Sergio Cararo (relazione all’assemblea nazionale RdC del 10-11 marzo 2007)
Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola. In questi anni nel dibattito sulla composizione di classe e le caratteristiche del blocco sociale antagonista in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia, ci siamo misurati con l’inchiesta di classe sulle condizioni materiali ma anche sulla soggettività dei lavoratori, traendone materiali e risultati che si sono rivelati essenziali per la nostra azione politica e sindacale.
Nei prossimi mesi vogliamo misurarci con ricercatori, delegati sindacali e attivisti sociali sull’esigenza di tentare una lettura aggiornata ma “rivoluzionaria” dello scontro che oppone il blocco sociale antagonista del Lavoro contro quello del Capitale nella condizione metropolitana che è venuta assumendo una sua centralità strategica sia sul piano della riorganizzazione produttiva del capitale sia su quello della scomposizione/composizione di classe.
L’inserto scientifico del Sole 24 Ore prova così a disegnare lo scenario post-industriale di alcune città-fabbrica del modello italiano“Il paesaggio della conoscenza comincia materialmente dove finisce l’industria pesante. Le forme di molti insediamenti siderurgici o petrolchimici, lasciano il posto a nuove iniziative: fiere, centri congressi, mostre, imprese di software, centri di ricerca” (Nòva, novembre 2006).
E’ ormai evidente come le città-fabbrica del vecchio triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) abbiano cambiato fisionomia e non solo sul piano urbanistico con il boom delle cosiddette bonifiche delle aree industriali dimesse.(secondo alcuni dati già 100 milioni di metri cubi di aree industriali dismesse sono stati bonificati e ristrutturati nelle grandi metropoli). Tant’è che una città storicamente terziaria come Roma è diventata oggi il secondo polo per PIL e valore aggiunto dopo Milano.
Sul piano della composizione sociale, le concentrazioni di classe – le grandi fabbriche leninisticamente intese – in cui agiva concretamente l’oggettività, l’identità e la soggettività di classe sono disperse, sono distribuite sia lungo le filiere internazionali di produzione (più di un milione di posti di lavoro sono stati delocalizzati in appena dieci anni. Solo nel settore tessile/calzature dal 2001 a oggi sono stati persi 105.000 posti di lavoro e sono state chiuse 13.700 aziende) sia nella dispersione territoriale attraverso i distretti industriali che trova però nelle aree metropolitane un nuovo fattore di centralizzazione verticale.
Come diventa possibile allora cercare di individuare ed intercettare gli elementi di ricomposizione degli interessi di classe, la loro rappresentanza politica, la loro identità e soggettività politica che permettano di riaprire con qualche chance di vittoria il conflitto Lavoro-Capitale in un paese a capitalismo avanzato? Dov’è che oggi si concentra il blocco sociale antagonista che può re-ingaggiare una lotta vincente per l’egemonia contro il Capitale?
Una fotografia della realtà ci fa vedere che il valore aggiunto della produzione aumenta e che aumentano anche i lavoratori salariati impegnati ad far crescere questa ricchezza, vediamo anche che l’introduzione delle nuove tecnologie dopo aver rafforzato in una prima fase l’aristocrazia salariale per giocarla contro il resto del blocco sociale antagonista, sotto la spinta di una sfrenata competizione globale sta producendo in questa ultima fase una crescente proletarizzazione di parte dell’aristocrazia salariale e dei ceti medi e sta introducendo una precarizzazione del lavoro anche nei settori più avanzati sul piano della conoscenza (i knowledge workers) e dell’uso delle nuove tecnologie (vedi gli operatori dei call center, i ricercatori a contratto o gli stessi giornalisti).
Secondo l’elaborazione del Sole 24 Ore (Job 24) i lavoratori della conoscenza sarebbero aumentati in modo rilevante anche in Italia (circa il 41% dei lavoratori occupati) superando gli stessi Stati Uniti:
Incremento dei knowledge workers sul totale dei lavoratori 1995-2006
1995 | 2006 | |
Stati Uniti | 34 | 38 |
Regno Unito | 34 | 43 |
Francia | 38 | 52 |
Italia | 29 | 41 |
Spagna | 23 | 33 |
La struttura produttiva capitalistica si è articolata su filiere internazionali che delocalizzano le produzioni a basso e bassissimo valore e mantengono al centro quelle a maggiore valore aggiunto (rifinitura, marchio, marketing, commercializzazione) ed ha sussunto al capitale il lavoro materiale e immateriale dei lavoratori.
Una delle conseguenze per noi più interessante (ed è ormai evidente per tutti, dalla Repubblica al New York Times) è che siamo di fronte ad un processo di polarizzazione sociale e “proletarizzazione” del lavoro assai più accentuata che rispetto a dieci anni fa. Se il ventennio liberista aveva giocato e imposto gran parte della sua egemonia sul carattere progressivo del suo modello, oggi rende evidente e tangibile a molti il suo carattere regressivo. Per la sinistra di classe – sul piano oggettivo – è una situazione eccellente. Ma su quello della soggettività e della rappresentanza politica del blocco sociale antagonista le cose stanno diversamente ed appaiono assai più arretrate. Per questo c’è bisogno di un approfondimento teso ad individuare la geografia politica e sociale di questa nuova fase del conflitto Capitale-Lavoro nella nostra realtà. Da qui è nata la riflessione sulle aree metropolitane come “territorio politico e sociale” dove quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono delinearsi con più forza e con capacità egemoniche sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista fortemente frammentato dalla riorganizzazione capitalistica di questi ultimi trenta anni e reso privo di identità di classe dall’egemonia esercitata dal Capitale e che ha sorretto e accompagnato la sua visione di lotta di classe contro il Lavoro. Il carattere regressivo del Capitale, è oggi più evidente e conflittuale proprio nelle metropoli per la concentrazione dei fattori di conflitto tra Capitale e Lavoro, dove, anche secondo un recente rapporto dell’OCSE è proprio nelle metropoli – incluse quelle europee e dei paesi a capitalismo avanzato – che è maggiormente acuta e accentuata la disuguaglianza tra ricchezza e povertà.
Le riforme dello Stato danno centralità alle aree metropolitane
La riorganizzazione dello Stato (che ha uno dei suoi snodi centrali nella destrutturazione del pubblico impiego bene illustrata nella relazione di Emidia Papi) sta producendo una legislazione che accompagna tale processo di riorganizzazione capitalistica anche nella sua neo-centralizzazione metropolitana. Il DdL presentato il 19 gennaio al Consiglio dei Ministri, definisce 9 città metropolitane (una in meno rispetto a quelle prese in esame da Vasapollo, proprio Catania è stata esclusa dallo status città metropolitana).
Secondo il governo (guarda caso ancora coppia Lanzillotta-Bassanini) questo disegno di legge precede quello sul federalismo fiscale e accompagna il DdL Lanzillotta sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali, sul quale – secondo il Sole 24 Ore – è stato raggiunto un buon compromesso con il PRC “sia dal punto di vista dei riformisti che dei liberalizzatori”. Il che significa che non è affatto un buon compromesso dal punto di vista dei comunisti e dei lavoratori.
Una proiezione ci dice che le imposte locali sono destinate a triplicarsi entro il 2010 (5) Già negli ultimi dieci anni, le imposte dirette e indirette raccolte dagli enti locali sono passate dai 26,4 miliardi di euro del 1995 agli 87,6 miliardi di euro del 2004. L’ultima Legge Finanziaria ha accelerato enormemente tale processo sia attraverso l’aumento delle addizionali Irpef che vengono riscosso da Comuni e Regioni, sia scaricando i minori finanziamenti e i costi dei servizi sugli enti locali che sono stati costretti a introdurre nuove imposte sempre più salate (vedi la Ta.Ri: la tassa sui rifiuti urbani).
Questa imposizione fiscale per un verso è un effetto del federalismo (anche di quello di Bassanini e non solo di quello leghista) per un altro risponde ad un progetto di autonomizzazione e concentrazione delle risorse su basi locali a disposizione dei poteri forti.
La competizione su questo campo, più che sugli interventi destinati ai servizi sociali, si gioca ormai direttamente tra il modello della governance veltroniana e l’aziendalismo di Formigoni. Il primo ha contribuito come pochi alle fortune degli immobiliaristi, il secondo al boom del business della sanità privata e del terzo settore.
E’ piuttosto evidente come i settori di punta del capitale abbiano individuato il modello delle aree metropolitane come luogo ideale per la ottimizzazione delle proprie attività. (nelle aree metropolitane dal ’99 a oggi le imprese sotto i 49 dipendenti industriali sono cresciute del 2,1% e quelle dei servizi del 5,8%). Un rapporto sulla “creatività” imprenditoriale preparato da una università statunitense (Carnegie) sostiene che “oggi dal 25 al 30% dei lavoratori nei paesi avanzati lavora nei settori più “creativi” dell’economia, impegnati in campi come la scienza, l’ingegneria, la ricerca e sviluppo, la comunicazione, la finanza, le industrie tecnologiche ma anche design, cultura, arte” e giunge alla conclusione – ovvia – che “le aree metropolitane sono quelle più avanti. La nostra ricerca conferma che c’è una ripresa delle grandi città” (1). Intorno e dentro le principali aree metropolitane, i settori avanzati del Capitale hanno cercato di costruire quelle relazioni a rete delle proprie attività che hanno dimesso dalle vecchie città-fabbrica ma che non hanno saputo realizzare nei famosi distretti industriali del made in Italy oggi in crisi. Così come avevano piegato la terra e i contadini alle loro esigenze durante la rivoluzione industriale, oggi i gruppi capitalisti intendono piegare l’intera vita sociale alle loro esigenze della produzione flessibile.
Nella fase preparatoria dell’inchiesta di classe a metà degli anni Novanta, avevamo individuato come nella nuova organizzazione flessibile del lavoro, il problema prioritario dello imprese capitalistiche fosse la velocità, la lotta per ridurre il tempo, per annullare lo spazio attraverso il tempo come esigenza strategica. In questa lotta, la sostituzione di stock di merci con stock di forza lavoro e l’intensificazione del comando neocorporativo sul lavoro comportano la trasformazione dell’esercito industriale di riserva nel settore determinante della classe lavoratrice, rendendo così la differenza tra lavoratori “attivi” e quelli “di riserva” sempre più frastagliata e mutevole.
Le metropoli del capitale vengono ad assumere così il carattere di magazzino della forza lavoro in cui domanda e offerta si incontrano ormai in condizioni enormemente più svantaggiose per il Lavoro.
Come notava già Engels nel suo saggio su “La questione delle abitazioni”, le concentrazioni urbane ammassano quantità sovrabbondante di forza lavoro. In questa nuova concentrazione, la produzione flessibile trova i “requisiti ambientali” idonei per il suo massimo decentramento (e per il massimo accentramento dei poteri decisori) e per la mobilità completa che oggi è la necessaria condizione per la competizione globale capitalistica di questa fase storica.
La massa della forza lavoro delle metropoli, quello che potremmo definire il proletariato metropolitano, vive oggi una condizione di crescente degrado che è la diretta conseguenza dell’abbattimento dei costi di riproduzione. E’ un degrado acutizzato dalla precarietà del lavoro, dalle privatizzazioni e dallo smantellamento dei servizi sociali, dall’aumento delle imposte locali, dall’aumento delle tariffe e delle abitazioni, dalla difficoltà di poter usufruire di forme di reddito diverse dal lavoro (sempre più insicuro).
Se questa era la tendenza a metà degli anni Novanta, i dati della realtà ci dicono che oggi i lavoratori precari (“atipici”) sono saliti al 24% del lavoro dipendente e almeno il 66% ha un titolo di studio medio-alto, tre di questi lavoratori su quattro guadagnano meno di 1000 euro al mese, quattro su cinque non ritengono affatto il precariato una opportunità di arricchimento (fonte: Rapporti Istat ed Eurispes, 2005).
A questa condizione di precarietà lavorativa si affianca anche un degrado delle condizioni sociali complessive: il 40% dei lavoratori giovani è costretto a vivere ancora con i genitori perché non può permettersi un affitto o un mutuo e solo il 6,5% ha figli e solo il 10% è riuscito a “mettere su famiglia”. E’ un livello di insicurezza e incertezza sul futuro che rende oggi i nuovi lavoratori più simili ai vecchi disoccupati che ai lavoratori a tempo indeterminato.
In sostanza le metropoli e la condizione sociale del proletariato metropolitano, rappresentano un terreno importante di sperimentazione e verifica per i sindacati, i movimenti sociali e per l’azione politica dei comunisti, perché potrebbe rivelare quasi “naturalmente” il fronte di lotta sulla riproduzione sociale complessiva proprio lì dove il Capitale ha nuovamente concentrato i settori di classe dopo averli frammentati, delocalizzati, dispersi ed egemonizzati con lo smantellamento dei grandi stabilimenti e della grandi concentrazioni industriali, ma soprattutto lì dove il suo carattere regressivo si manifesta con maggiore violenza.
E’ sufficiente pensare a quelle che sono le ricadute concrete della bolla speculativa immobiliare. Non c’è solo il problema degli affitti stellari o del boom dei prezzi delle case. C’è il problema dello spazio e della concezione stessa dello spazio metropolitano che mette in conflitto esigenze sociali antagoniste. E’ il giornale della Confindustria a dirci che “Lo spazio stradale urbano è un bene scarso e l’uso gratuito di un bene scarso è un non senso dal punto di vista economico” (3). Risultato: occorre far pagare a tutti la mobilità indipendentemente dal mezzo che si utilizza. Non si tratta di una preoccupazione ecologica sull’inquinamento ma del fatto che, come ci dice una ricerca, il 71% dei lavoratori delle aree metropolitane utilizza il mezzo privato per recarsi al lavoro e questo fattore – oltre a far perdere 1,5 punti di PIL a causa della congestione urbana – deve rappresentare una risorsa economica eliminando l’uso gratuito delle strade pubbliche (4). La privatizzazione delle aziende di trasporto pubblico è alternativa o del tutto speculare a questa concezione? I fatti ci dicono che la seconda risposta è quella vera.
Emerge da questi pochi dati una concezione capitalistica della metropoli che fa dello spazio e del tempo un fattore conflittivo con quella che molti definiscono “qualità della vita” e che non richiede solo rivendicazioni contrattuali (casa, reddito, servizi) ma anche extracontrattuali come spazio e tempo ed “etiche” come la difesa della dignità.
Ma la concezione capitalistica della metropoli-impresa e dei modelli di governo ad esso funzionali, hanno via accumulato contraddizioni sociali crescenti e visibili. Dopo decenni di frammentazione e separazione e di fronte al manifestarsi del carattere regressivo del capitalismo, i vari segmenti del blocco sociale antagonista stanno identificando i possibili elementi di ricomposizione: dai movimenti per il reddito sociale a quelli contro il carovita, dagli scioperi dei precari dei call center e del pubblico impiego alle occupazione delle case, in alcune metropoli del nostro paese si è messo in moto un processo politico e sociale molto interessante su cui sindacati, movimenti e forze politiche della sinistra dovrebbero e potrebbero cominciare a riflettere.
Il problema per noi che non siamo sociologi, non è tanto quello di registrare i fenomeni sociali quanto quello di cercare di fornire a questi fenomeni una identità ed una soggettività politica e sociale adeguata alle nuove condizioni del conflitto di classe. Se il primo a doversi adeguare è il sindacato (e nel nostro caso il sindacalismo di base a cui guardiamo con maggiore attenzione), anche le organizzazioni politiche della sinistra devono ricominciare a mettere mano a questioni come la lotta per l’egemonia.
La periferia nel cuore. Le nostre metropoli
Questo scenario non ha ovviamente una dimensione nazionale. La sua dimensione mondiale è stata bene analizzata negli scritti di Saskia Sassen e soprattutto in quelli di Mike Davis. Il nesso tra concentrazione urbana degli slum nei paesi emergenti e centralizzazione metropolitana della produzione e del comando nei paesi avanzati, è perfettamente lineare ai parametri che ispirano la guerra preventiva e l’escalation di interventi militari delle varie potenze nei paesi del sud. E’ importante in tal senso definire gli obiettivi del neocolonialismo. Se infatti nell’Ottocento era fondamentale la conquista di terre, di risorse o di territori, il neocolonialismo punta soprattutto ad accaparrare forza lavoro nelle condizioni più vantaggiose possibili per il capitale.
Queste riflessioni potrebbero in qualche richiamare vecchie polemiche tra terzomondisti e sinistra occidentale (vedi quella tra Arghiri Immanuel e Salvati), in realtà la “cronaca politica” questa contraddizione tra eurocentrismo e internazionalismo ce l’ha portata direttamente dentro casa. Non si tratta solo delle dimensioni di massa dell’immigrazione nei paesi europei ma di quando il corto circuito tra quantità e qualità delle contraddizioni ha agito concretamente come nel caso delle banlieues francesi. Anche qui in molti hanno detto “ma queste rivolte non ci parlano!”. Eppure analisi di classe sulle metropoli e sui conflitti sociali che ne derivano ce ne sono ed anche di grande spessore. Il nesso tra la brutale polarizzazione sociale avvenuta nei paesi europei degli anni Novanta, la delocalizzazione produttiva e la verticalizzazione della catena del valore che vede le metropoli come centro, hanno trovato nella rivolta metropolitane delle banlieues francesi una conferma importante. I processi nella periferia interna (le metropoli del capitale) e nella periferia industriale di vecchia e nuova integrazione (i paesi dell’Europa dell’Est e domani il Maghreb), agiscono dialetticamente tra loro dando vita prima a processi di delocalizzazione produttiva nei paesi a bassi salari e poi a veri e propri processi di delocalizzazione interna che riproducono proprio a ridosso delle metropoli le “zone franche” che fino a ieri erano collocate nelle maquiladoras della filiera mondiale di produzione. Tant’è che il Ministro dell’Economia francese, Breton (ma anche il governo Prodi o il governatore Sassolino insieme a CGIL CISL UIL) vorrebbe creare nelle banlieues (ma anche a Secondigliano-Scampia) delle zone franche, in cui agevolare fiscalmente il lavoro ma anche le imprese. “Tanto più – ha sottolineato significativamente il ministro Breton – che si tratta di veri e propri serbatoi ricchi di manodopera nel momento in cui gli attivi in Francia per la prima volta sta per diminuire”. Il neocolonialismo è diventato così un parametro anche nei rapporti di classe all’interno della metropoli. In sostanza le metropoli e la condizione sociale del proletariato metropolitano nel cuore dell’Europa, rappresentano un terreno importante di sperimentazione e verifica per i sindacati, i movimenti sociali e per l’azione politica dei comunisti, perché potrebbe rivelare quasi “naturalmente” il fronte di lotta sulla riproduzione sociale complessiva proprio lì dove il Capitale ha nuovamente concentrato i settori di classe dopo averli frammentati, delocalizzati, dispersi ed egemonizzati con lo smantellamento dei grandi stabilimenti e della grandi concentrazioni industriali, ma soprattutto lì dove il suo carattere regressivo si manifesta con maggiore violenza.
Ritenere, come fanno i new global eurocentristi, che questo rapporto di classe possa essere mediato da un Europa sociale e democratica che non esiste, non è solo una illusione, è qualcosa di più deleterio che ripropone tutta intera la contraddizione che divide i riformisti dai rivoluzionari…anche e di nuovo nel XXI° Secolo. E quanto sta accadendo nel resto del mondo (in America latina soprattutto) e quanto ci auguriamo stia per accadere anche in Europa.
Il rischio è che come accaduto questa estate in un centro sociale di Ostia o quanto accade nelle periferie di Napoli o nelle curve degli stadi, finanche quanto accaduto a Catania, rischia di diventare come è accaduto per le banlieues parigine “un fenomeno inspiegabile per la categorie fino ad oggi a disposizione”. Liquidare il tutto come fenomeni di lumpenproletariat quando i confini tra lavoro ed esercito industriale di riserva si frastagliano come in questa fase storica, non ci salva nè ci aiuta.
Per questo c’è bisogno che i comunisti tornino ad utilizzare appieno un metodo di lavoro e di lotta basato sull’inchiesta, il confronto e la sperimentazione, sperimentazione che per noi significa piena internità alle lotte sociali e sindacali.