Mauro Casadio
La scelta di promuovere la seconda assemblea nazionale della RdC nasce dalla necessità di fare il punto sul lavoro svolto dal 2002, anno della prima assemblea, di operare un passaggio interno alla discussione tra i militanti della Rete e di rappresentare questo nostro passaggio all’esterno, con l’intenzione di fornire un contributo al dibattito teorico e politico tra i comunisti e la sinistra di classe più in generale.
L’impegno che in questi anni abbiamo individuato come prioritario è quello della elaborazione teorica per la ricostruzione di un punto di vista comunista in quanto siamo fermamente convinti che nessuna vera ripresa possa fare a meno di una capacità di lettura della realtà moderna, e delle sue tendenze, che riesca a guidare l’azione politica al di fuori di ogni mitologia.
Il lavoro più impegnativo l’abbiamo indirizzato nell’ elaborazione sull’imperialismo del XXI° secolo, oggi caratterizzato dai blocchi economici e dalle relative aree monetarie, che, nelle vicissitudini degli anni novanta, sembrava superato da un “Impero” che poi ha dimostrato tutta la sua virtualità.
Ora, infatti, più o meno tutti parlano di “multilateralità” riconoscendo la molteplicità dei centri imperialisti ed, implicitamente, anche il loro strutturale contrasto di interessi.
La competizione globale, e non la semplice globalizzazione, ed il ruolo imperialista degli USA ma anche dell’Europa, il riemergere dell’economia di guerra e la politica delle cannoniere attuata dalle grandi potenze capitaliste, la reazione e la resistenza dei popoli, politica, sociale ma anche armata, in tutto il mondo stanno caratterizzando la fase attuale ed il nostro impegno nella lotta contro la guerra e la militarizzazione.
Impegno che ci ha visto in questi anni attivi anche in uno scontro politico e culturale con quei pacifisti a “tempo determinato” che facevano riferimento al cosiddetto “movimento dei movimenti” che nel nostro paese si è sciolto come neve al sole con la nascita del governo Prodi.
Anche la nostra azione e militanza nel movimento di classe nei posti di lavoro e nel sociale non è nata e non è stata impostata sulla sola necessità di rispondere alle disuguaglianze crescenti. Essa è stata alimentata essenzialmente da una lettura della trasformazione produttiva, della nuova composizione di classe internazionale, del ruolo dello Stato e da una riflessione teorica e storica della modifica conseguente dell’organizzazione del conflitto sociale in un paese imperialista.
La scelta netta del sindacalismo di base come asse strategico, l’intervento su settori ben precisi del mondo del lavoro e della società, l’individuazione delle aree metropolitane come condizione della produzione moderna sono stati gli elementi con i quali ci siamo misurati e sui quali abbiamo cercato di dare un contributo, sicuramente modesto ma reale, alla sinistra ed ai comunisti.
In altre parole abbiamo cercato di ripristinare quella fondamentale relazione tra teoria e politica, tra ipotesi strategica e le tattiche da adottare nelle situazioni concrete, tentando di contrastare quella tendenza alla autonomia del politico che ha prodotto tanti danni.
C’è però anche un altro importante motivo per cui abbiamo deciso di tenere ora la nostra assemblea nazionale. Siamo stati in questi anni quelli che non hanno creduto alla teoria del “meno peggio”, cioè di fronte all’antiberlusconismo agitato come clava nei confronti di chi non condivideva le posizioni del centrosinistra abbiamo sostenuto che, per quanto dannosa e da combattere da punto di vista di classe, la destra ed il suo blocco sociale non rappresentavano il paventato rischio di fascismo.
Non bisogna certo dimenticare che il fascismo non nasce nelle periferie dell’America Latina degli anni ’70 o in regimi dispotici dell’Africa e dell’Asia ma in Europa e nei paesi capitalisticamente avanzati come l’Italia e la Germania tra le due guerre mondiali.
Dal nostro punto di vista, dunque, non era possibile che nella costituente Unione Europea, da molti sottovalutata così come è stato sottovalutato il ruolo internazionale della moneta unica, l’Italia fosse la culla di un risorgente fascismo e di un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale guidato da Prodi.
Abbiamo visto in questi anni la debolezza strategica di Berlusconi e del suo blocco sociale, la contraddizione tra il capitalismo familistico e della piccola impresa della Casa delle Libertà e le caratteristiche dello sviluppo necessario delle forze produttive nei paesi imperialisti.
Abbiamo anche pensato, negli ultimi anni, che si stava prospettando un “appuntamento” per tutta la sinistra che avrebbe dovuto fare i conti con una situazione nazionale ed internazionale che avrebbe posto questioni strategiche lasciando poco spazio al tatticismo.
Da quanto accade in queste settimane ci sembra che questo “appuntamento” sia effettivamente giunto per la sinistra di governo, per quella antagonista e per il movimento di classe nel nostro paese e che sia necessario analizzare il passaggio politico che abbiamo di fronte per capire bene le condizioni e le possibilità che si offrono.
Analisi dell’attuale passaggio politico ed il nuovo contesto.
Nel proscenio della politica politicante del nostro paese stiamo vedendo attori che sembrano aver perso la bussola, che dicono una cosa e ne fanno un’altra, che si producono in spericolati salti mortali che li portano da una parte all’altra, insomma siamo nel pieno impazzimento della politica, soprattutto a sinistra. Tutto ciò ovviamente non è casuale, è la manifestazione di processi profondi sul piano politico, istituzionale e della società più in generale.
Come abbiamo già scritto nel documento preparatorio dell’assemblea con la nascita del governo Prodi e con la configurazione dell’Unione, congiuntamente all’avvio della trasformazione del PRC in Sinistra Europea, si chiude la fase aperta con la Bolognina e la liquidazione non solo del PCI ma anche del movimento degli anni ’70.
Il blocco sociale, politico e culturale della sinistra e dei comunisti nel nostro paese è sempre stato, nelle sue pur diverse espressioni, una parte consistente della società.
Imprimere repentinamente un carattere compiutamente socialdemocratico alla rappresentanza istituzionale, così come è stato fatto per il PDS, non poteva non causare delle reazioni non solo direttamente politiche ed identitarie ma anche di apertura di spazi elettorali lasciati liberi dalla scomparsa del PCI.
La sfida della “rifondazione” comunista richiedeva un livello alto di elaborazione e di capacità teorica e strategica. Alla domanda di massa di mantenere una prospettiva di reale cambiamento la risposta è venuta da una cultura politica che per noi era, ma poi lo ha dimostrato con i fatti, sostanzialmente subordinata all’esistente.
La risposta, perciò, fu concepita solo come salvaguardia dello spazio politico ereditato, ed in particolare di quello elettorale, che in realtà tradiva una nascosta assenza di volontà di muoversi verso una vera rifondazione teorica e pratica dei comunisti nel nostro paese.
Questa caratteristica della sinistra, accentuata dalla “diabolica” capacità tattica di Bertinotti, ha disgregato piano piano e con determinazione quel blocco politico e sociale “digerendolo” con innumerevoli smottamenti e piccole ma sistematiche modifiche fino a farlo divenire pressocchè irrilevante.
Questa dinamica non poteva non generare conseguenze: prima tra tutte una sempre più evidente contraddizione tra la base sociale storicamente data della sinistra, e quelle che sono diventate le sue rappresentanze istituzionali senza più esserne, però, al contempo quelle politiche.
E’ stato un processo durato circa quindici anni in cui si sono alternate varie fasi; l’ultima, quella antiberlusconiana, sembrava aver recuperato elementi di conflitto e di dialettica democratica nel nostro paese ma in realtà non è stata nient’ altro che una ennesima tattica per poter, una volta giunti al governo, continuare in forme diverse le stesse politiche della precedente maggioranza.
Questo è il nodo politico con il quale dobbiamo fare concretamente i conti: riuscire a definire una linea che ci consenta di aggiornare la nostra cassetta degli attrezzi e la nostra capacità di intercettare quelle energie sociali e politiche indispensabili a dare di nuovo un ruolo propulsivo all’azione dei comunisti in una delle “cittadelle” dell’imperialismo.
Questo nostro compito si trova ad essere espletato in un contesto difficile dove le riforme istituzionali e quella elettorale, come ha detto il nuovo presidente della repubblica appena eletto, dovranno essere bipartisan e maggioritarie ma dove anche lo stesso governo Prodi diviene precario, come ha dimostrato la recente crisi politica.
Anche i partiti della sinistra radicale, così come vengono comunemente definiti, dovranno o accettare tutto quello che verrà, riorganizzando l’Unione come somma del Partito Democratico più la Sinistra Europea, oppure sanzionare la propria sconfitta politica avendo portato acqua al mulino di un sistema sempre più moderato per poi esserne espulse.
L’ulteriore paradosso manifestato da questa tendenza all’omologazione definitiva dei gruppi dirigenti dei tre partiti della sinistra di governo – pur con alcune contraddizioni interne a nostro molto modesto parere attualmente non rilevanti – si scontra frontalmente con uno sviluppo che, soprattutto in assenza di una alternativa sociale, sta mostrando in modo palese tutte quelle contraddizioni che il marxismo ha individuato nella sua analisi del capitalismo.
La guerra come tendenza di fondo della competizione interimperialista e come mezzo di coercizione dei popoli e delle classi subalterne; il conflitto di classe ormai dislocato nei suoi termini oggettivi a livello internazionale, che ripropone sul piano materiale della condizione di classe l’internazionalismo del ‘900, all’epoca frutto della soggettività dei partiti e dei movimenti rivoluzionari; la questione ambientale, nel momento in cui entrano in gioco per la valorizzazione del capitale miliardi di esseri umani rimasti fino ad oggi ai margini della produzione di massa; il problema della democrazia come emergenza non nei paesi della periferia, dove viene esportata con le armi, ma anche nei paesi sviluppati dove si instaurano processi politici ed istituzionali sempre più escludenti.
Non ci soffermiamo più a lungo su queste ed altre contraddizioni poiché in questi anni abbiamo fatto lo sforzo di analizzare e cercare di comprendere le loro dinamiche; quello che appare incredibile, però, è che proprio quando questi processi escono dal cielo della teoria ed entrano addirittura nella vita quotidiana di tutti noi, con la pesantezza che conosciamo a partire dalle questioni sociali, la nostra sinistra “radicale” si ritrae e mostra tutta la sua evanescenza e sovrastrutturalità.
Noi crediamo, invece, che sia questo contesto che sta ricreando le condizioni per un necessario cambiamento sociale nelle forme e nei modi che sono propri dell’epoca storica che stiamo vivendo.
Il nodo della ricomposizione dei comunisti
I nodi principali che abbiamo di fronte sono quelli della soggettività e dell’organizzazione che nascono dalla necessità di individuare nuovamente la prospettiva storica della trasformazione sociale, ma che debbono fare i conti anche con l’esperienza storica del movimento operaio e dei partiti comunisti e rivoluzionari del secolo appena trascorso.
In questo senso come Rete dei Comunisti con il convegno dell’anno scorso “Il bambino e l’acqua sporca” abbiamo avviato una riflessione ed un’analisi che riteniamo fondamentali e che dovremo continuare a portare avanti nel tempo, poiché siamo convinti che la rimozione dei nodi di fondo, che si sono storicamente posti, non è accettabile e che non si esce dalle difficoltà senza la necessaria analisi e capacità critica.
D’altra parte sta affermandosi in forme nuove la questione della soggettività e dell’organizzazione tramite i conflitti politici e talvolta armati che si manifestano nel mondo. L’ America Latina, il Medio Oriente fino al continente Asiatico sono attraversati da molti e diversi processi rivoluzionari che ripropongono la prospettiva del cambiamento sociale e del Socialismo in questo XXI° secolo; come ripropongono anche la questione dell’internazionalismo ad una classe lavoratrice anch’essa ormai materialmente internazionalizzata.
Si ripresenta dunque la questione del partito inteso come intellettuale collettivo, come strumento della trasformazione ma inteso anche, dal nostro punto di vista, come risposta che non può essere preconfezionata e prescindere dal contesto storico in cui si manifesta concretamente.
Sappiamo bene che la risposta da noi scelta, una strutturazione a rete, non è all’altezza della situazione, che molti altri passaggi dovremo compiere e non certo da soli, soprattutto perchè viviamo in un paese imperialista con tutte le complicazioni che questo comporta.
Sappiamo anche che la costruzione di un partito, per essere veramente tale, può nascere solo da un processo che è reale e verificabile a posteriori, non crediamo in altre parole all’ autoproclamazione in partito senza averne verificato la funzione concreta.
Questo nostro approccio, strutturale e processuale, è lo stesso che ci fa tenere una posizione critica verso quella parte della sinistra che vede come unico orizzonte e metro di misura la contingenza politica; posizione questa che non si pone il problema della strutturazione sistematica intesa come costruzione della base materiale di una nuova identità di classe.
Risultato e prodotto dell’azione dell’organizzazione politica strettamente intrecciata con quella del blocco sociale oggi potenzialmente antagonista. Non condividiamo questa cultura politica perché, per un verso, porta verso il politicismo e, nell’altro, verso un antagonismo magari giusto e condivisibile nei principi ma sterile rispetto alla questione che riteniamo fondamentale dell’accumulo delle forze.
La Rete dei Comunisti
L’insieme delle questioni poste crea alla Rete dei Comunisti, intesa come struttura indipendente, una serie di problemi che deve saper affrontare e che vanno dalla continuità nel lavoro teorico e di ricerca al conflitto sociale e politico fino alla necessità di fronteggiare il tentativo di liquidare in Italia ogni esperienza comunista, che vede il punto d’ attacco principale nella formazione della Sinistra Europea. Tutto questo ci spinge a mettere in evidenza quale debba essere il carattere di una organizzazione comunista nel nostro paese ma che riteniamo sia, probabilmente, valido anche per gli altri paesi occidentali.
In questo senso crediamo che questo carattere debba essere necessariamente militante: la riproposizione di un partito comunista di massa, così come si è configurato dal dopoguerra fino agli anni ’80, porterebbe inevitabilmente alla prevalenza degli elementi politici contingenti, a cominciare da quelli elettorali, su quelli della strategia e dell’organizzazione così come l’abbiamo prima descritta.
Nella attuale condizione storica il partito di massa, per i comunisti, non può essere nient’altro che il brodo di coltura del politicismo e della subordinazione in quanto l’arretramento sociale, politico e culturale complessivo che stiamo vivendo non può che far indietreggiare anche la progettualità del partito stesso, come stanno a dimostrare in modo lampante i nostri partiti comunisti al governo.
Siamo anche coscienti della difficoltà che possono derivare da una simile impostazione che rischia di apparire limitante in una fase in cui, invece, si stanno liberando energie importanti ai fini della costruzione di una politica alternativa e di classe; queste nuove possibilità pongono infatti problemi qualitativi e quantitativi di non poco conto ad una struttura come la nostra per riuscire a tenere testa agli sviluppi potenziali.
Nonostante ciò riteniamo che non sia possibile modificare l’impostazione militante della RdC perché, nella crisi di orientamento che comunque si vive in generale, la necessità di fare verifiche sul lavoro e sul progetto politico non può che essere affidato ad una struttura militante, non perché sia depositaria della verità, non azzardiamo tanto, ma perché c’è bisogno di un metodo di lavoro e di costruzione organizzata che è un riferimento fondamentale.
Per noi si pone, dunque, un problema di ridefinizione delle strutture di lavoro, locali e nazionali, e di coordinamento politico della RdC in quanto abbiamo vissuto in questi mesi un processo di crescita diretta e dei rapporti che, pur mantenendo il carattere militante, ci porta a rafforzare la direzione collettiva del lavoro.
Questo processo organizzativo interno però non rappresenta una chiusura, al contrario esso parte dalla coscienza che una crescita effettiva è possibile solo allargando il confronto e le relazioni e ne è il suo presupposto.
In questo senso nel documento preparatorio dell’Assemblea Nazionale abbiamo ipotizzato altri piani d’ intervento, non direttamente nostri, ma da costruire in collaborazione con tutti coloro che si trovano nella nostra stessa prospettiva. Intendiamo, perciò, sostenere quelle ipotesi associative che stanno nascendo con l’obiettivo di riaprire il confronto a tutto campo; ipotesi sostenute dalla coscienza che non è oggi possibile arrivare a strette politiche ed organizzative, anche a causa delle disillusioni che i militanti della sinistra hanno accumulato in questi anni.
Auspichiamo inoltre che il moltiplicarsi di queste realtà sia propedeutico ad un momento di coordinamento tra le diverse forme associative per rafforzare il confronto generale sulla politica e le iniziative della sinistra e dei comunisti in Italia.
Abbiamo anche formulato nel documento la proposta di un coordinamento con tutte quelle forze comuniste che vogliono misurarsi su un piano d’organizzazione definendo punti di confronto e di iniziativa comune sui vari terreni del conflitto sociale e politico nel nostro paese.
Sappiamo bene che questo è un terreno affatto facile anche perché esistono esperienze e punti di vista molto diversificati ma, nonostante ciò, noi riteniamo che sia possibile tentare una tale strada, grazie alle nuove condizioni generali, che spingono obiettivamente in avanti, in una situazione inedita e che impone se non l’unità almeno il confronto.
Blocco sociale e rappresentanza politica.
Quando parliamo della necessità di non separare l’elaborazione teorica dall’azione politica una delle questioni a cui ci riferiamo e che riteniamo centrale è quella che sul documento abbiamo definito il nodo “gordiano” della rappresentanza politica. Come abbiamo più volte detto non crediamo possibile, nelle condizioni storiche date nell’occidente capitalistico, una sintesi generale diretta da parte dei comunisti così come lo è stato nei decenni passati.
Anche sul piano della politica pensiamo sia necessario uno specifico momento d’ organizzazione che abbiamo più volte definito come rappresentanza politica del blocco sociale, potenzialmente antagonista nel nostro paese; blocco che abbiamo anche cercato di tratteggiare nelle sue caratteristiche fondamentali.
Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che questo rappresenta il punto più ostico del conflitto di classe che attraversa tutta la società italiana. La costruzione di questo “fronte” di lotta risulta molto complesso e non può prescindere dall’incremento delle contraddizioni che si sviluppano nella nostra società e da una crisi di egemonia del capitale che pure si manifesta.
L’affermazione di una espressione realmente indipendente del mondo del lavoro e dei settori sociali popolari richiede probabilmente una fase di accumulo di forze, di costruzione di momenti anche settoriali di conflitto politico che già da tempo si stanno manifestando ma che non riescono ancora a trovare i necessari momenti e strumenti di sintesi.
Il conflitto nei posti di lavoro contro le conseguenze della concertazione, le lotte diffuse del precariato e per la conquista dei diritti sociali, il movimento contro le guerre, la questione della immigrazione, le lotte specifiche che sono il riflesso di una situazione generale come le mobilitazioni contro le discariche nel meridione o contro la TAV in Val di Susa e, per ultima, la lotta contro la costruzione della nuova base di Vicenza, non sono più solo momenti vertenziali ma stanno diventando momenti di scontro politico che talvolta coinvolgono ed aprono contraddizione negli stessi partiti di entrambi gli schieramenti politici.
La politicizzazione dei conflitti è evidente ed è rispetto a questo che bisogna saper agire sia per ritrovare un ruolo politico per i comunisti sia per affermare un processo unitario ed una rappresentanza nettamente indipendente dal bipolarismo.
Bisogna però sapere che, rispetto alle possibilità d’ indipendenza che emergono da queste dinamiche, grande è la responsabilità dei partiti della sinistra, gli unici che ora potevano compiutamente raccogliere questa richiesta politica di massa che pone oltre ai problemi concreti anche la questione di fondo della democrazia e di chi debba decidere in questo paese.
La loro partecipazione al governo Prodi, il voto a sostegno degli interventi militari all’estero, la pesantissima finanziaria 2007, l’internità alla svolta moderata e centrista di Prodi, dopo l’ultima artefatta crisi politica, hanno creato tra gli elettori di sinistra una sfiducia che per un verso offre ulteriori spazi di manovra alle forze centriste, alla Confindustria ed alla Chiesa più conservatrice, e dall’altro mina esplicitamente la stessa base e la tenuta elettorale dei tre partiti di sinistra.
E’ talmente chiara questa prospettiva che proprio in questi giorni sta montando un dibattito, basato su formule politiche quali la sinistra unita, il rilancio della costituenda sinistra europea ed altre ipotesi ancora, che evidenzia la crisi vera e propria in cui si trova oggi la sinistra di governo.
L’ennesimo escamotage per trattenere negli stessi recinti organizzativi e nelle stesse logiche che hanno prevalso finora, una falsa soluzione destinata, peraltro, ad aggravare gli elementi di crisi di oggi.
Noi non siano interessati a formule astratte, siamo invece fortemente convinti che la ripresa di un processo concretamente unitario che riguardi una sinistra coerente, i comunisti ed il movimento democratico nel nostro paese possa avvenire solo se si ricuce il rapporto con il blocco sociale, con il mondo del lavoro, con i settori popolari cioè, in altre parole, se si ridà “anima e corpo” ad una rappresentanza politica indipendente.
Non sappiamo e nemmeno crediamo che questa sinistra abbia la forza di ricostruire questo rapporto con i settori di classe della società; quello che abbiamo chiaro, oltre l’evidente sproporzione delle forze, è che questo processo di ricostruzione necessita dell’organizzazione del conflitto sociale, della lotta contro la guerra, di un programma e della ricostruzione d’una identità collettiva, tramite processi di partecipazione e di lotta.
Tali processi non possono essere necessariamente condizionati da una rappresentanza istituzionale ed elettorale che non è automaticamente sovrapponibile alla rappresentanza politica che noi ipotizziamo. Non è certo un caso che proprio la questione elettorale è quella dove più si concentra l’attenzione per restringere gli spazi di democrazia.
Coscienti delle difficoltà che pone il nodo della rappresentanza pensiamo che sia necessario continuare nell’approfondimento, nel confronto e soprattutto nella esperienza e nelle verifiche concrete per trovare una risposta ad una esigenza obiettiva ma che viene resa sempre più complicata dagli sviluppi del nostro sistema politico.
Conflitto sociale ed organizzazione
Se il piano politico-istituzionale si presenta più difficile dove, invece , emergono grandi opportunità di crescita e di sviluppo organizzato è sul piano del conflitto sociale che è filtrato in tutta la società e che è il terreno su cui è possibile ritrovare un ruolo generale e di ricomposizione dei settori di classe e del blocco sociale.
Paradossalmente dagli anni ’90 abbiamo vissuto un ribaltamento di ruolo tra la politica ed il conflitto sociale. Negli ultimi decenni del secolo scorso eravamo abituati a vedere il punto di scontro più avanzato sul piano della politica, intesa come ipotesi di alternativa al capitalismo; mentre il conflitto di classe era il corollario ed il punto di unificazione con i settori più ampi, ma anche più arretrati, della società.
Il sindacato ed il conflitto di classe che ne derivava erano il momento privilegiato dove i militanti delle diverse organizzazioni politiche esercitavano la funzione di collegamento con le ipotesi di trasformazione.
Oggi la situazione è invertita completamente in quanto la politica è divenuta il luogo di mediazione istituzionale finalizzato generalmente alla riproduzione dei gruppi dirigenti, e dunque deve tenersi ben distante dai momenti di conflitto e di rottura effettivamente radicale; mentre la ripresa delle contraddizioni prodotte da uno sviluppo capitalistico senza freni fanno riemergere con forza lo scontro sociale spesso in forme inedite anche nei paesi sviluppati.
Ne consegue che seppure i lavoratori ed i settori sociali, sul piano della coscienza individuale e collettiva non sono affatto più avanzati di ieri, sul piano, invece, del loro ruolo oggettivo emerge che il conflitto sociale concreto è politicamente molto più incisivo di quanto lo sia quello più strettamente politico.
Questa condizione rappresenta una importante “finestra”, un’ opportunità, in una fase in cui invece prevale il pessimismo e la disillusione verso ogni ipotesi di trasformazione o addirittura di possibilità d’ incidere nella realtà attuale.
Il sindacalismo di base nei posti di lavoro, l’organizzazione del precariato sempre più diffuso, le contraddizioni sociali nelle aree metropolitane, le lotte ambientaliste nei territori sempre più degradati, le privatizzazioni dei servizi sociali ed il ridimensionamento dello stato sociale, ed altro ancora, sono i terreni concreti su cui costruire strutture organizzate, conflitto sociale diffuso, un’ identità indipendente ed antagonista e produrre quell’accumulo di forze necessario ad ogni possibile ripresa politica.
Tutto ciò può significare anche ritrovare, per i comunisti, una funzione reale ed avanzata rispetto alla società, così come questa si configura oggi, a condizione però che si abbandoni quella cultura politica che concepisce il solo elemento della rappresentazione, delle relazioni tra partiti e gruppi politici e della sovrastruttura politica abbandonando ed ignorando l’importanza della costruzione sistematica delle strutture e del conflitto di classe, cultura questa che può presentarsi anche come antagonista e radicale ma che fa solo trasparire la propria subordinazione alla cultura dominante.