiamo alcuna nostalgia per la sconfitta e che per noi le responsabilità dei partiti comunisti, a cominciare dal PCUS, sono la causa principale della crisi. Ma è anche giunto il momento di fare un confronto tra i due periodi, essendo intercorsi ormai circa quindici anni che rappresentano un lasso di tempo sufficiente per cominciare a dare alcuni giudizi storicamente soppesati.
Chi ci ha rimesso e chi ci ha guadagnato da quel “crollo” è oggi abbastanza evidente: ci hanno rimesso tutti i popoli dei paesi ex socialisti, escluse alcune minoranze, che sono stati retrocessi alla barbarie e ci hanno rimesso i popoli dell’ex terzo mondo, oggi divenuti periferie arretrate, supersfruttate ed in balìa dei paesi imperialisti senza alcuna difesa. Ci hanno rimesso anche le classi lavoratrici dei paesi imperialisti ributtate indietro di decenni sul piano economico, politico, culturale e dei diritti, ma soprattutto ci ha rimesso l’umanità nel suo insieme che è sprofondata in una crisi di prospettive dove “un altro mondo” sembra impossibile e dalla quale non si vede una via d’uscita.
Poiché l’arretramento generale è un dato obiettivo, incontestabile, come non dobbiamo avere santi in paradiso da venerare non possiamo nemmeno permettere che questa semplice verità non venga affrontata e motivata. Non è possibile accettare la rimozione generale che viene fatta e dunque è sempre più necessario che venga spiegato perché quel crollo, che per molti è stato visto come una liberazione, in realtà si è ribaltato nel suo contrario.
E’ necessario spiegare perchè una società socialista arretrata, anzi secondo molti compagni niente affatto socialista ed addirittura “capitalista sotto mentite spoglie”, sia riuscita ad produrre una modifica dei rapporti di forza a favore delle classi subalterne ed una trasformazione radicale del capitalismo del ‘900. Allo stesso modo va anche spiegato perché il crollo di quello che alcuni hanno sempre definito il “mostro burocratico sovietico” non abbia affatto dispiegato le ali alle forze rivoluzionarie.
Sappiamo bene che le critiche fatte hanno spesso delle valide ragioni, così come sappiamo altrettanto bene che sono mosse da motivazioni diverse. Da una parte ci sono quelli che criticano partendo da un punto di vista correttamente di classe e che si pongono i problemi che noi stessi avvertiamo, ma dall’altra c’è chi, dietro la critica ai paesi del “socialismo reale”, nascondeva e nasconde tutt’ora ben altri obiettivi e tendenze, e certo non bisogna arrivare fino ai DS per capire chi ha questo tipo di attitudine nella sinistra nostrana.
Non si tratta di recriminare su quello che è stato detto e fatto, ma di riuscire a capire ed a spiegare perché oggi il mondo vive la attuale condizione di assenza di prospettiva di cambiamento mentre nel ‘900 ben altre erano le aspettative e le condizioni delle classi e dei paesi subalterni. Capire e spiegare perché il movimento comunista e di classe “reale”, concreto, che si è sviluppato abbia contribuito alla vittoria sui fascismi e non solo o non principalmente sul piano militare, alla nascita del welfare a cominciare dagli USA e perfino alla rivoluzione tecnico-scientifica degli anni ’70 avviata nell’occidente, ci serve per dare il giusto peso, ieri ed oggi, alla lotta di classe nella espressione delle sue molteplici forme fino a quella formalizzatasi negli Stati socialisti.
La necessità di una tale analisi è palese, ma vogliamo aprire questo fronte di battaglia anche culturale e non solamente politico perché abbiamo il fondato sospetto che “l’intellighenzia” della nostra sinistra in realtà non sia capace di capire i motivi di fondo né di dare indicazioni per uscire dalla crisi attuale in quanto le posizioni espresse negli ultimi decenni sono il frutto non di elevate elaborazioni teoriche, alle quali da tempo hanno rinunciato, ma di scelte politiche di ben più basso livello per cui si è appunto preferito buttare con l’acqua sporca anche il bambino.
Data l’obiettività dell’arretramento generale è chiaro che lo spiegare e motivare una simile situazione è una condizione fondamentale per poter affrontare lucidamente le questioni del ‘900 facendo uno sforzo di razionalità e riuscendo ad “abbandonare le proprie opinioni” contribuendo così a costruire una lettura del mondo che tenga conto della realtà attuale e delle cause effettive che l’ hanno generata.
IN CONCLUSIONE
Non è detto che il metodo che proponiamo porti ad una lettura più vera sia delle vicende del ‘900 che delle prospettive attuali, in quanto esse non sono affatto scisse. Il nostro vuole essere un tentativo di rompere una gabbia culturale che ha avuto fino ad oggi l’effetto di riprodurre una sorta di “coazione a ripetere” le proprie posizioni ed analisi – soprattutto quando queste si limitano alla sola lettura storica – che in qualche modo ha impedito l’avvio di un confronto comune tra compagni e studiosi collocati o provenienti politicamente in realtà diverse.
Si tratta perciò di capire se su questa ipotesi di lavoro e di ricerca è possibile procedere, tenendo anche conto di tempi non brevi, aprendo un confronto a tutto campo e senza porre limiti se non quelli che possono solo venire dalla presa d’atto della realtà odierna e della quale abbiamo cercato di definire solo alcuni elementi e parametri che ci sembrano oggettivamente riscontrabili. Torniamo infatti a riaffermare che l’agire politico dei comunisti oggi si colloca tra passato e futuro.
CREDITS
Immagine in evidenza: Quarto Stato
Autore: Giuseppe Pelizza Da Volpedo, 1901
Licenza: public domain
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