Il conflitto interimperialista ed il passaggio di fase
Walter Lorenzi (relazione all’assemblea nazionale RdC del 10-11 marzo 2007)
Care compagne e compagni, intervenire sul tema della guerra in questa assemblea mi obbliga a partire da un riferimento storico imprescindibile, ai primordi di quella fortunata scissione che portò i primi nuclei di comunisti a rendersi indipendenti e liberi dalle secche di una seconda internazionale la quale – a cavallo tra fine ottocento e inizi del secolo scorso – introiettava gli orientamenti colonialisti e imperialisti delle potenze occidentali.
Il voto sui famosi “crediti di guerra” per finanziare il primo conflitto mondiale suggellò l’orientamento dell’internazionale, determinando quella rottura all’origine della nostra storia. Da quel momento le avanguardie comuniste inizieranno a guidare ampi settori della classe operaia e del proletariato dei paesi del centro sulla base degli orientamenti internazionalisti del marxismo.
Oggi sul terreno sempre dirimente della guerra, ci troviamo in una situazione apparentemente paradossale. Nel paese che ha visto nascere e svilupparsi il più forte partito comunista occidentale, abbiamo assistito negli ultimi mesi al voto favorevole a guerre e finanziarie di guerra da parte di ben due partiti che fanno riferimento diretto, nel nome e nei simboli, a quella storia.
Al di là di inutili e fuorvianti giudizi morali sui soggetti che direttamente si prestano a questo vero e proprio capovolgimento di assunti e riferimenti, il vulnus quotidiano al quale siamo costretti ad assistere nel pietoso teatrino della politica italiana nasconde un processo di arretramento che affonda le radici nell’incapacità di leggere ed interpretare, su un terreno di reale indipendenza dalle compatibilità di sistema, le profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali determinatesi, a livello globale, in questi ultimi 35 anni.
Pesano enormemente sconfitte ed errori, l’incepparsi dei meccanismi riproduttivi di una avanguardia comunista capace di mantenere la rotta nel vivo della tempesta trasformatrice che ha sconvolto tutti gli assetti geopolitici, economici e culturali scaturiti dal conflitto di classe del secolo passato durante il quale, a partire dalla grande rivoluzione d’ottobre e per un lungo periodo, i rapporti di forza generali si erano posizionati a favore del proletariato.
Non è compito di questa relazione parlare dei limiti e delle potenzialità insite di quella prima, generosa fase nella quale si è tentato di costruire “un altro mondo possibile”.
Sul tema del ‘900, del “bambino e dell’acqua sporca” abbiamo appena iniziato un lavoro di lunga lena, che richiederà anni di studio e riflessione, ma soprattutto di sperimentazione politica e sociale.
Né mi addentrerò nei processi materiali che determinano le condizioni per una subalternità che talvolta tracima in “consenso di massa” alle guerre imperialiste, fenomeno peculiare che osserviamo soprattutto nelle società del cosiddetto “primo mondo”.
Oggi come ieri è nella costante capacità del capitale di dividere e parcellizzare la classe che possiamo individuare i meccanismi di riproduzione del consenso a politiche belliciste ed aggressive, sempre contraddistinte da una spessa patina ideologica razzista e xenofoba, riconoscibile oggi nel cosiddetto “scontro di civiltà”.
Tenterò invece, in maniera schematica, di descrivere gli scenari che ci vedono oggi impegnati nella nuova fase di conflitto contro la tendenza alla guerra, che vede il nostro paese e la compagine di cenro sinistra in prima linea sui vari fronti del conflitto.
A questo scopo voglio partire brevemente dallo scenario libanese.
Come in Iraq ed Afghanistan, anche nel paese dei cedri la resistenza popolare ha bloccato il tentativo israeliano di risolvere manu militari le contraddizioni in quell’area.
I 34 giorni di massacro del luglio – agosto 2006 si sono trasformati in un micidiale boomerang per lo stato sionista.
Il ripiegamento sulle linee di confine dopo perdite in uomini e mezzi senza precedenti, l’accettazione di una pur compiacente forza multinazionale in territorio libanese, la successiva crisi dell’esecutivo e dei vertici militari israeliani segnalano un importante mutamento dei rapporti di forza nell’area a favore della resistenza .
Nei mesi scorsi la segretaria di stato USA Condoleeza Rice ha parlato del Libano come “terzo fronte” della guerra infinita, evocando per quel paese un futuro oscuro, di cui si colgono evidenti segnali in questi ultimi mesi di tregua armata.
In Libano è in atto una vera e propria “strategia della tensione”, fomentata ad arte per scardinare l’egemonia della resistenza tra le popolazioni, strategia che trova nell’illegittimo governo Siniora una quinta colonna interna a sostegno delle mire statunitensi ed occidentali.
Nei fatti l’attuale paralisi libanese, l’equilibrio delle forze determinatosi e l’inefficacia della missione UNIFIL 2 nel realizzare l’obiettivo strategico del disarmo della resistenza disegnano un quadro d’insieme inaccettabile per i signori della guerra infinita.
Il Libano continua ad essere una tra le faglie più sensibili della crosta geopolitica mediorientale, sulla quale il ministro degli esteri D’Alema ha fatto piantare le tende ad oltre 2.800 soldati di ventura italiani.
UNIFIL 2 è il nuovo paradigma della dottrina diplomatico/militare dalemiana: il multilateralismo come specchio per le allodole a copertura delle politiche sub imperialiste italiane, implementate per supplire/competere con il colosso isrelo/statunitense in crisi sotto i colpi delle resistenze popolari arabe.
L’operazione “Leonte” deve e dovrà essere – oltre che uno dei nostri obiettivi nella battaglia politica per il ritiro immediato delle truppe – motivo di studio per il movimento contro la guerra italiano, dato che su quei territori si stanno suggellando e rafforzando le alleanze che garantiscono la governabilità nel nostro paese.
A nessuno è sfuggito, nelle concitate ore della crisi “pilotata” del Prodi 1, l’urlo di dolore di alcune ONG, di strutture ed associazioni ex pacifiste e dei loro rappresentanti in parlamento .
Dichiarazioni altisonanti di fede, richieste preoccupate di continuità nell’opera di governo, ma soprattutto richiesta pressante di continuità nel flusso economico a favore della cooperazione allo sviluppo.
Ecco il succulento piatto per il quale in queste settimane si è mandato definitivamente a gambe all’aria l’ex fronte pacifista: la cooperazione allo sviluppo!
Il 24 febbraio scorso i pacifisti convenuti a Roma per una assemblea che chiedeva il ritiro immediato delle truppe dall’Afghanistan sono rimasti soli: la cooperazione allo sviluppo val bene una assemblea nazionale!
Vediamo quindi come si realizza, sulla scorta di esperienze dirette, reportage ed inchieste sulla presenza italiana in libano, l’integrazione tra gli ex pacifisti e le politiche del governo di centro sinistra.
Lo scorso settembre 2006, partecipando alla delegazione guidata dal caro e compianto compagno Stefano Chiarini, abbiamo avuto occasione di assistere all’arrivo a Beirut di una tra le prime delegazioni, che potremmo definire “politico – cooperanti”, composta da giovani sinistri radicali, avanguardie delle strategie pianificate negli uffici del ministero degli esteri del governo amico.
Confondendo evidentemente luoghi e ruolo, alcuni di questi cooperanti hanno preso la parola addirittura durante la commemorazione di 5 combattenti comunisti caduti nel 1982 nel centro di Beirut, in quella che fu la prima operazione militare contro gli occupanti israeliani.
Tra i dubbi e lo sconcerto delle centinaia di comunisti libanesi presenti, la delegazione italiana portava ai combattenti caduti il saluto della società civile italiana, impegnata a loro dire nella ricostruzione e nella cooperazione decentrata allo sviluppo del paese ……
Un reportage di Giuliana Sgrena del 6 gennaio scorso dal titolo “l’incerto bilancio del Libano italiano”, proietta altri illuminanti squarci di luce sull’attuale operazione di “peacekeeping” in terra libanese.
“la scommessa dell’unifil 2 – dice la Sgrena – consiste nell’accompagnare, senza confonderli, la missione di peacekeeping con un forte impegno di cooperazione civile per l’emergenza” ma, prosegue “in termini di finanziamenti non c’e’ paragone: 180 milioni di euro per i primi 4 mesi di dispiegamento dei militari e 30 milioni di euro per 1 anno di cooperazione …”
Andando avanti nella disamina del progetto di “portare la pace” nel sud Libano emergono i molti dati di difficoltà nell’avvio della parte “civile” dell’operazione, definita come “….componente indispensabile per far digerire almeno ad una parte consistente del mondo pacifista una nuova spedizione militare all’estero”.
Sui 30 milioni di euro per la cooperazione 25 sono per ONG, cooperazione diretta e multilaterale, 5 al governo Siniora per la ricostruzione di infrastrutture.
Scopriamo poi che per gestire questo flusso di denaro la viceministra agli esteri Patrizia Sentinelli ha messo intorno ad un tavolo (cito) “non solo funzionari della cooperazione, ma anche associazioni e movimenti, che insieme hanno coordinato le linee guida dell’intervento civile in libano”.
Una “gestione partecipata” dichiara entusiasta Sergio Bassoli, di progetto sviluppo della cgil.
Non si capisce bene pero’ come saranno ripartiti i 25 milioni di euro stanziati per i cooperanti, dato che “gli interventi sono stati finanziati a pioggia e non in forma consortile” e quali siano poi i costi per l’ufficio tecnico italiano a beirut, definiti “spropositati” dal succitato cgilellino Bassoli .
La ragione del caos nella gestione dei fondi è presto detto: subito dopo i bombardamenti israeliani, mentre la polvere non si era ancora posata sul terreno, le ONG italiane presenti in libano passavano da dieci ad alcune decine: a fine gennaio 2007 i progetti presentati per la cooperazione allo sviluppo erano già 35.
Vale poi la pena citare le indicazioni del responsabile dell’ufficio tecnico italiano a Beirut ai cooperanti italiani per intervenire nelle zone bombardate dagli israeliani, i quali dovranno, testuale “…ricreare un clima di pacificazione attraverso la ricostruzione ambientale e del tessuto sociale nelle zone più colpite dal conflitto” attraverso “tutor”…incaricati di seguire in loco i progetti”.
Come sappiamo pero’ “in loco” operano dal 1982 le milizie della resistenza, attivatesi subito dopo i bombardamenti in ogni angolo del paese per finanziare autonomamente le opere di ricostruzione, ricomponendo cosi il tessuto sociale sfrangiato dall’aggressione dell’esercito sionista.
Durante gli spostamenti in sud libano della delegazione “per non dimenticare Sabra e Chatila” del settembre 2006 abbiamo avuto occasione di vedere le migliaia di lavoratori e volontari, organizzati dalla resistenza, all’opera da Tiro a Bint Gubail, da Kiam a Sidone, da Baalbek a Al – Nabatiyya .
I voraci cooperanti italiani dovranno quindi fare i conti con i “tutor” della resistenza libanese, abituati a difendersi da ben altri attacchi alla loro indipendenza ed autonomia.
Se questo e’ lo stato delle cose sul terreno della cooperazione italiana allo sviluppo, altrettanto preoccupante e’ la linea assunta ed il tipo di alleanze stabilite in terra libanese dall’attuale governo di centro sinistra .
L’illegittimo esecutivo Siniora, notoriamente inviso a milioni di libanesi, trova, infatti, l’appoggio totale ed incondizionato del governo Prodi, il quale muove le sue pedine in quel paese attraverso scelte di campo ben precise, evidenziate a più riprese nei suoi viaggi e attraverso le ben note dichiarazioni del ministro degli esteri D’Alema in appoggio ad Israele e a giustificazione del criminale embargo UE contro i palestinesi.
L’ esposizione politico/militare del contingente italiano in Libano vedrà quindi i soldati tricolori investiti direttamente da probabili recrudescenze belliche, per le quali i signori della guerra stanno lavorando alacremente.
Come sappiamo il colosso statunitense si sta muovendo, con portaerei, truppe e basi verso nuove aggressioni e guerre, di cui leggiamo quotidianamente nei report degli strateghi militari di tutto il mondo.
Lo scenario europeo sud orientale è soggetto da alcuni anni ad un processo di espansione della presenza statunitense funzionale a questi obiettivi.
L’Iran è il prossimo bersaglio. Di fronte ad una aggressione contro il paese degli ayatollah, che si preannuncia devastante, la resistenza libanese probabilmente risponderà con tutto il suo potenziale di fuoco. Che faranno i soldati di ventura italiani di fronte alla ripresa delle ostilità in sud libano?La risposta va cercata, ovviamente, nelle esternazioni del binomio Prodi/D’Alema
L’Italia gioca il suo ruolo nell’alveo dell’Europa superpotenze
la vicenda libanese torna quindi ad evidenziare il tentativo italiano ed europeo di giocare un ruolo di maggior protagonismo nello scenario internazionale.
L’Europa è divenuta la seconda potenza economico-finanziaria con la nascita dell’euro e deve crescere sul piano del peso politico, pur tenendo conto degli interessi particolaristici delle varie politiche nazionali.
Di conseguenza punta ad emergere non solo come potenza politica ma anche militare, proporzionata al peso conseguito sul piano economico.
Per tale motivo il complesso militare assume un aspetto decisivo sia come propulsore dello sviluppo economico, sia come comparto strategico nell’ambito della competizione globale che si delinea tra le maggiori potenze mondiali.
In questa fase di evidente evoluzione, la sovranita’ e l’indipendenza del nostro paese sono da mesi, e per l’ennesima volta sotto pesante schiaffo.
Il no alla consegna del marine che ha ucciso Calipari, la lettera dell’ambasciatore USA per condizionare le scelte sull’Afghanistan, il no all’estradizione degli agenti CIA artefici del rapimento di Abu Omar, il diktat sulla base di Vicenza, sono solo gli esempi piu’ eclatanti della pietosa subalternità dell’attuale governo di centro sinistra al colosso d’oltreoceano.
Una subalternità “strategica”, che ingabbia e delimita il rinnovato protagonismo dall’Italia in politica estera.
La somma delle tendenze italiane ed europee, in una fase di ridefinizione dei rapporti di forza tra le potenze, sta innescando una pericolosa spinta verso la militarizzazione che non riguarda solo l’aspetto della industria bellica come settore di investimento certo o le azioni di “polizia” internazionali ma produce conseguenze interne molto pesanti.
Gli interventi militari all’estero hanno bisogno di un forte sostegno ideologico all’interno del paese e questo porta inevitabilmente, come la storia e la realtà di questi giorni sta dimostrando, verso una drastica riduzione della democrazia, della dialettica sociale interna, dell’uso sempre più spregiudicato dei mezzi di comunicazione.
Dal pacifismo al movimento contro la guerra.
Il movimento pacifista sviluppatosi negli scorsi anni anche nei paesi occidentali ha espresso una vasta protesta contro la politica dei governi, ma è poi rifluito per il prevalere della sfiducia di poter sconfiggere tale politica, per l’assuefazione alla guerra come dato immodificabile di questa fase, a causa di parzialità politiche, frutto anche dei condizionamenti di coloro i quali, appena seduti sugli scranni parlamentari, hanno fatto emergere con chiarezza le cause di tante ambiguità e distinguo, di un uso improprio e strumentale di contenuti e valori, agitati come una clava per disarmare, quello si, il movimento contro la guerra.
Troppo spesso nel movimento si condannavano le politiche dei governi non tanto per gli obiettivi che questi dichiaravano di voler perseguire, ma per i brutali metodi utilizzati per realizzarli; in altri casi si è accettata la chiave di lettura secondo cui vi era una guerra quasi paritaria tra contendenti che si trattava di ricondurre alla pace, con una equidistanza al di fuori e al di sopra dello scontro in atto.
Ma quando i popoli hanno cominciato a dimostrare di non accettare solo il ruolo di vittime passive e di volersi anzi difendere, l’atteggiamento pietistico è andato in difficoltà nel doversi schierare in uno scontro che per quanto sproporzionato non era più a senso unico.
Le resistenze messe in atto dalle popolazioni aggredite non sono solo una legittima reazione ma, nella misura in cui costituiscono il principale ostacolo al consolidamento di quella strategia, rappresentano anche un fattore di incoraggiamento dei movimenti contro la guerra che agiscono in tutto il mondo.
Il nostro costante impegno nella solidarietà con le resistenze dei popoli e’ stato e deve continuare ad essere un punto di riferimento ed orientamento imprescindibile nella battaglia politica.
Su questo piano il lavoro svolto in questi anni dal Forum Palestina e’ stato un tassello fondamentale del nostro agire.
Le campagne di solidarietà, le tante e partecipate manifestazioni promosse, spesso in solitudine, ci hanno permesso di smascherare l’ipocrisia di ampli settori dell’ex fronte pacifista e nel contempo hanno costretto l’impressionante schieramento filosionista presente trasversalmente all’interno della classe dirigente italiana ad uscire allo scoperto.
La cosiddetta ”sinistra per Israele” ha trovato nella nostra costante mobilitazione un argine fondamentale, in grado di contrastare vergognose mistificazioni cucite addosso al popolo palestinese.
In questi anni, grazie anche a militanti del calibro di Stefano Chiarini, fondatore e promotore di tante battaglie del forum, siamo riusciti ad imporre nell’agenda politica nazionale la questione palestinese, altrimenti relegata a vicenda di “ordine pubblico internazionale”, da far risolvere all’esercito sionista, coadiuvato da diplomazie compiacenti e pronte a ribaltare i parametri stessi del diritto e della democrazia formale, come sta avvenendo in questi mesi contro il legittimo governo eletto nei territori occupati, imponendo addirittura un vergognoso embargo che attacca e affama, per la prima volta nella storia, il popolo aggredito piuttosto che l’aggressore .
La causa palestinese deve rimanere elemento centrale delle nostre battaglie e mobilitazioni, permeando le piattaforme del movimento di resistenza contro le guerre e le politiche colonialiste dei governi che si susseguono alla guida dello stato italiano, attivamente impegnato nella repressione delle istanze di liberazione di quel popolo.
Un altro terreno sul quale abbiamo mantenuto una posizione ferma e coerente e’ stato quello del no alla guerra senza se e senza ma, anche in periodi di caduta della tensione di un movimento imbrigliato dalle compatibilità di un ceto politico impegnato ad usare il potenziale espresso nelle mobilitazioni di questi anni al fine di entrare nelle stanze dei bottoni.
La grande mobilitazione vicentina di questi mesi e gli aut-aut dell’esecutivo, costringono oggi questo ceto politico a fare una scelta di campo, che come sappiamo significa l’accettazione del dodecalogo prodiano, scavando così una fossa incolmabile tra questa rappresentanza istituzionale e tutto quello che si muove contro la guerra, la militarizzazione della società e le conseguenze di una politica ferocemente liberista.
Di fronte al nuovo scenario determinatosi con il Prodi 2, l’ imprescindibile obiettivo dei movimenti deve essere quello di raggiungere una piena autonomia ed indipendenza.
Costruiamo un movimento reale contro la militarizzazione
Nell’attuale fase di riorganizzazione delle potenze occidentali il principale terreno di impegno di un movimento reale contro la guerra, oltre alla netta opposizione alle missioni militari all’estero, deve essere quello di un contrasto risoluto alle scelte belliche sui nostri territori.
È evidente, infatti, l’utilizzo del crescente militarismo come nuovo volano economico, che incide direttamente su redditi e servizi sociali.
Per sostenere queste politiche antipopolari si rafforzano i dispositivi di sicurezza, cercando di limitare ancora di più l’esercizio di elementari diritti di agibilità politica, sindacale e dell’insieme dei conflitti sociali.
E’ ormai prioritaria dentro l’agenda dei movimenti contro la guerra ma anche dei movimenti sociali e sindacali, l’opposizione contro il continuo incremento delle spese militari e le loro connessioni qualitative con il complesso militare-industriale e gli apparati di sicurezza che stanno ormai conformando anche le priorità economiche e la vita sociale del nostro paese
L’impegno dei movimenti deve concentrarsi contro il complesso delle basi militari, di tutte le produzioni di morte e di ogni ristrutturazione in chiave offensiva degli eserciti, a cominciare da quello italiano.
Le esperienze maturate in questi anni di lotta contro le basi: dal Veneto alla Sardegna, dalla Sicilia alla Puglia sino alla Toscana, ed in questi giorni con la grande lotta del popolo vicentino contro la base USA al Dal Molin, sono un prezioso bagaglio per il movimento, un punto di partenza da sostenere, valorizzare e generalizzare per dare radicamento ed estensione sociale a queste forme di opposizione delle popolazioni.
Il Comitato Nazionale per Il Ritiro delle Truppe Italiane, costituito nel 2004 da un ampio fronte di forze come strumento di lavoro nel movimento contro la guerra, si è messo in questi mesi a disposizione come raccordo e ricomposizione per comitati, associazioni, strutture che si battono contro le basi militari e la militarizzazione dei territori e della vita sociale.
Intorno a questo obiettivo abbiamo chiamato al confronto tutti quegli attivisti che mantengono immutata la loro opposizione alla guerra, per riflettere insieme su come dare continuità, stabilità ed efficacia al proprio impegno nella direzione del rafforzamento di un rinnovato movimento contro la guerra.
Siamo oggi impegnati a costruire una rete attiva e stabile, in grado di promuovere e dare ampio respiro alle iniziative locali, attraverso la costruzione di vertenze contro il militarismo e le sue basi.
Il convegno “Disarmiamoli! “, svoltosi lo scorso 10 febbraio a Bologna ha sancito questo passaggio.
L’incontro nazionale di domenica 4 marzo a Firenze ha iniziato ad operare in questo senso, pianificando per il prossimo futuro una serie di campagne concrete di sostegno e rilancio delle lotte.
La Rete Nazionale Disarmiamoli! Ha iniziato a muovere i primi passi. Prossimi obiettivi l’apertura dei cantieri per la base al Dal Molin e il no al rifinanziamento delle missioni militari, rifinanziamento contro il quale saremo di nuovo a Roma il prossimo sabato, nella prima vera manifestazione nazionale del nuovo movimento contro la guerra italiano.
L’assunto dal quale parte la proposta di “Disarmiamoli! “ è semplice: su queste grandi tematiche, inscindibilmente legate nelle strategie di guerra, NON SI VINCE SOLO a Vicenza, a camp Darby, a Sigonella o in qualsiasi altro territorio dove ci si batte contro le basi e la militarizzazione .
Si può vincere a Vicenza, a camp Darby, a Sigonella …..SOLO SE riusciremo a trasformare le resistenze locali – comunque imprescindibili – in una grande vertenza nazionale, creando le condizioni per mettere in campo una “massa critica” in grado di incidere profondamente nella vicenda politica italiana, rispondendo finalmente alle aspettative di milioni di persone da anni mobilitate contro i meccanismi bellicisti che permeano in maniera “bipartizan” i vari governi.
Su questo terreno chiamiamo al confronto ed alla mobilitazione tutte le aree pacifiste, militanti ed antimperialiste indisponibili al diktat della governabilità, della “riduzione del danno”, di una realpolitik fatta sulla pelle dei popoli.
In questo processo di ricomposizione di un movimento contro la guerra finalmente autonomo ed indipendente, i comunisti possono e debbono svolgere un ruolo centrale.