Via le basi USA/NATO dall’Italia, via le truppe italiane dai teatri di guerra. Contributo alla discussione e alla mobilitazione No War
La Rete dei Comunisti
E’ tempo che non ci si nasconda più dietro un dito e si cominci a mettere a fuoco e contrastare con forza il crescente militarismo bipartizan che sta condizionando la vita politica e democratica così come le scelte economiche e strategiche del nostro paese. L’ultimo vertice della maggioranza di governo, ha blindato la subordinazione dei partiti della sinistra al mantenimento della missione militare in Afghanistan e alla costruzione della base USA di Vicenza. Ma questa è solo la quadratura di un cerchio che si è cominciato a delineare nei mesi scorsi.
Dal momento del suo insediamento il governo Prodi ha inanellato una serie di decisioni e scelte in materia di riarmo e di collocazione internazionale dell’Italia nel gioco della guerra permanente, da lasciare sconcertati e senza parole anche coloro che più erano generosamente disposti ad una apertura di credito verso il nuovo esecutivo.
La Legge Finanziaria che prevede l’accrescimento delle spese militari, l’estendersi della partecipazione alle missioni militari nei teatri di guerra in altri paesi, l’ulteriore militarizzazione del territorio e la crescente collaborazione a scopi bellici delle industrie italiane ed anche dei centri universitari, hanno fatto cadere ogni illusione anche ai più testardi.
E’ solo continuità con il precedente governo Berlusconi o subordinazione agli USA? Oppure è il mantenimento degli impegni con l’alleato americano (seppur con qualche distinguo verbale ogni tanto), ma anche la volontà autonoma – in un quadro multipolare – di ambire politicamente a svolgere un ruolo di piccola/grande potenza, agevolando il complesso militare-industriale-italiano all’interno della competizione globale? Da qui derivano scelte concrete e devastanti alle quali i movimenti e la sinistra di classe devono opporsi con determinazione.
1. Perché chiediamo lo smantellamento delle basi militari USA e NATO?
La scelta del governo Prodi di non opporsi alla costruzione della base USA a Vicenza (non allargamento o ampliamento come erroneamente si dice anche a sinistra) della nuova base militare USA, è una decisione che pone serissimi problemi di democrazia e di collocazione internazionale dell’Italia. La cosiddetta “sinistra radicale” di governo si trova di fronte ad una nuova, gravissima scelta presa dal “nocciolo duro” dell’esecutivo prodiano e obiettivamente non sembra potere né volere costituire un ostacolo e un impedimento a questo nuovo diktat guerrafondaio.
La nuova base militare al Dal Molin infatti sarà una base pienamente operativa e funzionale alla dottrina della guerra preventiva. Collegata alle basi aeree di Aviano e Sigonella e a quella logistica di Camp Darby (senza mai dimenticare che nelle basi di Aviano e Ghedi ci sono decine di testate nucleari), diverrà un trampolino di lancio delle operazioni militari statunitensi contro l’Afghanistan, la Siria, l’Iran, il Libano, la Somalia e il corno d’Africa. Vicenza e la base al Dal Molin diventerebbero così uno dei “santuari” delle aggressioni contro altri popoli.
L’ampiezza del dissenso, della opposizione e della mobilitazione popolare contro la base a Vicenza, è stata tale che l’assenso del governo all’installazione della base al Dal Molin cozza frontalmente con la sovranità popolare. Le frasi di Prodi e D’Alema sul carattere “urbanistico” dell’impatto e delle decisioni sulla base al Dal Molin sono una provocazione contro questa volontà popolare.
E’ tempo che si apra una vasta e radicale battaglia democratica, popolare e antimilitarista contro i vincoli e i trattati internazionali a cui è sottoposto il nostro paese. La “relazione speciale con gli USA” o al fedeltà atlantica nella NATO, non possono più essere dei dogmi indiscutibili per l’Italia del XXI secolo. Il rapporto di servilismo e subalternità agli USA e alla NATO (e la presenza delle loro basi militari nel nostro territorio) vanno rimessi in discussione radicalmente.
2. Perchè chiediamo il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan?
In Afghanistan, la NATO e gli Stati Uniti hanno detto che non possono permettersi nessun fallimento e nessuna sconfitta. Il progetto e l’obiettivo strategico è quello di consolidare e garantirsi una stabile presenza militare nel cuore dell’Asia centrale per il controllo delle immense risorse energetiche racchiuse nei territori delle Repubbliche ex sovietiche dell’area caucasica, e l’accerchiamento e contenimento della Russia e della Cina. La Nato ha chiesto ed ottenuto un rafforzamento dell’intervento militare all’Italia e agli altri paesi europei in previsione di una escalation militare.
Il governo italiano sostiene che la missione militare ISAF in Afghanistan non è una missione unilaterale di guerra come “Enduring Freedom”, bensì una missione multilaterale ONU. Ma non dice che la natura della missione ISAF è completamente cambiata, poiché si è “fusa” con Enduring Freedom diventando anch’essa una missione di guerra.
Il decreto di rifinanziamento della missione in Afghanistan votato dal Consiglio dei ministri, ha promesso un impegno per una conferenza multilaterale (sulla quale però, al momento, non c’è neanche un minimo di consenso internazionale) e per una estensione della presenza sul piano civile. Torna così quella idea di “civile e umanitario” come estensione dell’intervento militare che ricorda tanto il concetto di guerra umanitaria coniato durante l’aggressione alla Jugoslavia e i bombardamenti su Belgrado e la famosa “missione Arcobaleno” con i suoi scandali e ruberie.
Ma nonostante queste improbabili furberie, la maggioranza della popolazione italian (il 56% secondo l’ultimo sondaggio di febbraio) vuole però il ritiro dei militari italiani dall’Afghanistan, una percentuale che sale al 70% tra gli elettori dell’Unione. La maggioranza reale continua così a entrare in contraddizione con la maggioranza parlamentare.
3. Perché diciamo anche via le truppe italiane dal Libano?
In Libano siamo di fronte ad un paradosso: più cresce lo scontro politico, più aumentano i morti per le strade di Beirut, più diminuisce la credibilità e la rappresentatività del governo Siniora, più cresce e si rafforza la coalizione politica di opposizione(Hezbollah, Partito Comunista, le forze patriottiche e nazionaliste, i cristiani di Aoun etc.) e più nel nostro paese si tenta di nascondere e minimizzare la gravità della realtà libanese.
Le esternazioni continue di Prodi e D’Alema in appoggio al governo libanese si palesano sempre più come una inaccettabile ingerenza nella dialettica politica interna libanese. La “sinistra radicale” parlamentare è acriticamente allineata al governo ed esprime in ogni sede il suo sostegno alla missione militare in Libano, alimentando colpevolmente la tesi di una missione “pacificatrice” ed “equidistante” tra i contendenti. Ma anche all’interno del movimento contro la guerra si fa fatica ad introdurre nelle piattaforme la parola d’ordine del ritiro dal Libano.
Strano però che questa tesi non sia condivisa da oltre il sessanta per cento degli italiani che dicono no alla presenza delle nostre truppe non solo in Afghanistan ma anche in Libano!
Eppure la risoluzione 1701 dell’ONU – figlia della precedente risoluzione 1559 del 2004 di marca francese e statunitense – è chiarissima nel suo intento fondamentale che è quello di garantire la massima sicurezza di Israele e contemporaneamente frenare,limitare,mortificare le forze della resistenza anti-israeliana. Il tentativo delle potenze europee di approfittare della sconfitta degli israeliani nel sud Libano e delle difficoltà degli americani in Iraq e Afghanistan per rivedere i rapporti di forza con l’alleato USA, non hanno niente a che spartire con l’interesse dei popoli mediorientali alla libertà, indipendenza, pace e giustizia. Già a suo tempo abbiamo denunciato il rischio che l’Italia faccia il “lavoro sporco” per conto di Israele e degli Stati Uniti. Trovarsi coinvolti nel teatro du una nuova guerra civile, significa essere complici del progetto di “destabilizzazione creativa” e disintegrazione degli Stati su basi etniche e confessionali in corso in Iraq, Afghanistan, Palestina.
4. Perché l’Italia sta giocando sporco anche sulla questione palestinese?
Sulla Palestina, quali sono a tutt’oggi gli atti concreti, le iniziative proposte da questo esecutivo di centrosinistra nelle varie sedi internazionali per rendere un po’ di giustizia ai diritti storici del popolo palestinese e per la condanna dell’occupazione israeliana? Il Ministro D’Alema passa come uno degli uomini politici più sensibili alla causa palestinese, e questo, ha lasciato sperare in una qualche sorte di discontinuità con il precedente governo Berlusconi. Ma chi l’ha vista questa discontinuità?
Il ministro degli esteri ha ricordato che il governo italiano è con Israele e mantiene l’embargo che sta affamando e disgregando la società palestinese, rea di aver eletto democraticamente il governo di Hamas diversamente da quanto auspicato da USA e Europa. Anzi, D’Alema e il governo hanno riproposto nella Striscia di Gaza una forza multinazionale di interposizione come nel Sud Libano. Di nuovo una proposta militare, una ingerenza inaccettabile per il governo di Hamas, impegnato in un duro scontro con l’ANP e il presidente Abu Mazen.
L’Italia ha inoltre confermato l’accordo di cooperazione militare bilaterale con Israele siglato dal precedente governo Berlusconi (in gran parte segreto), trovandosi così nella posizione di un paese alleato con la politica bellicista israeliana e che minaccia un attacco nucleare contro l’Iran.
Mentre sono stati negati i visti d’ingresso a noti esponenti politici e ministri palestinesi, Prodi ha ricevuto calorosamente il primo ministro Olmert. Nessuna sanzione o condanna è stata adottata contro Israele. Al contrario, prima le parole di Prodi sulla “intoccabilità” del carattere ebraico di Israele, poi quelle del presidente Napoletano sull’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo, hanno schierato l’Italia al fianco delle forze più reazionarie in Israele e nel nostro paese..
Lo Stato di Israele e la società israeliana sono in una crisi profonda sia dal punto di vista morale che sociale. I più alti vertici politici e militari sono sotto inchiesta giudiziaria, indagati dalla magistratura. Sarebbe il momento opportuno per “approfittarne” e ridimensionare le mire espansioniste e di colonizzazione delle terre palestinesi. Niente di tutto ciò!
Le reazioni scomposte e l’irritazione con cui nella sinistra e nella “politica” vengono sopportate iniziative di sostegno alla resistenza del popolo palestinese, nascondono il malcelato desiderio di espungere dall’agenda politica il problema Palestina per trattarlo semmai solo come un problema di carattere umanitario. Oltre a commentare gli “slogans indicibili” e a criticare chi brucia i pupazzi in piazza, la “politica” dica qualcosa anche contro l’uso delle nuove armi israeliane a Gaza o in Libano che dilaniano le persone in carne d’ossa come è stato ampiamente documentato.
5. Siamo veramente fuori dal mattatoio in Iraq?
Il ritiro dall’Iraq – concordato peraltro con gli americani – è avvenuto negli stessi tempi già annunciati dal governo Berlusconi, ed è stato un atto dovuto alle milioni di persone che sono scese in piazza negli anni scorsi, ma è stato accompagnato da continue e rumorose rassicurazioni a Washington sulla politica estera del governo di centrosinistra.
Non siamo più a Nassyria, ma non è un mistero per nessuno che sia l’ENI che le nostre industrie militari facciano affari copiosi riarmando il governo fantoccio di Bagdad o che gli istruttori italiani partecipino all’addestramento dell’esercito, della polizia e anche degli squadroni della morte al servizio dell’occupante statunitense. E poi c’è la collaborazione piena con la tristemente “famosa” 173° brigata aviotrasportata USA (quella del massacro di Falluja) che dovrebbe insediarsi a Vicenza capace di intervenire in poche ore nello scacchiere e nelle operazioni di guerra in Medio Oriente.
E’ una forzatura affermare che non siamo del tutto fuori dal carnaio iracheno ?
La parola d’ordine “Disarmiamoli” lanciata dal convegno di Bologna del 10 febbraio può indicare una nuova politica e una nuova etica su cui costruire una alternativa e una alterità di percorso per i movimenti contro la guerra e il militarismo.
La manifestazione nazionale del 17 febbraio a Vicenza è una prima importante prova di forza di un movimento che non ha intenzione di recedere di un passo rispetto al No alla base al Dal Molin e alle basi USA/NATO nel nostro paese.
Riteniamo sia urgente una grande manifestazione nazionale a Roma che prenda di petto il governo Prodi e il militarismo bipartizan, ponga con forza la richiesta del ritiro immediato delle truppe italiane dall’Afghanistan, dal Libano e da tutti i teatri di guerra, la chiusura delle basi USA/NATO e il taglio alle spese militari
La base USA al Dal Molin apre la strada ad una riorganizzazione strategica dell’esercito statunitense nel nostro paese. Il movimento contro la guerra si trova di fronte ad una sfida a tutto campo e su tutto il territorio nazionale. Dobbiamo costruire una forte rete di resistenza attiva sui territori, contro la militarizzazione della politica e dell’economia, contro l’occupazione di intere aree da parte di eserciti in guerra, oggi contro i popoli mediorientali, domani contro chiunque metta in discussione l’ordine delle cose esistenti.
CREDITS
Immagine in evidenza: Soldati italiani durante l’operazione ISAF sotto comando NATO
Autore: Italian Army; 16 May 2007
Licenza: Creative Commons Attribution 2.5 Generic;
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