Michele Prospero (Relazione al I° Forum promosso dalla Rete dei Comunisti – Roma 13-14 Maggio 2006)
Nei tempi della cosiddetta modernità liquida, la sostanza materiale e immateriale della proprietà è tornata ad essere il più significativo principio organizzatore dei nodi più rilevanti della esperienza individuale e collettiva [1]. La proprietà continua ad essere, proprio come ai bei tempi aurei del giusnaturalismo, un presupposto tacito di cui non si osa neppure mostrare la genesi e la funzionalità. La proprietà è la proprietà, altro non si riesce a dire per cogliere i tratti di questo rapporto di potere rivestito indebitamente di valori assoluti. Ma questo circolo vizioso è ritenuto più che sufficiente per ricoprire la proprietà di una cornice di naturalità e assolutezza. Per i postmoderni affascinati dall’estetico e insensibili ad ogni richiamo proveniente dai rapporti sociali di produzione delle cose oggetto della stessa fruizione estetica, la proprietà è un dato incontestabile, una faccenda polverosa che non ha bisogno di troppe spiegazioni. I manuali di economia hanno da tempo interiorizzato il regime della proprietà e sostengono per questo che “l’economia è la scienza che studia il modo con cui la società gestisce le proprie risorse scarse” [2]. E in un regime di scarsità, secondo la nota ipotesi di Hume, la proprietà sorge come misura precauzionale necessaria e non suscettibile di alcuna altra determinazione. La proprietà è assunta come un tacito dato di natura, come un tassello ineliminabile poiché “il problema economico fondamentale è la scarsità” [3]. L’aurea legge della domanda e dell’offerta torna ad i sere santificata e “il prezzo di ogni dato bene tende naturalmente ad aggiustarsi in modo da portare do manda e offerta in equilibrio” [4]. Un regno armonico di interessi privati e pubblici viene postulato con estrema tranquillità in questi tempi di prolungato assopimento della teoria critica. Proprio i dispositivi anonimi della domanda e dell’offerta crea però il giusto prezzo delle attività economiche corsare che scaricano i costi delle esternalizzazioni e competono sul mercato con stabilimenti industriali a elevato rischio di danno ambientale. È in virtù dell’armonico meccanismo della formazione dei prezzi che un italiano su cinque abita in aree ad elevato rischio ambientale. Ma per gli apologeti del mercato queste sono soltanto spiacevoli e temporanee interferenze. Nell’economia di mercato “il perseguimento dell’interesse individuale, attraverso l’incentivo rappresentato dal meccanismo dei prezzi, permette di raggiungere il benessere collettivo” [5]. La variazione dei prezzi è un segnale dello spessore dei rapporti tra gli attori sociali e un incentivo a formulare strategie d’impresa aggiornate alle mutevoli esigenze dei consumatori. È inutile una visione globale della trama dei rapporti sociali per definire un uso efficiente delle risorse. “I consumatori devono essere liberi di decidere cosa comprare con i loro redditi; i lavoratori devono essere liberi di scegliere dove e quanto lavorare; le imprese devono essere liberi di scegliere cosa vendere e che tecnologie adottare” [6]. La società di mercato torna ad essere raffigurata come l’eden dei diritti innati di libertà. Per il giurista il mercato cessa di essere un istituto sociale ricco di incrostazioni storico-politiche (Consob, Borsa. Antitrust, Banca d’Italia, normativa civilistica e fiscale) e assume i contorni di un luogo naturale che nessun intervento umano artificiale può turbare. Giuristi ed economisti cooperano nell’impresa di destoricizzare i sistemi sociali per costruire un immenso velo per coprire la concretezza dei rapporti di dominio e dipendenza. Questa dimenticanza trascura il ruolo in surrogabile dei rivestimenti normativi, degli investimenti di artificio politico che sono stati necessari per proteggere quel locus artifìcialis che è il mercato, puntellandolo quando il meccanismo presentava crepe e la domanda languiva.
Il Novecento, il secolo della grande progettualità politica, era andato oltre l‘homo singulus che contratta gli spazi della propria autonomia abbracciando non solo il civis che partecipa alle strutture pubbliche ma persino il socius che reclama una forma attenta alla sociale differenza. Dopo la fase di neutralizzazione della proprietà, sorta per allestire una sfera pubblica inclusiva oltre i differenziali di potere connessi all’avere, è subentrata una stagione di neutralizzazione del pubblico escogitata per riaffidare al calcolo economico una perduta centralità nella vita quotidiana. Nella prima ondata del ‘900, lo sforzo è stato quello di rivestire la proprietà con diritti che la neutralizzassero nei suoi effetti più distorsivi rispetto agli ideali dell’eguaglianza formale dei soggetti. Il dettato costituzionale veniva ritenuto prioritario rispetto alle tipologie previste dai codici liberali. Il codice prevede il ricorso a strumenti volontari che definiscono un autonomo meccanismo di creazione della dipendenza mediante atti di volontà. La base teorica del tentativo di anestetizzare la proprietà con i ritrovati del diritto si rinveniva anche nella dottrina marcatamente tedesca della proprietà come istituzione e come una sorta di comunità da cogestire. Più ricche sono le interpretazioni dell’azienda come sistema nel quale operano meccanismi di interdipendenza e non è più rintracciabile l’epifania di un individuo proprietario. Diventano sempre più I esplicite le connessioni tra teoria giuridica ed economia [7]. Dalla proprietà come finzione giuridica ritagliata su un homo clausus che si rapporta alla cosa, si passava alla nozione di proprietà intesa come dimensione plurale e collettiva entro cui spiccavano diversi soggetti sociali diversamente contrassegnati nei ruoli, nei redditi e nelle funzioni. Dalla “cosa” che il soggetto manipola a discrezione, si passava alla teoria della istituzione che esalta la funzione sociale della produzione e della distribuzione della ricchezza. Dai codici che esaltavano l’autonomia dei privati nel rapporto esclusivo con la cosa si transitava a alla costituzione che tratteggiava i momenti di una esperienza mista di gestione dell’economia ripartita tra le diverse esigenze del calcolo privato e della funzione sociale della produzione materiale [8]. Anche le teorie dell’azienda riflettono su questa connotazione apertamente sociale dell’intrapresa economica. “Il superamento dell’individualismo, nelle caratteristiche sociali dell’economia moderna, fa anche delle aziende private uno strumento rivolto non essenzialmente ai fini privatistici, ma anche ai fini sociali, che organismi collettivi sono intesi a tutelare” [9]. L’azienda è interpretata come un attore sociale il cui rendimento non è indifferente alle sorti della collettività. A questa stagione di si collegano i tentativi di definire una funzione sociale del diritto privato, di delineare garanzie, tutele a favore del lavoratore. La contrattazione collettiva è una delle manifestazioni di un diritto mutevole a seconda del rapporto delle forze sociali e attento alla condizione diseguale ben visibile tra la proprietà, che mette in gioco l’avere o capitale di rischio, e il lavoratore che coinvolge il suo essere nel rapporto di subordinazione. La costruzione del diritto del lavoro, la definizione di regimi fiscali sono orientati allo sforzo di neutralizzare gli effetti della questione proprietaria avvertita come mina vagante nella definizione di una prospettiva di cittadinanza [10]. Il sistema della proprietà si curva dietro il protagonismo dei soggetti politici ed economici ed è costretto ad aperture normative a favore delle esigenze sociali. I diritti sociali si sono costituzionalizzati ma questo processo non esclude i ritorni di spinte liberiste e mercantili una volta che i movimenti politici dei lavoratori siano stati indeboliti e costretti alla ritirata. Questo fenomeno spiega la peculiare natura dei diritti sociali che dipendono dalla risorse disponibili e anche dalle maggioranze politiche che governano. Il diritto di sovranità precede i diritti sociali, nel senso che non si possono obbligare i cittadini a prestazioni contro il loro consenso. Una forma di ridimensionamento della prescrittività dei diritti sociali si ha già con la legge finanziaria che è una sorta di revisione annuale che si pronuncia sulla effettiva attuabilità delle prestazioni pubbliche e opera come il termometro oggettivo che incide prepotentemente sulla copertura reale del diritto. Negli ultimi anni si è consolidata la consuetudine di ricorrere alla rivelatrice formula “nei limiti delle risorse finanziarie” per alludere all’effettiva copertura dei diritti sociali essenziali nell’attuale ordinamento. Il diritto è subordinato alle risorse e quindi degradato a interesse legittimo. Il codice, con il valore cardine dell’autonomia negoziale, si vendica della costituzione, con il criterio distintivo della finalità sociale di ogni intrapresa economica anche quella orientata al profitto.
Dopo il crollo dei regimi comunisti e l’ampliamento della sfera d’influenza riservata alle logiche del mercato globale, il contorno pubblico costruito per attutire i colpi della diversa disponibilità dei beni viene smantellato. La parola d’ordine vincente degli anni ‘90 è non a caso quella che sollecita un grande balzo dallo Stato gestore, etichettato come “criminogeno” per la sua ipertrofia normativa, allo Stato regolatore che delinea soltanto una forma asettica riempita dai contenuti che i liberi operatori di mercato decideranno di assumere. Efficienza, produttività, crescita esigono il divorzio dal pubblico e il ricorso a una forte dose di flessibilità che porti a un qualche statuto dei nuovi lavori dipinti come oggetti di scambio disponibili e privi di ogni tutela. Si annunciano nuovi equilibri tra pubblico e privato e fatica ad essere riconoscibile ogni lineamento di una sfera generale e astratta che assume compiti di gestione dei rischi congeniti nelle pieghe della società di mercato. Entro lo Stato declina il ruolo della pubblica amministrazione e irrompe un processo che conduce alla privatizzazione del pubblico impiego. Il procedimento amministrativo conosce una metamorfosi completa e dai tradizionali criteri della valutazione discrezionale operata dal decisore centrale si passa a una procedura condivisa e plurale che ricorre a forme consensuali di scambio tra autorità centrali e locali e i molteplici soggetti privati coinvolti nel rapporto. Il negozio tra parti trionfa sul provvedimento nella stessa macchina amministrativa, un tempo descritta come agenzia imprevedibile e astratta capace di imporre provvedimenti autoritativi. Il modello artificiale e consensuale del diritto privato penetra nello spazio pubblico rendendo l’amministrazione una parte che opera accanto ai soggetti proprietari con i quali cogestire i provvedimenti e concordare le sanzioni. Cresce impetuosamente il ricorso a strumenti e principi del diritto privato o a forme ibride scaturite dalla contaminazione dei codici e degli schemi di diritto pubblico e privato. Il principio di autonomia è il principale veicolo di questo processo di privatizzazione del pubblico. Con esso si annuncia una vera aziendalizzazione della funzione pubblica (scuola, ospedali). Negli organi pubblici l’attività dei soggetti ricorre alla nozione di autonomia che è il principio base del diritto privato i cui protagonisti sono i soggetti proprietari. Evapora la nozione di sfera pubblica. Gli stessi processi di revisione costituzionale del rapporto tra centro e periferia sono un tassello della disarticolazione di un pubblico che governa il ciclo economico. In Europa si parla di transito dal grande governo al governo soft e diffuso nei territori. Si definiscono governi multi livello con 100 mila comuni, 250 regioni, gran parte delle quali dotate di potestà legislativa. La chiamano governance perché il momento della decisione scorre in orizzontale, la sua pretesa è quella di definire un sistema fortemente cooperativo dove tra le parti pubbliche e private prevalgono meccanismi orientati all’intesa reciproca. In questa fase di dispersione territoriale della funzione pubblica nessuno si sogna di evocare un governo inteso come superiore autorità di comando. Il pubblico provvisto sempre di minori risorse e competenze normative scorre veloce fino ad immettersi in un sistema decentrato. La funzione di governo è residuale e non evoca un organo che decide d’imperio sull’interesse generale. Dal sistema pubblico si entra nel disperso frammento, dalla completezza di un ordinamento capace di assorbire la sinuosità del reale si procede alla incompletezza di un pubblico che accantona la norma, intesa come criterio direttivo eteronomo che dà certezza e prevedibilità alle relazioni, e ricorre agli statuti, agli arbitrati, alla compravendita del diritto secondo gli aurei principi della domanda e dell’offerta [11]. Il problema della proprietà è fortemente coinvolto nei processi di differenziazione territoriale del potere politico. Alle tendenze economiche sempre più globali si risponde moltiplicando le periferie del potere e frantumando gli spazi. La sussidiarietà verticale, nuova attrattiva delle forme politiche europee, esalta in maniera evidente gli interessi proprietari e patrimoniali locali rispetto ai beni pubblici che dovrebbero essere indisponibili e che invece sono sovente sacrificati nella elaborazione del piano urbanistico [12]. Non soltanto diventano possibili, dopo il declino dello Stato, modelli regolativi attenuati con protagonisti principali poteri locali pronti a sacrificare beni pubblici in nome delle esigenze del consenso e della capacità di pressione degli interessi proprietari. Ma anche il continuo ricorso ai condoni in ambito edilizio e ambientale segnala un compromesso inossidabile tra le labili esigenze di pianificazione territoriale e ambientale e le potenti strutture proprietarie. Beni pubblici e interessi patrimoniali configgono in maniera manifesta e tra i contendenti è quasi sempre la logica del pubblico a riportare la peggio. Emerge una sorta di relativismo giuridico che dinanzi allo smembramento dei paesaggi valuta anzitutto le convenienze degli interessi coinvolti. Poiché il mercato è un supremo principio unificatore che si proietta al di là dei confini territoriali occorre una sterilizzazione dello Stato come impaccio estrinseco il cui criterio ispiratore irrigidisce le divisioni e ossifica spazi che devono invece essere fluidi. Con la sussidiarietà il territorio è deformato, liberato dalle forme pubbliche e privatizzato esso stesso. La governarne indica la commistione di pubblico e privato come tratto distintivo della fase attuale che rinuncia al centro e si disperde nella rete di un pluralismo di soggetti della normazione. Con la sussidiarietà sono chiamati in causa una pluralità di aspetti normativi e la pianificazione territoriale è piegata dinanzi agli imperativi del consenso e del mercato. 1 limiti alla proprietà posti da interessi metaindividuali di lungo periodo sono molto attenuati da politiche che rinunciano alla custodia del bene e inaugurano confuse pratiche di concertazione contro una deprecata statica tutela dell’ambiente. Quanto più la tutela di un bene pubblico, rispetto alle aspettative patrimoniali del mercato viene, affidata a un livello locale tanto più sfuma la effettiva protezione del pubblico bene. Non è un caso che solo dalle direttive CEE, cioè da criteri provenienti da un ambite regolativo divaricato dai territori, è possibile rintracciare i lineamenti di diritto ambientale con vocazione all’effettività, anche se tuttora gravemente sprovvisto di strumenti attuativi efficaci e soprattutto non in possesso di fondi ad hoc necessari per il ripristino dopo l’accertamento di un danno eventuale e per l’intervento in caso di danni non risarciti [13].
Sulla scia della nascente disciplina comunitaria sull’ambiente, emerge una visione dell’ambiente inteso come bene primario garantito alla collettività con forme esplicitamente delineate. Sfumato è tuttavia, al di là della proclamazione del principio, il rivestimento giuridico reale dell’ambiente assunto come situazione giuridica soggettiva. Intorno al bene pubblico, a ciò che appare come res communis omnium non suscettibile di appropriazione, si riesce a delineare solo una scarna ossatura di un contratto Soft law che indietreggia timidamente dinanzi a un periodico ricorso ai condoni che svela quale elemento sia destinato a prevalere in caso di opposizione tra vincolo pubblico e privata proprietà. Il diritto ambientale vede la compresenza, non priva di elementi di frizione, di molteplici pretese. Accanto al proclamato interesse collettivo si muovo i diritti del proprietario. I diritti alla salute e altri diritti che riguardano la collettività urtano con le esigenze del privato e riescono a ottenere una laconica formulazione circa il ragionevole costo per eventi lesivi. La protezione privatistica di un bene suscettibile di appropriazione prevale sulla copertura pubblica del bene tutelato. Al pubblico tocca solo il governo del rischio attraverso un inseguimento disperato delle traiettorie dell’impresa irresponsabile. Alla sfera politica è riconosciuto un ruolo solo retroattivo a salvaguardia della salute, della ecologia. La norma che ripiana il problema viene solo dopo che il rischio, che non è stato prevenuto con successo, è esploso in maniera incontrollabile. Per questa difficoltà di una pubblica regolazione, la stessa impresa tenta di giocare in anticipo scommettendo sulla qualità ambientale come opportunità economica che rende appetibile lo scambio remunerativo tra un investimento improduttivo e un probabile ricavo. Per l’impresa l’adozione di strategie produttive sensibili dinanzi alla tutela dell’ambiente si rivela un incentivo da far fruttare sul mercato e comunque un utile investimento sul piano dell’immagine. La tutela di un qualche interesse generale viene incorporata dagli operatori economici e rientra tra le misure che incrementano le aspettative di guadagno. Si fa profitto dello stesso interesse generale. La protezione di un interesse pubblico non è assicurata perché si tratta di un bene assoluto ma solo perché all’impresa dopo tutto conviene una copertura ambientale perché se colorata di verde la merce si vende più agevolmente sul mercato. La supplenza dei privati che non aspettano la legge ma anticipano il legislatore si rivela un investimento economico redditizio. Su molti ambiti in cui è evidente un vuoto politico e legislativo si definisce un vero e proprio autogoverno proprietario del territorio che allestisce rapidamente statuti dei consorzi, fissa vincoli ambientali per le proprietà immobiliari [14]. Le incertezze della politica nel governare i nuovi spazi incentiva l’impresa a definire i tratti di un lucroso autogoverno del rischio. C’è una parziale correzione rispetto al conclamato fallimento del mercato nel rapporto con le esternalità, l’inquinamento. Per l’impresa tradizionale più attenzione alla salute significa osti aggiuntivi e quindi meno profitto immediato. “Le leggi che impongono alle imprese di contenere l’inquinamento fanno aumentare il costo di produzione dei beni e servizi; a causa dei costi più elevati le imprese realizzano profitti minori, o pagano salari più bassi, o aumentano i prezzi’’ [15]. Ora l’impresa fa dell’adozione spontanea e anticipatrice di clausole di tutela ambientale e paesaggistica un motivo di competitività e di incremento delle aspettative di profitto. In materia ambientale e urbanistica sono sempre di più le autonormazioni escogitate dagli esperti delle imprese a surrogare la regola pubblica e a fissare limiti e obblighi all’edificabilità. Senza attendere un intervento della legge che fissa misure impeditive o delle autorità locali, l’impresa trova conveniente anticipare le regole amministrative e dotarsi di un raffinato sistema di impatto ambientale. Tutto è sottoposto alle esigenti logiche del profitto, anche il riciclaggio di un bene economico come i rifiuti e la gestione integrata dei prodotti più rischiosi. Si realizza un incrocio pericoloso che vede affluire un pubblico in ripiego che deregolamenta e ricorre a negoziazioni in luogo di imposizioni vincolistiche e un privato in salita che adotta strategie autonormative.
Nel complesso, il rapporto tra pretese della proprietà e tutela del bene vede il proliferare di impegnative ma alquanto generiche istanze di diritto all’ambiente inteso come un interesse non privato ma metaindividuale che riguarda l’umanità e le generazioni future. Sul piano dei principi accolti dalla comunità internazionale è evidente una frizione tra i solenni proclami allo sviluppo sostenibile e le esortazioni frequenti alle ragioni della competitività. Mentre si riconosce lo spessore corposo di un problema ecologico inquadrato nelle sue dimensioni internazionali (si moltiplicano convenzioni, dichiarazioni sullo sviluppo, sul gas, sulla deforestazione, sulle emissioni di anidride carbonica, sulla riduzione degrado ambientale), le clausole varate dagli organismi sopranazionali assumono la concorrenza quale criterio fondamentale e le politiche liberiste come il segreto dello sviluppo. Accanto a documenti vincolanti, come quello di Rio, una vera e propria “magna Charta del XXI secolo” [16] che afferma una visione solidale e comunitaria dell’ambiente, si rintracciano strategie che della competizione e della concorrenza fanno un credo intangibile. Per questo oltre che per la vaghezza dell’impianto generale riguardante i principi guida, che non si proietta al di là di un aleatorio obbligo dello Stato a notificare i rischi ambientali, lo sforzo di definire un diritto allo sviluppo sostenibile risalta per la cronica gracilità del supporto sanzionatorio. Accanto a norme di principio dal contenuto esortativo, nascono profili incerti di sanzionabilità. Con un sistema di regole e risoluzioni sprovviste di sanzioni efficaci, oltre quelle commerciali paventate, il danno ambientale che colpisce un bene collettivo che scavalca l’ambito esclusivo dello Stato non trova efficace misure di contenimento. Se l’accresciuta sensibilità ambientale sostiene la proliferazione di carte, di codici, la debolezza degli organismi pubblici a capacità sanzionatorio rende incerto il quadro normativo della valutazione dell’impatto ambientale. Anche in questo ambito sfuma la presenza pubblica vincolante soppiantata da tribunali arbitrali e da vere e proprie transazioni tra le imprese e gli organi di potestà normativa che gestiscono un bene unitario come l’ambiente attraverso competenze diversificate nel territorio. La rinuncia a un quadro normativo vincolante che attribuisca stringenti responsabilità civili in rapporto al danno è evidente nella diffusione di incentivi premiali a favore di imprese che rispettano le soglie minime di qualità ambientale. Matura così una situazione giuridica assai fluida entro cui ampio spazio è occupato da una legislazione negoziata tra imprese e istituzioni che prevede regimi fiscali premiali in cambio del rispetto di un livello minimo di soglie di sicurezza e di qualità. Sulle emissioni, sulle esternalità cresce di fatto una compravendita del diritto di inquinare proprio in virtù della precisazione di differenti regimi tributari per le imprese che adottano criteri ispirati a sensibilità ecologica oppure rifiutano pagando una qualche penalizzazione economica. Non essendo previsto altro che misure fiscali compensative rapportate alla riduzione delle emissioni nocive, per le imprese riottose è consentito ricorrere a illeciti non dovendo temere altro che un costo economico aggiuntivo [17]. Poiché il denaro sostituisce la sanzione, per le imprese esiste una sorta di diritto ad inquinare in cambio di denaro perso rinunciando agli incentivi premiali. Quando la semplice differenziazione dei regimi fiscali è chiamata a reprimere i danni, è evidente che il bene (salute, ambiente) è suscettibile di un trattamento economico che lo depotenzia. I diritti in tal modo entrano nel calcolo economico dei costi e dei benefici.
Anche il problema del diritto ambientale rivela l’assenza di strutture sovraordinate di decisione per la tutela di diritti essenziali. La neutralizzazione del pubblico è uno degli effetti della inversione di marcia della tarda modernità che privatizza il ruolo pubblico e conferisce spessore pubblico regolativo al privato. Si assiste ad una sorta di abbandono della costituzione e dei propositi di allestire una cittadinanza inclusiva per ritornare tra le braccia del codice interessato soltanto all’infinita capacità normativa dei soggetti che contrattano. Con l’autonormazione raggiunta dai soggetti privati viene soppiantata l’etero- regolazione affidata allo spazio pubblico. Si delinea una integrale privatizzazione del sociale con la evaporazione degli altri, dell’ambito pubblico, dei diritti della persona. Le politiche di privatizzazione con i suoi miti (costi inferiori per il consumatore, efficienza, rendimento legato alla concorrenza) scandiscono le tappe di questo ritorno del privato sulla sedia del comando. Non si tratta della spontanea genesi di una economia senza diritto ma della fioritura di una “vegetazione tropicale” [18] capace di costruire nuove forme di diritto ovunque sorgano interessi e rapporti economico-sociali nuovi. Il calcolo economico con le sue capacità espansive inghiotte lo spazio giuridico come un suo momento subordinato. Non si ha dunque un’economia senza politica, ma un’economia che fa della norma giuridica una sua variabile interna. Dallo Stato regolatore del mercato si passa al mercato delle regole. Dietro questa radicale metamorfosi c’è una decisione politica fondamentale. Politica è infatti la decisione di affidare al mercato mondiale ampie sfere di competenza (definendo misure per la protezione degli investimenti stranieri nei paesi in via di sviluppo, indennizzi per risarcire dalle eventuali politiche di nazionalizzazione, prestiti garantiti e coperture assicurative) e di introdurre lo statuto di nazione favorita per incrementare il regime degli scambi. Agli investitori che hanno aspettative di guadagno viene assicurata il pronto intervento di sentenze arbitrali e di accordi di compensazione globale. Al centro di ogni preoccupazione irrompe il valore prioritario della stabilità dei cambi e dell’equilibrio finanziario internazionale. Alla grande mobilità del capitale privato interessa come obiettivo immediato la garanzia della sicurezza nelle transazioni e quindi la presenza di un nuovo ordine di mercato in grado di conferire certezza agli investitori e adeguate protezioni assicurative dinanzi alle possibili fluttuazioni ed evenienze impreviste. Il mondo giuridico si congeda dal normativismo di Kelsen, e dal connotato istitutivo-fondativo della norma che rende il mercato un luogo artificiale, per scoprire Leoni, Mises e la dottrina della autofondazione del mercato capace di esprimere un diritto uniforme spontaneo e non più di origine statale. Non è più la norma positiva astratta e generale a istituire il rapporto tra i soggetti ma è la sfera economica stessa a definire il suo rivestimento legale predisponendo i tasselli di un ordinamento senza coercizione statale. Si procede così oltre lo Stato ma non oltre il diritto, che muta però tratti e caratteri formali. Da un diritto privato di forte impronta statale si passa alla rilevanza della opinio juris, alla accettazione della ratio decidendi di un diritto a esplicita connotazione tecnocratica [19] .
Nelle nuove fonti del diritto è visibile un rapido passaggio dalle regole dello Stato alle regole fissate da una pluralità di agenzie che al posto della positività della norma sanzionabile esaltano i contrassegni della buona fede, della correttezza, dell’equità. Il sistema economico sconfinato dei tempi attuali non è privo di una cornice giuridica, è sguarnito di un diritto positivo di provenienza statale. Al di là del vuoto lasciato dal monopolio statale del diritto, si rintraccia una competizione aperta di ordinamenti giuridici di provenienza non statale che si offrono al mercato sulla base di una invidiabile sapienza tecnica e procedurale. La legittimazione della norma non proviene più dal suo essere emanata da un potere pubblico sorretto dal libero consenso ma dalla sua natura di regola suggerita non per perseguire finalità pubbliche ma per supportare con sapienza le transazioni disseminate ovunque. Questa sostituzione del diritto univoco dello Stato con una regola ad elevata flessibilità consente agli operatori economici di prescegliere per le loro attività i canoni ritenuti più vantaggiosi. Non esiste pertanto un vuoto giuridico per cui la sfida sarebbe quella di dare regole al mercato, come se davvero il mercato si trovasse del tutto sguarnito di procedure utilizzabili. Si rintraccia piuttosto come contrassegno dei tempi una costruzione per via non pubblica e non statale di schemi normativi uniformi che scavalcano le differenze di luogo e si propongono di essere raccolti con estrema velocità e flessibilità dagli agenti del mercato. Non è il mercato ad essere privo di regole, sono semmai le regole escogitate da agenzie competenti a rischiare di trovarsi fuori mercato se non vengono prontamente recepite e applicate nelle effettive dinamiche degli scambi dalle agenzie del mercato. Non trova più alcuna resistenza la supposizione che i rapporti di mercato e il diritto privato siano solo una faccenda che riguarda i soggetti privati coinvolti nei contratti e alcuna visibile ricaduta possiedano nel campo delle relazioni sociali più ampie. Essendo il regno del privato il mondo degli interessi particolari che negoziano non è pensabile un freno rappresentato dalla presenza di un organo pubblico che valuta uno spettro di interessi più eterogenei. Il proliferare di sistemi privati di produzione di norma tramite agenzie specializzate occulta il dato essenziale che “il diritto privato, in specie quello concernente proprietà, responsabilità civile e contratti svolga anche importanti funzioni distributive e di supporto alla costruzione del legame sociale” [20]. Nella tarda modernità il diritto privato elaborato da specialisti internazionali si configura come mondo autoreferenziale che espelle ogni considerazione in merito alle ricadute pubbliche e alle implicazioni sociali delle scelte di mercato. Si avverte così il concreto rischio di estendere con le pratiche di autoregolamentazione una inopinata validità generale a relazioni private ristrette create senza alcun riferimento a complessi equilibri di carattere pubblico e costituzionale. Con la perdita di centralità della legge come regola unitaria degli atti soggettivi, i rapporti sociali vengono dispersi nel vasto pluralismo delle fonti che introduce pratiche di decentramento, elabora fonti sostitutive, scrive codici deontologici, definisce sistemi di moral suasion. Tutto il sistema delle transazioni si svolge al riparo da connettori pubblici e sono consentite solo deboli procedure informali di creazione di regole condivise dai portatori di interesse. I nuovi apologeti del mercato enfatizzano il farsi dal basso dell’ordinamento giuridico attraverso le disperse operazioni dello scambio e del libero movimento delle pretese soggettive che mettono in funzione clausole contrattuali adeguate. Con la nascita spontanea di un ordine economico autoregolato, decadono le istituzioni del consenso e il diritto assume le fragile vestiti di una procedura legittimante in virtù della mera provenienza da organi tecnici di produzione di schemi giuridici utilizzabili. Sul piano linguistico è ben visibile questa completa identificazione di diritto ed economia se è vero che l’adozione di lemmi tecnico-economici contagia la produzione di regole che esulano dallo specifico giuridico per adottare locuzioni provenienti dalle relazioni economiche [21].
Il diritto produce solo schemi che valgono in virtù della competenza che racchiudono e il mondo dei fini viene del tutto estromesso come irrilevante. Il sistema giuridico d’impianto privatistico rende piuttosto sfumato il confine tra l’interesse economico e la forma giuridica. Il mito del contratto come autonoma creazione di dipendenza sottratta alle forze della eterocostrizione statale, produce nuovi meccanismi unici che rendono indistinguibile la linea di confine che passa tra diritto ed economia. Il contratto, da simbolo della autonomia delle parti nella composizione di particolari interessi, diventa l’unica legge disponibile in uno spazio che non assicura più la vigenza della norma oggettiva imposta dallo Stato. La spontaneità dell’ordine economico di cui si parla nel descrivere l’autonormazione dei soggetti privati trascura però che dietro il ricorso alla forma del contratto sottratto al controllo pubblico tratteggiata da agenzie legali esiste una precisa decisione politica, quella di non coprire con regole pubbliche i traffici dell’economia globale. C’è molta politica nel decidere la ritirata strategica della regola pubblica. La non decisione in merito alle traiettorie spontanee del mercato è pur sempre una decisione dai profondi risvolti politici. Non è affatto neutrale la non decisione riguardo le nuove frontiere dell’economico, ma è l’affermazione di interessi che si reputano tutelati meglio da un mercato che autoregola gli arcani meccanismi proprietari. La sostituzione della grande macchina statale, che emana norme generali, con la microdecisione affidata a un collegio arbitrale, composto da operatori privati, è reclamata dai mercati perché consente una elevata rapidità dei contratti. Si definisce un diritto a gestione privata diretta e quindi ad intensa velocità applicativa ma caratterizzato anche dagli altissimi costi e dunque da un contrassegno classista che lo rende territorio riservato solo alle potenze del mercato. Il contratto supera le asperità spaziali che intralciano il politico e dipingono il momento statuale come mero organo di una gestione ormai residuale. In questo consiste lo smarrimento del rapporto tra la norma e il luogo, tra il diritto e lo spazio [22]. Il luogo del diritto non è più quello fisso coperto dagli organi della sovranità statale ma è quello mobile definito dall’economia. Il codice prodotto dall’ingegneria giuridica dello Stato moderno limita ormai il suo supporto normativo solo al livello marginale delle microtransazioni. Per le macro operazioni, gli operatori invece preferiscono fuoriuscire dall’ambito normativo di pertinenza statale e, al posto della legge, fanno ampio ricorso alla produzione autonoma di norme. Al codice statico viene preferito un diritto leggero con tecniche contrattuali snelle che obbediscono in maniera encomiabile ai canoni della velocità e adattabilità ad ogni esigenza immediata. Dal dominio della legge astratta e generale codificata, per sistemare i rapporti di credito, i contratti a distanza si entra alla signoria della regala juris valida benché si estenda senza alcuna copertura legislativa. Il privato legislatore è la nuova figura giuridica della tarda modernità che accantona il momento statuale e ricorre alle forme della produzione privata di norme private per il commercio internazionale. 1 codici deontologici e gli statuti scritti dagli stessi operatori di mercato sostituiscono la regola pubblica e la finalità collettiva scompare dall’orizzonte della politica. Si moltiplicano così le autorità indipendenti che esaltano l’idea della libera concorrenza e affidano a organi tecnici la definizione dei problemi spinosi sottratti alla decisione pubblica. Sembra esaurito il tempo del diritto che si pone, e si inaugura il tempo del diritto che si dichiara, si interpreta e si scambia con le procedure dell’acquisto. Lo scambio da pratica economica diventa consuetudine giuridica. Il diritto diventa merce da immettere nel mercato. La funzione positiva del diritto, la sua capacità conformatrice rispetto al fatto, evapora dinanzi alla regola scoperta dal privato che legifera sui suoi interessi immediati. Svaniscono i lineamenti di un diritto posto anche per imporre fini pubblici di lungo periodo e si afferma l’incerto connotato di un diritto inteso come mera procedura affidata a organi neutri sottratti alla legittimazione pubblica. Il consenso non riguarda più gli obiettivi ma solo la procedura, le clausole che i contraenti ritengono tra loro obbliganti valgono in virtù di una procedura. Il diritto diventa il sostituto di una mancanza strutturale di consenso. Dalla costituzione come principio valoriale si transita verso il codice con il precetto aureo della autonormatività dei privati e dal codice si sprofonda direttamente al contratto e alle molteplici “forme di self regulation di imprese, società e mercati” [23].
La privatizzazione della funzione giuridica caratterizza una fase che vede il mercato impegnato nelle sue tipiche ondate di destrutturazione delle vecchie regole e di ristrutturazione dei nuovi canoni regolativi più convenienti. La differenza rispetto alle formule tradizionali, è che ora “la vegetazione tropicale” vede il privato legislatore in una funzione cruciale nella formazione di schemi contrattuali efficaci quanto la norma e il pubblico in una posizione residuale. Il mercato è in grado di prescegliere sistemi legislativi favorevoli e creare norme ad hoc per organizzare materie economiche in forte espansione. Il pubblico, negli orizzonti del mercato, ricompare solo come agenzia sanzionatoria di un diritto creato dal privato e che dispone anche di pene contrattuali private. Le nuove fonti del diritto segnano una crisi del positivismo giuridico. I giudici pubblici decidono sulla base di clausole private e di lodi arbitrali emanate da un mediatore che non ha più le sembianze del pubblico potere ma quelle del tecnico affidabile e scaltro. Gli accordi contrattuali vedono la parte più forte imporre le proprie aspettative con la precisazione di una tipologia contrattuale prevalente. Il pubblico è un attore assente perché i principi invocati nei negozi non oltrepassano quelli connessi alla buona fede e quindi è dentro il contratto e non fuori il contratto che si definiscono in maniera esaustiva tutti i termini della relazione giuridica. Si costruisce così per vie convenzionali un diritto che si confonde irreparabilmente con l’interesse. Esso vincola non tanto per il legame con il codice ma per l’avallo ricevuto dalla a giurisprudenza, non per il rimando a una decisione legittima ma a una autorevole interpretazione. Per questo il linguaggio del giurista, che definisce clausole e chiarisce meccanismi oscuri, diventa un momento cruciale della produzione della ricchezza. Il contratto, definito secondo parametri linguistici particolari, la funzione ermeneutica dei grandi studi legali, sono un anello essenziale nell’attuale forma di creazione del denaro [24]. L’uscita dal dominio della norma-comando e l’approdo al governo dello schema variabile sorregge l’investimento colossale dell’economia di affidare la certezza della norma non alla lex pubblica ma al semplice accordo tra le parti secondo schemi predefiniti. Dietro l’ideologia del mercato come istituzione spontanea, si nasconde anche questo fenomeno che affida la genesi delle forme alle autonome leve di accordi particolari che si affermano senza il passaggio attraverso uno spazio pubblico che ordina. L’impresa che intrepida si proietta oltre le regole statali interne ha bisogno di strumenti di rassicurazione e di ridimensionamento dell’incertezza. Per questo cerca regole più flessibili in grado di accompagnarla al di là dei confini senza correre rischi. L’impresa non soltanto può scegliere l’ordinamento più conveniente dove operare, il paese più veloce nelle autorizzazioni, il sistema fiscale e contributivo meno oneroso. Ha tra le sue possibilità inedite anche quella di creare un proprio diritto che supera le incrostazioni e le porosità de) sistema giuridico d’impronta statale. La nuova produzione legislativa in progress alla quale il mercato si affida non è solo il frutto della redazione autonoma degli agenti del mercante ma vede la compartecipazione di attori plurali (organizzazioni mondiali del commercio, giudici comunitari, avvocati) [25]. Per un verso nelle strategie delle imprese è visibile una indifferenza al luogo, per un altro il luogo può essere scelto a preferenza dal sistema economico. Le differenziazioni etico-culturali ostacolano il cammino degli scambi e per questo vengono oltrepassate da norme senza confine, i vantaggi offerti dal luogo vengono invece ricercati attraverso l’esplosione di una competizione al ribasso tra i territori per attirare maggiori investimenti.
Accanto a movimenti disordinati di un capitale senza fissa dimora, si registrano legami nuovi che le imprese intrattengono con la dimensione territoriale per definire i tratti di veri e propri sistemi produttivi locali. La net economy che travalica gli spazi poi integra saperi, esprime connessioni, reti di prossimità. Nasce in questo modo una sorta di “geocomunità” che sostiene un proteiforme capitalismo molecolare (P. Bonomi) che opera con profitto entro le condizioni di una crescente differenziazione territoriale e sociale. Proprio le differenziazioni marcate smettono di essere dei vantaggi competitivi per tramutarsi in pesanti ostacoli. Al sud si concentra il 25 per cento della disoccupazione, il 60 per cento di quella giovanile. Nel centro nord il 12 dell’occupazione è irregolare, al sud il 50 per cento della produzione è coperta dal sommerso. I modelli territoriali di sviluppo che presentano isole ad elevata specializzazione producono forti squilibri territoriali e una assai intensa precarizzazione. La cosiddetta economia della conoscenza, nelle sue offerte di occupazione chiede lavoro solo al 7,3 per cento dei laureati. Non richiede la conoscenza dell’inglese, dell’informatica, non vuole formazione. La professione più richiesta nelle offerte di lavoro è quella di commesso. Non si richiedono figure direttive, tecnici. Non ha molto mercato il titolo di studio proprio nella società della conoscenza. La domanda di capitale umano qualificato resta bassa perché, ossessionate dalle tutele e dal costo del lavoro, le piccole imprese chiedono profili professionali scadenti e a basso contenuto formativo. Il costo del lavoro è il problema di una struttura produttiva incardinata sulle piccole imprese che non investono in innovazioni di processo e di prodotto e reclamano solo meno tasse e minori tutele sindacali. Ossessionate dalla riduzione del costo del lavoro, quelle italiane sono imprese poco competitive che non sopravvivono a lungo e che non accennano ad aumentare sotto il profilo quantitativo. L’impresa esige solo flessibilità funzionale, precarietà salariale. In queste condizioni, assai difficoltoso si rivela l’impegno a far rientrare nel circuito produttivo chi ha bassa qualifica e viene espulso dalle ristrutturazioni. Il sistema produce un vero corto circuito che esclude e crea disperazione. Per un verso reclama l’innalzamento dell’età pensionabile, per un altro esige flessibilità, libertà di licenziamento e difficoltà di reingresso per le persone marginali. La flessibilità si rivela una pratica contraddittoria perché “priva il lavoro stesso di quella agilità e di quella versatilità che lo si esorta ad acquisire” [26].1 rischi che vengono prodotti dalle dinamiche dell’economia appaiono come meri fenomeni individuali che reclamano strategie soggettive di difesa. Il lavoro smarrisce una dimensione collettiva e ognuno deve confidare solo sul suo valore di mercato e diventare imprenditore di se stesso cercando da sé una formazione, procurandosi una qualche assicurazione e un qualche sistema previdenziale. Come si esprime Beck, nell’età del completo prosciugamento dei beni pubblici, sono disponibili solo delle accorte soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche insormontabili. Questa fase di un mercato sciolto da finalità pubbliche ha prodotto generazioni perdute che in mancanza di azione collettiva trovano rifugio nel disagio, nel silenzio, nel gesto. La condizione solitaria è la tipica manifestazione del soggetto che in preda all’angoscia e all’incertezza non confida sull’azione collettiva e sul governo pubblico dei disagi. Le risposte ai disagi sono soltanto individuali, quindi delle non risposte che non producono potenza sociale. È diverso il modo di essere flessibili e di rispondere al mondo totalmente individualizzato. Il corpo che lavora e vive una prospettiva precaria ha nella società degli individui ben altre possibilità di risposta alle sfide rispetto al top manager o ai campioni del l’individualismo proprietario. Per chi è collocato ai vertici della piramide sociale, il trionfo dell’individualismo significa un accresciuto senso della potenza sociale (proprietà, lusso), per chi è situato nei luoghi periferici, l’individualismo è solo precarietà, disagio, insicurezza, fragilità. Due opposte strutture della personalità, direbbe Elias accompagnano la società degli individui. La flessibilità per i potenti accresce il senso del dominio, per i subalterni è la strada sicura per una ulteriore perdita di status.
Il liberale non va oltre una politica dei rimedi, ossia al di là di un intervento caritatevole che solo ex post provvede a dare soccorso paternalista a chi è rimasto spiazzato dall’elevata velocità del mercato. La condizione solitaria per il potente significa cura del corpo, attenzione maniacale all’estetica che fa del “corpo una roccia solitaria tra le sabbie mobili” e assillata dai pericoli derivanti dagli ogm, dal fumo passivo, dalle esposizioni (Bauman). Per il corpo che lavora la solitudine è disperazione e i media diffondono la raffigurazione del moderno come età della banalità della violenza proprio per concentrare le deboli risorse cognitive dal conflitto sociale alla paura identitaria. Non l’agire collettivo è il rimedio al disagio, ma il vigilante, il poliziotto di quartiere o, se occorre, il prete. Al posto di riforme inclusive che affrontano i nodi della vita sociale, la narrazione postmoderna crea il bisogno di sicurezza dalla violenza quotidiana. Le narrazioni dei media, imbottite con episodi di violenza gratuita, condiscono l’immaginario di un’epoca che ha bisogno di pene, di repressione, non di diritti e di inclusione sociale. Le differenze sociali non producono agire collettivo ma paura di una violenza prodotta da immigrati. La società si polarizza tra due estremi entrambi ingovernabili: il ricco deviante protagonista rampante della gangster economy e del conflitto di interesse strisciante e il povero spaesato deviante senza tutele e dignità pubblica. Il panorama delle democrazia è tutt’altro rispetto al demoniaco livellamento delle condizioni paventato da Tocqueville. La società della conoscenza che chiede Know-how produce anche una inesauribile domanda di McDonald, oltre a tecnici e ad autostrade informati che richiede commessi e funzioni precarie degradanti. Per il lavoro comincia sicuramente una parabola discendente sotto il profilo delle tutele previdenziali e normative. Aumenta il costo del lavoro ma il salario è bloccato a livelli molto più bassi che in passato. Non mancano contratti che aumentano il tempo di lavoro e riducono il salario. La solitudine del telelavoro, la precarietà del cali center, le manifestazioni ricorrenti di lavoro usa e getta, le pratiche di lavoro in affitto e parasubordinato, i salari d’ingresso con inquadramento a livelli inferiori rientrano tra le forme nuove di assoggettamento del lavoro al capitale. Per il lavoratore risulta del tutto smentita la rosea previsione di Keynes che scommetteva sull’abbassamento del tempo di lavoro a sole 15 ore settimanali entro il 2030. Si entra in realtà nella fase del lavoro totale che con fax, internet, telefonini rende il soggetto sempre presente e disponibile [27]. Il corpo lavora di più rispetto al passato e riceve meno salario rispetto a qualche decennio fa. Il ritorno al contratto (si può anche affittare lavoro) coincide con una perdita inarrestabile di diritti e alla scomposizione per via normativa dell’universo del lavoro. Con l’immaginazione giuridica si inventano figure che sprigionano effetti paradossali. “In molte zone dell’economia sta diventando difficile persino determinare chi è il datore di lavoro e chi il dipendente” [28]. L’impresa va oltre la raffigurazione prevista nel codice che parla di una comunità e di un capo che dirige tutte le funzioni. L’impresa diventa un sistema complesso con una strategia organizzativa affinata che prevede riunioni, mosse concordate, coordinamento sofisticato di un composito gruppo di affiliate. L’unità dei governo d’impresa non più affidata al ruolo di un capo fisico, ma prevede il ricorso ad una centrale di comando funzionale che grazie ad una elevata selettività controlla imprese satelliti, affiliate, dirige persone, cose, servizi.
La scomposizione del lavoro e la dispersione dei luoghi fisici della produzione si accompagnano a processi di imponente concentrazione finanziaria che concedono ancora maggiore potere alla grande impresa specializzata nelle operazioni di comando e pianificazione e per questo facilmente adattabile al mutamento e alle sfide esterne. L’impresa è un meccanismo organizzativo complesso operante entro un sistema di imprese che esprime un centro specializzato alla programmazione del prodotto e alle operazioni di comando e si articola poi in una serie di subaziende con mansioni specifiche e settoriali richieste da una produzione sempre più elastica. Dal soggetto proprietario che si identifica con la sua azienda si passa al sistema dotato di anonime reti di connessioni tra un centro e una periferia di tante piccole imprese che producono solo singoli componenti destinati ad essere assemblate altrove. In questa configurazione astratta dell’impresa non trova più spazio l’idea del profitto come legittima remunerazione per l’investimento produttivo o per la funzione dirigente esercitata dal capitale. L’ideologia della proprietà come inveramene del soggetto non trova alcuna giustificazione per via delle dimensioni internazionali delle imprese, per il carattere funzionalistico delle interazioni che inglobano flussi comunicativi per aderire a domande nuove. Anche la tesi secondo cui solo il coinvolgimento diretto di un proprietario assicura maggiori parametri di efficienza, non regge perché l’occhio del padrone non raggiunge l’impresa delocalizzata che svolge compiti particolari oltre il modello della produzione in serie. Entro l’impresa scema la rilevanza delle banche come principale agenzia di finanziamento e si diffonde il ruolo dell’azionista e della borsa con il conseguente maggior peso della aterritorialità del potere degli investitori [29]. L’impresa organizza prestazioni differenziate per la gestione di risorse, per la selezione del personale, per la ricerca, per lo scambio, per la pianificazione degli obiettivi, per la contabilità, per il supporto alla clientela, per la comunicazione, per la finanza, per le funzioni operative, per le tecniche contrattuali, per gli immobili, per le componenti fisiche e non fisiche, per la tecnologia. Tramonta, con queste modificazioni strutturali, il mito di una proprietà legittimata nel so ruolo direttivo dalla destinazione di una parte rilevante del profitto al reinvestimento produttivo e non alla divisione degli utili. Sfuma anche l’immagine del capitalista come funzionario del capitale che svolge una mansione produttiva governando i processi con la sua capacità di anticipare le traiettorie della domanda. Sul piano del diritto, l’impresa supera le ascendenze romanistiche del diritto di società (intesa come contratto per l’esercizio comune di una attività economica che crea obbligazioni solo tra gli stipulanti) ed esalta il ruolo decisionale di una ristretta cerchia di competenti i quali gestiscono i flussi del risparmio altrui e lucrano gli interessi finanziari legati alla plusvalenza delle azioni secondo anonime esigenze funzionalistiche. “La grande impresa azionaria ignora la contiguità tra esseri umani, conosce solo la distanza delle gerarchie e quindi la tentazione all’abuso è sempre dietro l’angolo” [30]. Il diritto dell’impresa è sciolto nel mare tempestoso del diritto del mercato finanziario.
Le imprese si configurano come una sorta di sistema politico con gerarchie, rapporti di comando. Dahl parla di un dispotismo assoluto nelle mani della proprietà. Irti invoca una metamorfosi del problema classico della libertà che non può limitarsi alla celebrazione della libertà dallo Stato ma deve esprimere libertà inedite sfere di libertà dall’impresa. L’impresa non responsabile, la chiama Reich [31], è un meccanismo di potere incontrollabile nel quale le azioni si dissociano dalla produzione. La proprietà costruisce reti protettive invalicabili. Il mercato dei diritti di proprietà è pressoché congelato. Le imprese non intendono aumentare le loro dimensione o esporsi alla concorrenza perché temono di esporsi a pericoli incontrollabili, come quello di perdere il controllo del potere. Il capitalismo è protetto in larga misura dal capitale pubblico che scongiura scalate ostili e assicura la custodia proprietaria. L’impresa è l’attore dominante in un mondo che si configura come il teatro che ospita un solo grande mercato nel quale il nuovo destino degli Stati è solo quello di regola statale è però ritenuta impellente anche dal mondo degli affari. È certo difficile per le istituzioni politiche governare il ciclo economico, concertare misure per l’occupazione se le imprese possono spostarsi all’estero alla ricerca dei territori più convenienti. La prevedibile risposta negativa dei mercati a politiche statali forti scongiura ogni pretesa del governo di oltrepassare i dislivelli normativi presenti nello spazio giuridico. Ma nel cyberspazio della modernità liquida lo Stato non può limitarsi a diventare un gentile corteggiatore del mercato attraverso incentivi fiscali. Gravi disagi sorgono se la funzione del pubblico è solo quella di operare come “un commissariato locale di polizia” (Bauman). I flussi di informazione, gli scambi elettronici, la simultaneità delle azioni, l’oltrepassamento dello spazio dei luoghi con lo spazio dei flussi alimentano nuovi miti e Soros [32] parla di un fondamentalismo del mercato “ingenuo e illogico” che comporta, se preso alla lettera, esiti distruttivi. Forti gruppi economici dominanti riducono la statualità a ordine e polizia e declinano la politica come mera agenzia tecnica. Al di fuori di ruoli da comprimario, la politica appare solo come fonte di irrazionalità profonda rispetto all’autoreferenzialità dell’economico. Un ritorno a regole minimali è però invocato dinanzi a un pervasivo sistema di frodi, a un endemico meccanismo di inganni reciproci, di elusioni e evasioni fiscali. Si calcola che il lavoro nero produce il 26 per cento del Pii. Dinanzi alle imponenti concentrazioni finanziarie, alle ondate speculative si invocano tecniche di moral suasion non costrittive ma esortative e buoniste [33]. Un ritorno a regole minime viene richiesto perché le lacune nelle coperture giuridiche hanno effetti negativi per il commercio internazionale. Oltre ai paradisi fiscali l’impresa avverte che occorre anche un tempo affidato alla ri-regolazione, e urgente diventa il ritorno ad autorità giuridiche efficienti. “Le imprese commerciali hanno bisogno di quel minimo di certezza e di continuità nell’azione degli amministratori e degli attori economici che è implicita nella norma di legge” [34]. Circolano licenze, flussi finanziari, le imprese multifunzionali accantonano le tradizionali aziende specializzate, i titoli si trasferiscono rapidamente, la compravendita delle imprese è veloce. Lo Stato, entro questo panorama, non può limitarsi a governare un frammento entro l’immenso unico mercato globale. A dispetto della ideologia della deregulation, delle liberalizzazioni e liberismo, proprio negli Stati Uniti cresce a dismisura l’intervento statale nell’economia per sorreggere la corsa gli armamenti e i costi delle guerre infinite ingaggiate dalla potenza indispensabile. Un ritorno del pubblico si impone per ben altre esigenze. Molti autori parlano ormai di demosclerosi, di entropia della democrazia. Senza obiettivi di riregolazione e senza un rinnovato rilievo strategico degli Stati le contraddizioni della società diventano esplosive. Le stesse imprese non possono del tutto confidare in una rassicurante extraterritorialità perché “hanno necessità di provvedimenti nazionali, di natura legale e commerciale, per proteggere i loro investimenti” [35].
Dalla funzione pubblica come utile tecnica di regolazione da molti evocata a gran voce dinanzi a imprese illegali, a comportamenti irritali delle agenzie di controllo e degli investitori istituzionali, occorre passare alla politica come decisione sugli interessi collettivi. Entro certi limiti, l’impresa avverte che non può spingersi più in là nella normazione fai da te e che i codici deontologici non riusciranno per sempre a tenere distante dalla sfera pubblica conflitti sulla destinazione dei beni. Per l’ideologia liberista le leggi sull’equo canone, i vincoli legislativi per un’economia sono “il miglior modo di distruggere una città, se si vuole evitare di bombardarla’’ [36]. Il vincolo di prezzo genera, secondo il credo liberista, una sicura scarsità del bene richiesto nel lungo termine. Ma il superamento dell’equo canone non sembra una panacea se è vero che i beni sono inaccessibili per l’elevato costo del patrimonio immobiliare. Il ritorno del pubblico è una esigenza ineludibile. Nessuna politica economica è possibile quando le imprese tendono più a speculare nei mercati che a investire, più a lucrare rendita e a avviare movimenti speculativi che a perseguire obiettivi di più lungo periodo. Le politiche monetarie e fiscali sono ostaggio dei mercati, dei flussi internazionali di capitali ma un atto di sovranità democratica che restituisca dignità alla nozione di pubblico interesse non è affatto impossibile in linea di principio. Nel passaggio di fase dalla funzionalizzazione dell’impresa alla privatizzazione del sociale si assiste a un’operazione teorica insidiosa in base alla quale ciò che più conta non è la struttura (pubblica o privata dell’ente erogatore) ma la funzione svolta [37]. Su questa base è passata la liceità del finanziamento pubblico alla scuola privata, il lancio della sanità privata. Si suppone che ciò che conta è solo la pluralità delle offerte (formative, sanitarie) e la loro libera concorrenza nell’attirare consumatori o clienti. Nessun rilievo avrebbe la natura pubblica del servizio. Esistono però ambiti in cui la proprietà (privata) cambia la funzione (pubblica) e introduce alterazioni (economiche, etico-religiose, etniche) alla nozione universalistica di cittadinanza che fruisce del diritto (istruzione). In nome della concorrenza si diffondono regimi previdenziali privati e il consumatore senza ulteriori specificazioni soppianta la figura dell’uomo “situato” (Bourdeau). Il diritto del consumatore si esaurisce però in uno scarno diritto all’informazione e in nessun’altra effettiva tutela [38]. Il criterio che avanza spedito è la sostituzione del cittadino e del lavoratore con la mitica figura del consumatore finale che ha diritto a valutare una pluralità di offerte per procacciarsi privatamente il bene richiesto sul mercato. In questa ottica, il pubblico non predispone il servizio e lo gestisce secondo parametri di universalità ma ne controlla soltanto la somministrazione che può vedere coinvolti una molteplicità di soggetti concorrenti. Si crea un terreno ibrido in cui pubbliche sono le risorse ma private sono le agenzie chiamate a gestire il servizio di pubblica utilità. Le agenzie private offrono il servizio a un cittadino degradato a cliente e in cambio definiscono carte dei servizi. Per le direttive dell’Europa non conta se la proprietà sia privata o pubblica, importante è il regime della concorrenza che deve coinvolgere una pluralità di attori. In Italia si è invece affermato un furore ideologico che fa della privatizzazione un passaggio ineliminabile che comporta un profondo riassetto del patrimonio immobiliare pubblico, la vendita di ogni partecipazione pubblica, la privatizzazione delle aziende e del settore bancario. Le imprese pubbliche privatizzate assicurano un grande rendimento alle azioni ma non diminuiscono le tariffe per gli utenti. I profitti non vengono reinvestiti ma utilizzati magari per tentare scalate a giornali. Non sono più consentiti dai trattati europei aiuti pubblici alle imprese che devono convivere con il rischio ma ciò non esclude un ruolo pubblico rilevante. In Francia e in Germania la mano pubblica è presente in maniera strategica anche nel settore automobilistico.
Il bisogno di pubblico affiora nelle forme piuttosto illusorie e ambigue delle autorità indipendenti di regolazione. Con queste figure non si esce però da una idea minima di politica ridotta a tecnica. Il tema che invece non viene sollevato con la necessaria forza è quello di una ridefinizione della democrazia dopo l’avvento delle forme della postpolitica che accompagna un inopinato ritorno a Locke, all’individualismo possessivo in una età di deconsolidamento della democrazia. In questa esausta età di governance without government la chiacchiera tutt’altro che innocente sull’agorà elettronica nasconde la entropia della sfera pubblica. Le costruzioni edificanti sull’agire comunicativo, i discorsi alla Habermas sulla grande etica planetaria sono istanze troppo generiche che spalmano un velo per occultare la erosione della rappresentanza. Mentre proliferano teorie della raggiunta società della trasparenza e del dialogo, si perviene persino alla privatizzazione della responsabilità politico-militare degli Stati mediante l’allestimento di compagnie militari private che gestiscono la guerra come un affare. II nemico pubblico, classica nozione di Alberico Gentile, scompare e la guerra non è più un affare riservato agli Stati. La commercializzazione della sfera pubblica scavalca le già allarmanti proliferazioni di figure del diritto privato. Troppo fragili sono le risposte alla erosione della civitas che fanno appello a invenzioni procedurali (carte dei servizi, contratto per utente, codici deontologici) e non sfiorano da vicino i disagi profondi della tarda modernità. La vittoria del codice del mercato (rendimento quantitativo secondo il parametro dei costi e dei benefici) sul codice della politica (eguaglianza, inclusione) conduce al completo degrado del pubblico. L’homo mercator fa commercio della stessa cittadinanza e il civis perde consistenza. L’homo politicus si inginocchia dinanzi all’individualismo possessivo che con il codice del mercato esalta la dignità della cosa, non della persona. “Il mercato libero è estraneo a ogni affratellamento” ammoniva già Weber. Efficienza, profitto, non solidarietà sono i parametri cari al mercato che è sempre un regno dei mezzi, non dei diritti. Il codice politico prevede bene pubblico, coesione. È impossibile il rilancio del pubblico senza il recupero della centralità del corpo che lavora. Dinanzi alla retorica della globalizzazione e del villaggio della trasparenza globale [39] (che ignora che solo la metà della popolazione mondiale ha la luce elettrica e il telefono. In Africa un telefono ogni 53 persone. Il 57 per cento dei navigatori della rete si concentra in Usa e in Canada) si presentano fughe estetizzanti incantate dalle autostrade informatiche (che dimenticano che nel mondo ci sono 160 milioni di disoccupati; 500 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno) oppure ritiri apocalittici che ricorrono alla nozione di “sottoclasse” e reputano assente qualsiasi soggettività portatrice di una reale alternativa. Tra le fughe estetiche nel postumano e nella radicalità apolitica della cyberdemocrazia si ripresenta una vecchia questione: la soggettività politica lavoro quale rimedio alla follia del capitale.
NOTE
[1] ↑ Consumata la positivizzazione della dignità della persona e dei diritti sociali, si torna alla astratta nozione di soggetto contrattuale e alla “tutela della proprietà, modello riassuntivo dei diritti soggettivi patrimoniali” (G. Piepoli, Dignità e autonomia privata, in “Politica del diritto”, 2003, n. 1, p. 52). il percorso intrapreso con le costituzioni del ‘900 era ben diverso. “Il lavoro, premesso alla proprietà e ai diritti di credito scolpisce un’altra idea che nella legislazione deve trovare espressione: il lavoro fondamento della proprietà e dei diritti fondamentali’’ (N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1979, p. 6).
[2] ↑ N. Gregory Mankiw, Principi di economia, Bologna, 2001, p. 2.
[3] ↑ J. Sloman, Elementi di economia, Bologna, 2001, p. 14.
[4] ↑ Gregory Mankiw, op. cit., p. 67.
[5] ↑ Sloman, op. cit., p. 35. Il prezzo di mercato dovuto alla concorrenza nasconde però che “è evidente che nel mondo reale molte imprese hanno il potere di fissare i prezzi” (ivi, p. 36).
[6] ↑ Sloman, op. cit., p. 33. In questo quadro armonico tuttavia “le attività produttive delle imprese possono avere conseguenze ambientali piuttosto gravi” (ivi, p. 20) e allora è inevitabile un intervento correttivo. Il piano non deve anticipare, il pubblico deve solo curare ex post
[7] ↑ “L’impresa è un sistema di forze economiche operanti in un determinato ambiente” (A. Amaduzzi, L’azienda, Torino, 1978, p. 390). Come sistema l’impresa ha come obiettivo il perseguimento di un equilibrio aziendale capace di connettere salari, profitti. Il rapporto con l’ambiente proietta l’impresa in una condizione di incertezza ed “è a questo futuro ignoto che l’azienda deve affidare i suoi capitali, l’occupazione dei lavoratori, i suoi investimenti, il processo economico di produzione o di consumo” (ivi, p. 507). La pianificazione a lungo termine è essenziale all’azienda per anticipare le incertezze relative al futuro. Gli schemi giuridici sono insufficienti e “la sensazione che le teorie giuridiche manchino di un largo fondamento economico” (ivi, p. 31). Tuttavia anche un’impresa che ricorre a un piano è avvolta in un meccanismo complesso nel quale insurrogabili risultano gli elementi di progettualità politica.
[8] ↑ Nella costituzione viene riconosciuto il principio dell’iniziativa privata ma non sono fecondi “i tentativi di definire una sorta di nucleo essenziale della libertà economica”. Risalta nella carta del ‘48 “l’inesistenza di diritti soggettivi direttamente (cioè senza il tramite della legge) collegabili alla libertà economica” (F. Trimarchi Banfi, Organizzazione economica ed iniziativa privata, in “Politica del diritto”, 1992, n. 2, p. 14). Il rapporto tra codice e costituzione si configura in modo tale che “l’autonomia negoziale non è costituzionalmente tutelata in quanto tale, ma in quanto strumentale rispetto alle puntuali situazioni soggettive” (A. Pace, Eguaglianza e libertà, in “Politica del diritto”, 2001, n. 2, p. 169).
[9] ↑ A. Amaduzzi, / bilanci di esercizio delle imprese, Torino, 1978, p. 1. Occorre recepire “il senso di socialità deU’impresa’’ perché “l’impresa nell’economia contemporanea non è accettata come funzione esclusivamente privatistica” (ivi. p. 23). All’impresa tocca conciliare la logica del profitto e le esigenze della collettività, il rapporto tra i redditi del lavoro e le rendite del capitale. Le teorie aziendali riconoscono che il profilo ha ricadute pubbliche. Soprattutto nelle società per azioni, che contano sull’apporto di capitali di piccoli e medi risparmiatori, emerge “un maggior grado di funzione sociale dell’impresa” (ivi, p. 23). Più problematica sembra essere la teoria dell’impresa come “corpo intermedio tra gli individui e lo Stato” (P. Onida, Economia d’azienda, Torino, 1971, p. 3). Lo stesso autore raffigura in maniera più persuasiva l’azienda come “sistema dinamico nel quale si realizzano in sintesi vitale l’unità nella molteplicità, la permanenza nella mutabilità” (ivi, p. 4). Questa sintesi tuttavia non può cancellare il ruolo esterno dello Stato e la presenza interna di profondi differenziali di potere e di interessi che provocano conflittualità latenti o manifeste.
[10] ↑ Con la legislazione speciale, con le lotte politiche e sociali e con le nuove costituzioni si passa dal soggetto alla cosa e la proprietà non è più “un diritto semplicissimo”, diventa “una situazione complessa in cui affiorano precisi doveri” (P. Grossi, Proprietà e contratto, in M. Fioravanti, a cura di, Lo Stato moderno, Roma-Bari, 2002, p. 133). Nascono obblighi che limitano la libertà d’azione del proprietario e riemerge la nozione di cosa, di destinazione del bene che va ben oltre la proprietà definita come astratta titolarità di un soggetto. Si va oltre la proprietà assunta come estensione etica dell’individuo e si viene a “costruire una nuova proprietà partendo non più dal soggetto ma dalla cosa” (ivi, p. 134). Il passaggio è rilevante poiché “la cosa non è – come il vecchio soggetto di diritto civile – un’entità astratta, ma ha una sua concretezza strutturale che comporta profonde differenziazioni e conseguenti statuti profondamente distinti. Un fondo urbano, un fondo agrario, una foresta, una miniera, una cava, un lago sono strutture che è impensabile regolare unitariamente e sottoporre a un regime unitario di appartenenza” (ivi. p. 134). Viene allontanata una astratta configurazione del bene e si ritagliano norme sulle “concreta diversità fenomenica” del bene in modo da “costruire tante proprietà quante sono gli statuti diversi delle cose” (ivi).
[11] ↑ “È possibile costituire una società in un certo paese, non perché essa operi in quel posto, ma per cogliere specifici vantaggi fiscali o di altro genere. Per cui il diritto non si impone, non è preordinato, ma viene, per così dire, acquistato in base alla convenienza dei singoli operatori economici” (S. Cassese, op. cit., p. 24).
[12] ↑ Sulle competenze locali crescenti in materia urbanistica e ambientale cfr. A. Fiale. Compendio di diritto urbanistico, Napoli, 2004. Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio “supera la concezione statica della tutela come mero divieto di modificazione. come pura conservazione” (P. Carpentieri, op. cit., p. 98). Con la revisione del titolo quinto della costituzione la tutela dell’ambiente fa parte della costituzione. “L’ingresso della parola ambiente nella costituzione avviene nell’ambito del titolo quinto ed attraverso una norma di ripartizione delle competenze, anziché nella prima parte della costituzione con una disposizione a carattere sostanziale'(ivi, p. 136).
[13] ↑ E. Varonini, La politica ambientale comunitaria e la direttiva n. 35 del 2004, in “Rivista”, 2004, nn. 8-9, p. 114, sottolinea che la direttiva “non definisce il diritto ambientale, ma solo il danno, rimanendo pertanto insoluta la questione se un singolo possa agire direttamente nei confronti dello Stato per violazione di un diritto a lui riconosciuto”. Il principio di precauzione senza alcun fondo a carico delle imprese evidenzia “la sfumata natura sanzionatoria di ogni misura di risarcimento che si appiattisce solo prendendo in considerazione i costi dovutI per il ripristino della situazione quo ante” (ivi). Spesso le spese per i danni ambientali delle imprese ricadono sui cittadini attraverso nuove tasse. Il privato risarcisce il danno arrecato con i soldi del pubblico.
[15] ↑ Gregory Mankiw, op. cit., p. 3.
[16] ↑ A. Cassese, Diritto intemazionale, Bologna, 2004.
[17] ↑ F. Santolini, Ecologia, economia, diritto e sviluppo sostenibile, in “Rivista”, 2004, nn. 8-9. Le norme sull’efficienza ambientale sono però sprovviste di effettivi provvedimenti attuativi (G. Caputi, I paradossi della diffusione di un sistema di fiscalità ecologica, in “Rivista “, 2004, nn. 8-9). Il problema giuridico centrale connesso alla tutela è “come conciliare il vincolo – che è conservazione e protezione del bene – con la pressione degli usi antropici (proprietà, iniziativa economica) che conducono al suo consumo. Qui c’è un problema ineludibile di gerarchia di valori giuridici e di regole d’azione (divieti, permessi) limitatrici di libertà” (P. Carpentieri, / beni paesaggistici nel nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio, in “Rivista”, 2004, nn. 8-9, p. 9).
[18] ↑ J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano. 1977. Il tema è sviluppato in M. R. Ferrarese. Le istituzioni della globalizzazione. Bologna, 2000. La globalizzazione è un “passaggio di consegne di sempre maggiori poteri dagli stati ai mercati” (p. 15) che comporta, in un panorama di esplosione dei dialetti giuridici, una significativa americanizzazione delle istituzioni. L’americanizzazione supporta uno stile giuridico pragmatico e strumentale e decreta un declino del positivismo giuridico di stampo continentale. Sullo squilibrio tra politica ed economia che si crea nel contesto delle esperienze senza azione tipiche della globalizzazione cfr. C. Giaccardi-M. Magatti, La globalizzazione non è un destino, Roma-Bari, 2001. Sul raccordo istituzioni-mercato cfr. G. Guarino, Il governo del mondo globale, Firenze, 2000.
[19] ↑ F. Galgano, La globalizzazione nello specchio de! diritto. Bologna, 2006. Con la emersione di “un individuo moltiplicato” che spezza l’unità della persona “l’età dei codici è giunta al suo tramonto” (P. Cappellini, Codici, in M. Fioravanti, a cura di. Lo Stato moderno, Roma-Bari, 2002).
[20] ↑ F. Cataggi, Crisi della statualità, pluralismo e modelli di autoregolamentazione, in “Politica del diritto”, 2001, n. 4, p. 546.
[21] ↑ II linguaggio del diritto “sempre più si popola di parole prelevate dal gergo tecnico-economico del settore: i semilavorati, i prototipi, le attrezzature, gli ordinativi, la destinazione turistico-recettiva, i pacchetti turistici”. Prevale inoltre una scomposizione settoriale che provoca “il moltiplicarsi di asimmetrie, sconnessioni, incoerenze, difetti di coordinamento all’interno del sistema di diritto dei contratti” (E. Roppo, Il contratto e le fonti del diritto, in “Politica del diritto”, 2001, n. 4, p. 537).
[22] ↑ Al diritto civile restano solo “negozi che affondano radici nella terra, scambi della chiusa quotidianità, strumenti dei bisogni particolari. E’ ormai il distacco o l’antitesi tra diritto civile, legge di territori e di luoghi, e diritto commerciale, legge degli spazi economici e dell’anonima ripetitività” (N. Irti, Norme e luoghi. Roma-Bari, 2001, p. 87).
[23] ↑ M. Bessone, Imprese e società, Roma-Bari, 2001, p. 4.
[24] ↑ Sul tema cfr. i lavori di Galgano, op. cit., e di Ferrarese, op. cit.
[26] ↑ Bauman, op. cit., p. 114. U. Beck (Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Roma, 2003) parla di una ‘’brasilianizzazione dell’occidente” che sviluppa precarietà, flessibilità, informalità, insicurezza, marginalità. Il nuovo capitalismo globale con il suo credo neoliberista “è una forma di analfabetismo democratico” (U. Beck, Che cose la globalizzazione, Roma, 1998).
[27] ↑ Dinanzi ad ogni innovazione tecnologica occorre chiedersi: “chi sono coloro a cui la tecnologia conferirà più potere e più li- berta, e chi sono coloro il cui potere e la cui libertà diminuiranno?” (N. Postman, Tecnopoli, Milano, 1993),
[28] ↑ Reich, op. cit. p. 362.
[29] ↑ M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, in “Il Mulino”, 2001, n. 3, p.391 nota che “l’azionariato dei dipendenti consente di rendere compatibile la flessibilità e la sicurezza, di sopportare meglio le variazioni della remunerazione e dell’impiego”. Rendendo tutti azionisti, il capitale addossa parte del rischio ai dipendenti.
[30] ↑ P. Spada, op. cit. p. 13. Con il passaggio dal diritto societario al diritto d’impresa “la collaborazione di una cerchia di uomini dotati di nome e cognome per il conseguimento del profitto è, in questi scenari, fuori della realtà” (ivi, p. 9).
[31] ↑ R. B. Reich, L’infelicità del successo, Roma, 2001. L’era “della grande opportunità” (fine delle distanze, produzione su misura, mobilità, primato delle idee, smobilitazione della burocrazia grazie all’informatica) è anche l’era della irresponsabilità: “le aziende non sono più responsabili verso i dipendenti, le comunità e il pubblico in generale. Considerano loro unico dovere massimizzare il valore delle azioni” (p. 111). Non soltanto i lavori di routine sono sostituibili, ma anche quelli a elevata conoscenza. Negli Usa il 40 per cento dei professori universitari ha un contratto par time. Scende il livello di sindacalizzazione (dal 30 per cento del 1973 si passa al 9,6 per cento del 2000) e diminuiscono le tutele (si lavora più di vent’anni fa, il 40 per cento dei lavoratori Usa lavora più di 50 ore a settimana) e declina il potere d’acquisto (i salari sono inferiori a quelli di vent’anni fa) (ivi). Sulla paura dei soggetti nella nuova economia della comunicazione cfr J. Rifkin, Un nuovo contratto sociale, in P. De Nardis- E. Bevilacqua, a cura di, Le classi in una società senza classi, Roma, 2001.
[32] ↑ G. Soros, La crisi del capitalismo globale, Firenze, 1999, p. 25. Secondo Soros i mercati finanziari sono estremamente fragili ed emergono esigenze sociali “che non possono essere soddisfatte lasciando briglia sciolta alle forze del mercato” (p. 18). Il capitalismo che agevola il declino dei processi decisionali collettivi si configura come una autentica “minaccia per la società aperta”. Il capitalismo di per sé alimenta spinte autodissolutrici ed è “una forma distorta di società aperta”. A chi enfatizza la forza propulsiva della disciplina di mercato entro una società riflessiva Soros rammenta che “imporre la disciplina del mercato significa imporre l’instabilità” (p. 27). Soltanto un nuovo compromesso tra democrazia e mercato può a suo giudizio evitare catastrofi imminenti e scongiurare il declino del pubblico. “Il capitalismo ha bisogno che la democrazia gli faccia da contrappeso” (p. 26).
[33] ↑ V. Roppo, Privatizzazioni e ruolo del pubblico: lo Stato regolatore, in “Politica del diritto”, 1997, n. 4.
[34] ↑ P. Hirst, G. Thompson, La globalizzazione dell’economia, Roma, 1997, p. 253. Nel sistema sociale complesso e pluralista “la certezza del diritto è destinata a divenire più importante e non meno” (ivi, p. 254).
[35] ↑ Hirst, Thompson, op. cit., p. 82. Non si può tuttavia negare che “la politica nazionale sta diventando più simile alla politica municipale: deve solo fornire servizi minori. La tradizionale politica viene così svuotata di ogni energia” (ivi, p. 231). L’obiettivo non può che essere una politica capace di una “regolamentazione economica policentrica”(ivi, p. 158).
[36] ↑ Gregory Mankiw, op. cit., p. 99.
[37] ↑ Nella costituzione è indifferente il carattere privato o pubblico dell’impresa poiché anche l’impresa pubblica “è manifestazione di iniziativa privata quando essa si ponga come operatore economico nel sistema che è regolato dal principio dell’iniziativa privata” (Trimarchi Banfi, op. cit., p. 15). Nella costituzione “la libertà formale di accesso al mercato è considerato come condizione essenziale, sul piano istituzionale, per l’esistenza di un’economia di concorrenza” (ivi). Oltre alla formale libertà di accesso esiste la possibilità del pubblico di tutelare interessi diversi da quelli coperti dal calcolo economico. L’articolo 41 della costituzione “consente e richiede interventi esogeni che influiscono sul calcolo di convenienza dell’operatore economico e, così, contraddicono il principio dell’autoregolazione del mercato” (ivi, p. 15).
[38] ↑ A. Somma, Il diritto dei consumatori è un diritto dell’impresa, in “Politica del diritto”, 1998, n. 4.
[39] ↑ Hirst. Thompson, op. cit., p. 5 avvertono che “per certi aspetti, l’attuale economia internazionale è meno aperta e meno integrate del sistema economico prevalente tra il 1870 e il 1924″. Questa ipotesi è contestata perché “che l’economia mondiale sia stata veramente integrata prima del 1914 è un po’ un’illusione” (B. Sodersten, Economia internazionale, Torino. 1976, p. 2). In questa ottica è già dagli anni ‘60 che si evidenzia un “alto grado di integrazione” deH’economia mondiale che vede sistemi “reciprocamente interdipendenti” (ivi, p. 2). Sull’economia internazionale come pendolo tra mobilità e stabilizzazione cfr R. A. Mundel. Economia internazionale, Torino, 1974.