Rete dei Comunisti
Il documento politico della Rete dei Comunisti che verrà presentato all’assemblea di sabato prossimo 31 maggio 2008 al Centro Congressi Cavour (via Cavour, 50/a), Roma, ore 10.00
SOMMARIO
- Le cause di una catastrofe politica
- Gli effetti del contesto internazionale
- Una mortale coazione a ripetere
- Una rottura culturale con l’ipotesi riformista tra i comunisti e nella sinistra
- Le nostre proposte per un accordo politico
- Un dibattito leale sull’unità dei comunisti
- L’unità possibile nasce dalla costruzione di una teoria adeguata al- la fase storica
- I comunisti e la classe reale
- La soggettività dei comunisti dentro e non fuori i movimenti politici e sociali
L’Italia è diventata un paese “normale” così come veniva invocato anni fa da Massimo D’Alema e dai poteri forti? Gli esiti del processo avviatosi negli anni scorsi e passato attraverso la tornata elettorale di aprile sembrerebbero dire di sì. Anche se il nuovo governo Berlusconi sembra entrare nuovamente in contrasto con lo “spirito europeo”, in realtà in Italia si è prodotta una normalizzazione politica fortemente ispirata ai e dai poteri forti del capitalismo così come già avvenuto nel resto d’Europa. L’imposizione del bipartitismo e l’eliminazione delle variabili politiche (tra cui una sinistra radicata nella società), è stato un progetto perseguito, da questi apprendisti stregoni, durante tutti gli anni ’90 parallelamente alla destrutturazione antisociale dell’economia e del mercato del lavoro.
In questo senso, i risultati elettorali di aprile non possono apparire una sorpresa se non nella dimensione decisamente “catastrofica” assunta dai voti raccolti dai partiti della sinistra istituzionale (PRC, PdCI, Verdi, SD).
Le spallate in direzione del bipartitismo, il sistema maggioritario e la governabilità a tutti i costi, sono state perseguite sia dal blocco veltroniano che da quello berlusconiano. Il primo si faceva forte della sua capacità di governance dei conflitti sociali presso i gruppi capitalisti, il secondo – in modo più tradizionale – di una gestione securitaria delle contraddizioni e dei conflitti stessi. La seconda opzione ha vinto ampiamente perché quando prevale la paura e la crisi comincia a mordere la società nel profondo dei suoi interessi materiali e quotidiani, le forze reazionarie sono quelle storicamente meglio attrezzate ed adeguate a gestire situazioni di questo tipo.
Ma tale situazione non è una anomalia italiana, è esattamente la tendenza in atto in tutti i paesi europei dove – coerentemente con la nascita di un polo capitalista ormai estremamente integrato – hanno prevalso o stanno prevalendo le forze conservatrici e reazionarie e scompaiono o vengono ridotte al lumicino le forze della sinistra. Certo esistono alcune eccezioni come l’esecutivo Zapatero in Spagna, la Linke in Germania o la tenuta dei comunisti in Grecia e Portogallo, ma sono esperienze estremamente diverse tra loro e non capaci di rappresentare o avviare una controtendenza in Europa.
Le cause di una catastrofe politica
Per i partiti della sinistra istituzionale che avevano scelto di presentarsi insieme nella coalizione Sinistra Arcobaleno, il disastro politico oltre che elettorale è stato pesantissimo sia per le cause che per le conseguenze che iniziano a palesarsi.
Sul piano congiunturale PRC, PdCI, Verdi e SD hanno pagato il prezzo della loro partecipazione e della loro subalternità al governo Prodi. Avendo scelto di essere presenti con ministri, viceministri e sottosegretari in un esecutivo fortemente subordinato ai diktat della Banca Centrale e dell’Unione Europea, della Confindustria e dell’ABI, non era possibile diversificare le loro responsabilità da quelle di un governo che aveva scelto come priorità il rispetto dei parametri macroeconomici dettati dalle istituzioni finanziarie europee, la continuità con la destrutturazione del mercato del lavoro e la prosecuzione degli impegni militari assunti con la NATO, gli USA e Israele.
Il doppio voto a favore del mantenimento della missione militare in Afghanistan, il pieno sostegno all’invio dei soldati italiani in Libano, la non opposizione sulla nuova base USA di Vicenza, il voto a favore del protocollo sociale del 23 luglio su pensioni e precarietà in nome della lealtà al governo Prodi (e alla logica della governabilità), hanno completamente disatteso le aspettative del popolo della sinistra e dei lavoratori ed hanno rivelato dolorosamente l’impossibilità di introdurre cambiamenti significativi attraverso l’azione di governo. Tutto questo con buona pace della teoria di Bertinotti che prevedeva un esecutivo governativo permeabile dai contenuti dei movimenti sociali.
Infatti il governismo ha prevalso sulla autonomia della sinistra strappando e rompendo in più punti la “connessione sentimentale” tra gli apparati dirigenti dei partiti della sinistra, il loro elettorato e il loro stesso popolo. I segnali di questa rottura erano stati evidenti nell’assemblea nazionale contro la guerra del luglio 2006 (alla vigilia del primo voto sull’Afghanistan) e poi – ancora più clamorosamente – con la manifestazione del 9 giugno 2007 contro la visita di Bush a Roma.
Fausto Bertinotti ha cercato sdegnosamente di liquidare questi segnali accusando settori di movimenti sociali e della soggettività comunista che si opponevano alle scelte del governo Prodi, di essersi posti “fuori dalla comunità politica”. Raramente dosi tanto ampie di ipocrisia,
miopia e supponenza sono riuscite a convergere intorno ad un solo soggetto e a produrre tanti danni in così pochi anni. Occorre però riconoscere onestamente che tutto questo non porta la responsabilità del solo Bertinotti ma ha potuto contare su complicità e condivisioni esplicite di ambiti assai ampi della sinistra: dalla maggioranza del PRC al Manifesto, dagli ex DS che daranno vita a Sinistra Democratica a pezzi di movimenti e di alcuni centri sociali che vivono in modo subalterno e depotenziante per il conflitto sociale la sindrome ossessiva della “sponda istituzionale”.
Forte di questa complicità, il PRC soprattutto, ha tentato la carta della rivalsa contro i movimenti e le soggettività “dissonanti” attraverso la convocazione della manifestazione del 20 ottobre 2007 che doveva salutare l’avvio dell’alleanza Sinistra Arcobaleno e rimettere sotto il controllo della “comunità politica” il popolo della sinistra che il 9 giugno aveva emarginato a piazza del Popolo i propri quartieri generali. Ma anche qui, il voto a favore del Protocollo del 23 Luglio su pensioni e precarietà e la decisione di liquidare d’imperio il simbolo della falce e martello è entrato nuovamente in collisione con le aspettative evocate da settori rilevanti della stessa manifestazione del 20 ottobre. Un ennesimo atto di subalternità (verso il governo Prodi e la CGIL) e di supponenza (verso i movimenti sociali) che è si ripetuto con l’aperta ostilità contro lo sciopero generale del 9 novembre 2007 convocato dai sindacati di base.
Ma la cronaca politica dei due anni di partecipazione e subordinazione al governo Prodi non spiega il tutto. La cultura e l’azione politica che hanno portato alla catastrofe la sinistra istituzionale hanno natura, radici e ragioni più lontane.
Dal 1995 – una volta assunto Bertinotti come segretario attraverso una procedura più simile a quella all’assunzione di un manager che ad un processo di formazione di un gruppo dirigente – il PRC, a fronte dello scioglimento del PCI, ha progressivamente trasformato il proprio ruolo da una possibilità di tenuta di una presenza/identità politica comunista e di sinistra ad un processo di liquidazione della stessa. L’alternativa a questa liquidazione non poteva essere rappresentata dal tentativo operato dalla scissione del PdCI nel 1998 di riproporre una opzione più simile a quella del PCI stesso a fronte dell’eclettismo dominante nel PRC. Abbiamo visto concretamente come la salvaguardia del-
l’identità “comunista” tradizionale si combini spesso – e assai malamente – con il pragmatismo, un pragmatismo che –storicamente – ha spesso rappresentato l’altra faccia della subalternità piena e convinta all’ipotesi riformista.
E’ sufficiente rammentare come ogni volta che si è dovuta giustificare una svolta e un arretramento politico si è ricorso ai giudizi dei “padri nobili” della sinistra italiana come Vittorio Foa e Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Valentino Parlato.
In entrambi i partiti (PRC e PdCI) abbiamo così visto prevalere la mutazione genetica del proprio corpo militante (e dei gruppi dirigenti che ne sono espressione e non contraddizione). La scomparsa della militanza, la liquidazione della funzione di avanguardia reale nei conflitti, il funzionariato come forma dominante di partecipazione alla politica, la trasformazione dei partiti in apparati elettorali in cui i gruppi parlamentari decidono di più degli organismi dirigenti, la prevalenza dell’elettoralismo e della subalternità alla Cgil sull’organizzazione, l’indipendenza e il protagonismo nei conflitti sociali, la cooptazione piuttosto che la formazione dei militanti e dei dirigenti, hanno completamente depotenziato e interrotto il nesso tra politica e classe, tra militanti comunisti e blocco sociale antagonista.
Alcune fortunate congiunture elettorali (la desistenza nel ’96 e l’internità all’Unione nel 2006), hanno consentito per almeno dieci anni di accumulare un discreto patrimonio elettorale che si è andato però sempre più riducendo fino alla catastrofe dell’ aprile scorso e che di anno in anno ha segnato una crescente omologazione politica e culturale sulle opzioni riformiste sempre più diluite.
A questo punto una domanda si impone a tutte le compagne e i compagni attivi nel nostro paese. L’orizzonte riformista (spesso ridotto ad un mero profilo progressista) è l’unico praticabile in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia e integrato nell’Unione Europea? Se la risposta è affermativa dovremmo ammettere che – pur con tutte le sue contraddizioni – la strategia perseguita dal PRC e dal PdCI, peraltro nemmeno coerentemente praticata, era l’unica possibile.
Se la risposta è negativa abbiamo il dovere di entrare in profondità nell’analisi e nella comprensione di quale può essere concretamente la funzione e la strategia dei comunisti nel XXI° Secolo in un paese a capitalismo maturo come l’Italia.
Gli effetti del contesto internazionale
L’esito politico della sinistra italiana e dei partiti comunisti non può essere spiegato se non si fa uno stretto collegamento con le mutate condizioni internazionali e con gli effetti che queste hanno prodotto all’interno di ogni singolo paese. I piani principali su cui hanno agito questi effetti sono sostanzialmente tre, e questi hanno determinato una profonda modifica del contesto obiettivo in cui agisce la sinistra italiana ma anche quella internazionale.
Il primo è quello della mondializzazione dei processi produttivi che nella fase storica precedente avevano una base sostanzialmente nazionale. La cosiddetta globalizzazione ha “spalmato” la produzione complessiva a livello internazionale dilatando la “classe” dalla dimensione nazionale a quella internazionale. Questa profonda modifica ha cambiato le condizioni dei lavoratori e delle classi subalterne nei paesi a capitalismo avanzato, nella nuova divisione del lavoro, queste sono impegnate oggi in una sezione della produzione che non è più quella delle merci, come avveniva nel periodo fordista, ma nei settori “alti” della produzione tecnologica, dei servizi e della commercializzazione. Tutto ciò ha prodotto una discontinuità con il periodo precedente non solo sul piano della condizione materiale e lavorativa ma anche sul piano della identità, della coscienza riflessa del proprio ruolo sociale e dunque della ideologia.
Il secondo elemento è stato la nascita del blocco economico e politico europeo, ovvero la concretizzazione della Unione Europea avuta negli anni ‘90, un processo che – sebbene ancora incompiuto – rappresenta un passaggio strategico fondamentale. I giudizi rispetto alla UE sono stati e sono tuttora improntati alla totale sottovalutazione. Si continua ad affermare che l’Europa è debole, subordinata agli USA, incapace militarmente.
Questa valutazione rimuove gli effetti che si stanno producendo soprattutto sul piano finanziario attraverso l’euro che può viaggiare verso un cambio sui due dollari. Tutto ciò impedisce di vedere i margini economici che si creano a seguito dei processi di riorganizzazione industriale e finanziaria, – come sta accadendo ad esempio nel settore del trasporto aereo – nasconde il processo di riorganizzazione militare che passa attraverso il rafforzamento delle industrie del settore e l’aumen-
to della spesa bellica (vedi le performance della Finmeccanica anche negli USA) e, soprattutto, non vede l’effetto ideologico che produce nelle classi subalterne le quali si trovano di fronte ad una dimensione istituzionale irraggiungibile come quella continentale.
Infine l’affermazione della competizione globale, ovvero della storica competizione interimperialistica, manifesta i limiti e le contraddizioni dello sviluppo capitalista che si concretizza nella guerra, nella instabilità internazionale ed in un peggioramento delle condizioni delle classi subalterne (dalla periferia fino al cuore dei paesi imperialisti) che producono degrado e competizione tra gli sfruttati sia negli ambiti nazionali che internazionali come avviene con i processi migratori. Anche se non è possibile definirne i tempi, questo processo regressivo appare per molti versi irreversibile.
In sintesi, i cambiamenti avutisi nell’ultimo ventennio vanno ben oltre il piano della “politica” della nostra sinistra, la quale si è ridotta ad adottare una mera tattica per l’usufrutto dei “margini” lasciati dalla storia novecentesca del movimento operaio e delle sue organizzazioni. I nostri partiti insomma si sono limitati a sperperare il capitale di famiglia fino al suo esaurimento manifestatosi nelle elezioni politiche di Aprile.
Una mortale coazione a ripetere
In questi anni, dunque, ci siamo trovati di fronte ad un corto circuito che non è stato compreso, non si è voluto vedere oppure semplicemente non poteva essere visto dai protagonisti della nostra vita politica a sinistra, ovvero dai due partiti comunisti esistenti a livello della “comunità politica”. Infatti mentre questi partiti continuavano nella coazione a ripetere dei riti politici della rappresentanza istituzionale, che nel nostro paese hanno significato sostanzialmente l’agire del partito di massa, non si vedeva la modifica in atto nella composizione di classe nel nostro paese né tutte le conseguenze che da questa potevano derivare.
Il modo di fare politica, la forma dell’organizzazione politica, i meccanismi stessi di esistenza dei partiti sono rimasti immutati rispetto al modello di partito comunista di massa praticato nella seconda metà del ‘900. La differenza sta nel fatto che mentre in quella fase storica c’era
una corrispondenza netta tra base sociale – di classe – e partito di massa con i suoi meccanismi anche di tipo istituzionale, oggi, di fronte alla immutabilità ed alla coazione a ripetere, corrisponde una realtà sociale in forte movimento e che va da tutta altra parte.
Quella che è stata la base sociale storica del partito comunista e delle forze di sinistra anche extraparlamentari, è stata infatti sottoposta in questi anni ad una pressione strutturale nazionale e internazionale che l’ha portata a dividersi sul piano della condizione e della identità.
Una parte, che potremmo definire di “aristocrazia salariata”, è portata a fare scelte nettamente “socialdemocratiche” e moderate. Un’altra parte invece, che viene messa alla mercè del mercato, vede un peggioramento delle proprie condizioni e tende a radicalizzare le proprie posizioni e la difesa della sua condizione. Questa è ovviamente una schematizzazione delle tendenze le quali in realtà sono molto dinamiche, variabili e strettamente legate ai cicli economici ed ai loro effetti.
Tale separazione ha spiazzato l’attuale sinistra che da una parte non poteva seguire fino in fondo le prospettive dei settori moderati (pena l’annullamento politico), settori che oggi assumono come riferimento il Partito Democratico sulla base del voto utile. D’altra parte non poteva seguire i settori sociali che si andavano radicalizzando altrimenti sarebbe rimasta tagliata fuori dalla “comunità politica”, come direbbe Bertinotti, ovvero dai finanziamenti pubblici e dallo status sociale del suo ceto politico.
Naturalmente l’effetto obbiettivo di questa scelta è stato quello di spingere i settori più proletari ed operai nelle braccia della destra.
L’attuale catastrofica sconfitta elettorale è dunque il prodotto diretto della scelta di aver evitato coscientemente di affrontare il nesso tra la forma della rappresentanza politica e le dinamiche di classe reali che – seppure in modo diverso da come è stato esercitato alla fine del ‘900 – vanno verso una radicalizzazione dello scontro, Questo è stato il punto teorico e politico che è stato sistematicamente rimosso in quanto avrebbe potuto rimettere in discussione l’essenza stessa del partito di massa, non per quello che è stato utilmente nel secolo passato ma per come è inutilizzabile in questo momento storico.
Una rottura culturale con l’ipotesi riformista tra i comunisti e nella sinistra
I risultati elettorali di aprile non sono una sorpresa ma – come direbbe un noto intellettuale novecentesco– una rivelazione di quello che c’è nella pancia profonda della società italiana.
Di fronte al drastico peggioramento delle condizioni materiali di vita e alla crisi morale che ha investito l’Italia da almeno quindici anni, la reazione dei settori popolari poteva, presumibilmente, muovere in due direzioni: una reazionaria, l’altra di rottura radicale.
Sulla seconda pesano fortemente una immensità di ostacoli oggettivi e soggettivi che agiscono concretamente nella realtà del nostro paese.
In questi anni, attraverso l’analisi e l’inchiesta di classe effettuata sul campo sia con gli strumenti delle moderne scienze sociali sia attraverso una militanza attiva di almeno trenta anni, abbiamo cercato più volte di inquadrare la realtà sociale in cui – come comunisti e come sinistra anticapitalista – siamo chiamati ad agire politicamente e concretamente nel nostro paese e nel contesto europeo.
In Italia le attuali forme del liberismo si sono imposte con dieci anni di ritardo rispetto ad altri paesi, perché hanno incontrato sulla sua strada tutti gli ostacoli rappresentati dall’anomalia italiana: un partito comunista di stampo dichiaratamente riformista ma con grande radicamento sociale, una sinistra extraparlamentare diffusa e con una certa capacità di influenza, un movimento di classe variamente articolato che si era conquistato diritti sociali e civili importanti dai quali non ha inteso recedere senza combattere.
Ma questa “resistenza sociale” agli spiriti animali del capitalismo, ha dovuto sempre fare i conti con una sovrastruttura culturale (e politica) che ha veicolato l’orizzonte riformista come l’unico possibile. Ogni possibilità di rottura del sistema dominante è stata ricondotta alla dimensione della rappresentazione elettorale e ad una idea dell’accumulazione delle forze come processo interminabile, senza orizzonti temporali, in cui la soggettività non entrava mai in campo per dirigere i processi in una direzione piuttosto che in un’altra ed in cui era sufficiente un incidente di percorso per ricominciare sempre da capo.
Questa tipologia di cultura politica ha prodotto effetti profondi sulla soggettività dei lavoratori e sulla formazione dei militanti.
Sarebbe però un errore clamoroso omettere che per un lungo periodo tale cultura politica riformista è stata in sintonia con la composizione di classe assunta dalla società e con le sue ricadute immediate sul piano dell’espressione politica ed elettorale.
L’Italia fino ai primi anni ’90 è stata una società con una forte prevalenza dei ceti medi, una prevalenza dovuta al fatto che pezzi consistenti di lavoratori salariati erano stati integrati dentro la condizione materiale e culturale delle classi medie (è sufficiente pensare ai lavoratori dei servizi a rete o del pubblico impiego) e che la borghesia ha utilizzato queste classi medie per isolare e destrutturare i lavoratori salariati dell’industria.
La cooptazione delle classi medie nella modernizzazione del sistema – ispirata, prevalentemente, dal craxismo – sono state decisive per la sconfitta degli operai Fiat nel 1980, l’avvio dei processi di ristrutturazione a largo raggio e per l’abolizione dell’istituto della scala mobile nel 1984/85.
L’uso abnorme della spesa pubblica in questo processo di cooptazione sociale di pezzi di lavoro salariato dentro il progetto della modernizzazione capitalista dell’Azienda/Italia, è stato evidente fino a quando – nel 1992 – il segno di questa fase della modernizzazione in Italia ha assunto il carattere aperto del liberismo, delle privatizzazioni, della riduzione della quota di ricchezza destinata al lavoro a tutto vantaggio dei profitti, delle rendite e del generale processo di valorizzazione capitalistico.
La rottura del compromesso sociale in funzione antioperaia, è avvenuta sia sul piano del sistema politico (Tangentopoli, referendum per l’introduzione del sistema maggioritario) sia sul piano sociale con l’avvio delle Leggi Finanziarie d’urto dettate dai parametri di Maastricht.
Una volta regolati i conti con i lavoratori salariati dell’industria (anche attraverso una estesissima delocalizzazione delle filiere produttive), si è passati alla destrutturazione selvaggia dei lavoratori dei servizi strategici (energia, trasporti, telecomunicazioni, credito) attraverso le privatizzazioni, le esternalizzazioni e la diffusione di una crescente precarietà. Più recentemente è stata avviata lo smantellamento dell’ultimo settore di rigidità della forza lavoro ossia i lavoratori della pubblica amministrazione.
Questa lotta di classe del Capitale contro il Lavoro, ha polverizzato la vecchia mappa sociale fondata sulla prevalenza dei ceti medi ed ha provocato una brusca polarizzazione sociale che presenta tratti di vera e propria proletarizzazione di quote sempre più ampie di lavoratori, di precari e registra l’emergere di nuove forme di povertà.
Gli effetti di questa proletarizzazione acuiscono nitidamente il carattere di classe del conflitto sociale e ne aumentano enormemente le possibili potenzialità. Ma questo processo non ha incontrato sulla sua strada né al suo fianco una soggettività comunista e anticapitalista adeguata a coglierne le domande, la rabbia, la voglia di rivalsa e l’insicurezza sociale, al contrario ha trovato invece una soggettività e una sovrastruttura culturale reazionaria (e per molti aspetti fascista, razzista e xenofoba) che ne ha intercettato le spinte, le paure e le rabbiose doglianze.
Oggi i lavoratori e le loro famiglie si trovano apertamente in competizione in termini di salari, di spazio e di usufruibilità dei servizi con i lavoratori migranti e le loro famiglie. E’ una competizione in basso innescata e alimentata dalle politiche di riduzione del monte salari e di taglio e degrado dei servizi sociali, degli alloggi popolari e dei trasporti pubblici.
A questa realtà sociale rabbiosa e per molti aspetti impotente, il PD e le giunte locali di centro-sinistra hanno offerto l’appiattimento sulla logica securitaria e l’islamofobia incentivata, sul piano culturale e dell’immaginario, dal clima della guerra permanente scatenato dagli USA, mentre i partiti della sinistra istituzionale – ormai scomparsi dal territorio in quanto mutatisi in apparati elettorali e di funzionariato – hanno offerto i parametri del politically correct e della subordinazione alle scelte nazionali e locali dei tagli dei servizi e dei salari. Dunque discorsi perlopiù incomprensibili dai ceti sociali popolari e nessuna misura concreta né indicazioni di lotta e contrasto al razzismo e alla generalizzazione delle incontrollabili paure collettive.
E’ opportuno inoltre segnalare come la cultura riformista dominante nella sinistra e l’egemonia della nonviolenza abbiano completamente depotenziato le nuove generazioni di attivisti privandoli della coscienza e della determinazione necessarie ad affrontare i crescenti fenomeni di squadrismo neofascista, particolarmente nelle periferie delle grandi aree metropolitane.
Infine, la partecipazione di ben due partiti comunisti (PRC e PdCI) al governo Prodi, alle giunte locali di Veltroni, Cofferati, Bassolino etc., ha prodotto un effetto devastante nella residua credibilità dei comunisti tra i settori popolari delle grandi aree metropolitane e nel paese, sia nel Nord in cui cresce la Lega sia nel Meridione dove cresce il PdL. In questa situazione recuperare credibilità per l’opzione comunista e anticapitalista tra i settori popolari e i lavoratori, non sarà affatto facile né scontato e sarà bene che tutti ne siano ben consapevoli prima di ricominciare con ragionamenti e ipotesi impregnate di autorefenzialità, politicismo e completamente avulse da ogni seria riflessione sullo stato delle relazioni tra comunisti e blocco sociale antagonista.
Il problema della ricostruzione di una autorevolezza politica dei comunisti e della sinistra anticapitalista tra i lavoratori e i settori popolari, rappresenta uno snodo decisivo del dibattito e delle proposte che come Rete dei Comunisti intendiamo avanzare. Si tratta di introdurre scelte strategicamente e tatticamente chiare nelle relazioni tra le forze dell’opposizione anticapitalista e nel rapporto con il blocco sociale antagonista. Il rischio che ci si limiti e ci si rinchiuda ancora nella prima area di problemi (le relazioni all’interno delle forze della sinistra e tra i comunisti) lo vediamo ben presente come ostacolo da rimuovere e da porre in una indissolubile dialettica con la seconda area di problemi (il rapporto con i settori popolari).
Poniamo con forza questi problemi di valutazione sul passato e di orientamento e per il futuro, perché siamo convinti che l’egemonia reazionaria e liberale possa essere combattuta con efficacia sul piano delle contraddizioni reali che agiscono nella società italiana e a livello europeo.
La proletarizzazione di milioni di lavoratori, la loro precarietà sul piano del lavoro, del salario, della casa e dei servizi, il crescente oscurantismo clericale e culturale su una società che bene o male ha respirato anche l’aria del progressismo, le minacce continue di una escalation della guerra e di un sempre maggiore coinvolgimento dell’Italia, sono basi concrete per costruire un polo di tenuta e resistenza politica, sociale e morale in questa nuova fase, un punto di resistenza che consenta alle soggettività oggi sotto pressione o demoralizzate di riprendere coraggio.
Le nostre proposte per un accordo politico
Avanziamo pertanto alcune proposte che in qualche modo delineano alcuni punti strategici comuni, utili, secondo noi, ad aprire un confronto ed una prospettiva e che rappresentano qualcosa di estremamente lontano da quello che spesso abbiamo definito “una lista della spesa” a cui non si dà mai seguito sul piano dell’azione politica concreta.
- La prima questione riguarda la collocazione politica dei comunisti e della sinistra anticapitalista. A nostro avviso entrambi non possono che essere strategicamente alternativi e indipendenti dal Partito Democratico e dal gioco bipartizan della governabilità e del “meno peggio”. La partecipazione ai governi nazionali e locali con il PD si è rivelata una scelta fallimentare che è stata pagata dolorosamente (i dati lo confermano e lo dimostrano) e che ha privato della capacità di azione politica, sociale e sindacale indipendente le forze che hanno accettato l’alleanza e la subalternità con il Partito Democratico.
- Va preso atto che oggi, in base anche alle analisi che abbiamo cercato sinteticamente di spiegare, il conflitto di classe materiale è politicamente più avanzato del conflitto direttamente politico, che peraltro oggi è praticamente inesistente. Sia dal punto dell’autonomia delle lotte nel territorio sia come elemento di rottura delle gabbie della governabilità, i conflitti sociali si sono spesso autonomizzati e addirittura scontrati con le sovrastrutture politiche esistenti. In alcuni casi questo ha prodotto una maggiore compattezza e radicalità sociale (Tav, Vicenza, vertenze territoriali, lotte dei precari e degli immigrati), in altri casi ha prodotto elementi di totale impossibilità di direzione e organizzazione politica (vedi le banlieues napoletane sui rifiuti). Se questo è vero appare evidente che un processo di ricomposizione di una sinistra anticapitalista e comunista non può che muovere i suoi primi passi da questa dimensione che ne diventa oggi anche la principale condizione di maturazione politica. E’ evidente che questo richieda una capacità unitaria di radicamento e di presenza attiva che ridia credibilità e riconoscimento sociale ai militanti ed alle avanguardie di classe sul territorio.
- La terza questione è la scelta dell’organizzazione e del rafforzamento del sindacalismo di base, indipendente e alternativo a quello concertativo e collaborazionista di Cgil Cisl Uil come progetto strategico. Il problema non è quello di sancire uno “strappo”con un tessuto di compagni e delegati combattivi ancora all’interno dei sindacati ufficiali (per quanto la normalizzazione sta riducendo ferocemente i margini di agibilità democratica e rappresentatività di questi compagni dentro quell’involucro). Il tema attuale è quello di prendere atto che i comunisti e i militanti anticapitalisti devono costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i lavoratori ed i settori popolari nel nostro paese per orientarli ed affrontare in modo organizzato il conflitto sociale. Per troppo tempo i comunisti si sono limitati a fare agitazione politica dentro i sindacati concertativi o si sono fatti assorbire da una interminabile battaglia interna di minoranza che non ha mai conseguito e stabilizzato livelli reali di organizzazione autonoma sul piano delle lotte e della prospettiva. Questa strada non ha prodotto i risultati sperati sul piano sindacale né su quello politico (se molti lavoratori si iscrivono alla Fiom ma poi votano per la Lega vuol dire che la contraddizione c’è tutta e non può continuare ad essere elusa dalla soggettività comunista).
La linea, implicita od esplicitata, che bisogna lavorare anche nei sindacati “reazionari”, nell’attuale contesto storico, non ha significato in quanto gli spazi democratici inesistenti bloccano ogni vera dialettica interna che possa realmente modificare la linea collaborazionista dei confederali, la modifica della composizione del mondo del lavoro riduce la rappresentanza dei sindacati storici per i quali invece i pensionati sono sempre più determinanti ed infine perché è evidente che ora le contraddizioni materiali che si manifestano non hanno certo un carattere di rottura e non possono spingere verso un ribaltamento delle scelte o delle direzioni politiche come può avvenire invece in momenti storici di forte conflitto politico e sociale.
Al contrario il sindacalismo di base (anche alla luce della riuscita assemblea nazionale unitaria di Milano del 17 maggio e delle proposte assunte collettivamente) ha dimostrato di essere una realtà consolidata anche se ancora divisa che in molti casi risponde all’esigenza di una identità politica e di classe dei lavoratori ancora più chiaramente di quanto abbia saputo fare la “politica” dei partiti della sinistra cosiddetta radicale. La scommessa da fare è, perciò, se oltre ad avviare un processo realisticamente unitario questo possa divenire anche un effettivo strumento di sedimentazione ed accumulo di forze ed organizzazione sociale.
Sul piano dell’organizzazione concreta del blocco sociale antagonista, assumono crescente interesse le sperimentazioni sul campo di una sorta di “sindacato metropolitano” ossia la messa in opera di nuove e più complesse modalità di affrontamento della contraddizione capitale/lavoro fuori dai tradizionali posti di lavoro ed in tutti gli interstizi sociali . Negli ultimi anni abbiamo sviluppato una analisi e una inchiesta piuttosto articolata sulla realtà delle aree metropolitane come territorio politico in cui quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono trovare una sintesi che fino a ieri era assicurata dalle grandi concentrazioni industriali. La crescente frammentazione della composizione di classe dei lavoratori, vede assumere nuova e maggiore rilevanza alla questione del salario sociale cioè a quel complesso di servizi, contraddizioni, esigenze che il salario monetario e il rapporto stabile con il luogo di lavoro non assicurano più come nella fase politica precedente al ciclo delle grandi ristrutturazioni. I precari, i giovani lavoratori intermittenti e le loro esigenze non trovano più nel posto di lavoro e nel lavoro stesso il luogo e il simbolo della loro identità collettiva e di classe. La ricomposizione di questa identità sociale frammentata può avvenire sul territorio qualora in esso agisca un “sindacato” capace di organizzare, orientare, dare identità ad una sorta di contrattazione sociale che accompagni quella sul lavoro o la sostituisca qualora questa non abbia la possibilità di esistere. La contrattazione sociale sul diritto alla casa, contro il carovita, per maggiori servizi sociali, per una migliore e diversa qualità della vita può aprire un canale di comunicazione sociale ed essere suscettibile per organizzare e ricomporre interi settori di classe oggi completamente atomizzati, ed a volte anche contrapposti tra loro, dalla destrutturazione e della deregolamentazione del mercato del lavoro. Questo nuovo cimento deve incrociarsi con la necessità di organizzare (e sindacalizzare unitariamente con i “lavoratori indigeni”) le nuove figure del lavoro migrante le quali stanno assumendo un rilevante peso occupazionale nelle industrie del Nord e nei diversificati segmenti con cui si articola la moderna gamma del supersfruttamento capitalistico.
- La quarta questione attiene al “deficit democratico” che ormai impregna profondamente l’intero sistema della rappresentanza politica e delle libertà nel nostro paese e in Europa. L’imposizione del bipartitismo e il dogma della governabilità a tutti i costi (anche a costo della democrazia rappresentativa), sono la punta d’iceberg di un modello autoritario di gestione dei poteri decisionali che conforma ormai le società liberali. La riduzione delle possibilità di accesso alla dimensione “istituzionale” per le minoranze politiche e i settori di classe, fa diventare prevalente la condizione dell’azione politica extraparlamentare. Il sistema politico bipartizan sembra cosciente del rischio che deriva dalla mancanza di una sponda istituzionale per i conflitti e i movimenti sociali. Il PD si candida ad una sorta di “adozione a distanza” delle forze della sinistra divenute extraparlamentari, mentre la destra vorrebbe concedere una sorta di diritto di tribuna che allevi la contraddizione – oggi contundente – tra istanze e conflitti sociali versus la blindatura del sistema di rappresentanza fino ad oggi dato. Ma la “questione democratica” oggi attiene direttamente allo strangolamento delle libertà politiche e sindacali in nome della legalità e della governabilità. Il decreto sull’emergenza rifiuti in campania e il decreto sicurezza sui migranti rivelano la tendenza e la tentazione della militarizzazione del territorio e della politica, una sorta di fronte interno della guerra preventiva. In Italia non c’è il fascismo ma procede speditamente un modello bipartizan di gestione autoritaria della società, delle sue crescenti contraddizioni e dei conflitti sociali che ne derivano. L’attivazione di una rete di resistenza democratica sul piano dei diritti politici e sociali è oggi all’ordine del giorno.
- La lotta contro la partecipazione dell’Italia al sistema della guerra permanente è un punto dirimente. Le conseguenze di questo ruolo dell’Italia hanno effetti generali sullo sviluppo dell’economia di guerra (vedi il boom di Finmeccanica o dell’ENI) e di ciò che rappresenta come ricaduta sulle priorità sociali e sulla soggettività di quote crescenti di lavoratori cooptati dentro le performance dell’industria bellica. Ma la partecipazione attiva dell’Italia alla guerra permanente produce anche effetti politici e culturali all’interno della società (dall’islamofobia al razzismo, dal dogma securitario al militarismo) e nelle relazioni con gli altri popoli. L’imperialismo “italiano” esiste e agisce concretamente in concertazione con gli alleati tradizionali (nella NATO e nell’Unione Europea), ma ambisce anche a ricavarsi proprie aree di influenza per la valorizzazione dei capitali italiani (vedi la Romania, i Balcani, il Maghreb) e la conquista di serbatoi di forza lavoro a buon mercato per la competizione globale (tramite la delocalizzazione produttiva e l’organizzazione di flussi migratori controllati). In questo senso, l’internazionalismo e la solidarietà con la resistenza dei popoli che si battono contro le occupazioni militari e/o neocoloniali, è un aspetto decisivo per la formazione di una nuova generazione politica liberata dalla mefitica cultura eurocentrista della sinistra europea e consente di far crescere una cultura politica antimperialista aggiornata al nuovo scenario mondiale. Le esperienze del Patto contro la guerra, le iniziative di solidarietà con il popolo palestinese e con i governi e i processi rivoluzionari in America Latina e Asia, hanno dimostrato che si possono mettere in campo azioni politiche significative e indipendenti che incidono sullo scenario politico.
- La sesta questione attiene alla creazione di una rete di resistenza alle ingerenze oscurantiste e del Vaticano in ogni aspetto della vita sociale: dal diritto di autodeterminazione delle donne alla difesa della scuola pubblica e di stato, dai pari diritti e dignità per le coppie di fatto alla difesa della libertà di ricerca scientifica. Questo punto oggi esula ampiamente dalla questione dei “diritti civili” per entrare direttamente nel campo di battaglia della civilizzazione di una società moderna anche nelle condizioni del capitalismo. In questo campo le alleanze possono essere vaste e trasversali, la cassetta degli attrezzi sul piano della dialettica e del materialismo storico consegnano ai comunisti e ai militanti anticapitalisti strumenti formidabili per poter essere un elemento dinamico e avanzato di ogni movimento di lotta contro la restaurazione clericale e reazionaria sullo stato e sulla vita sociale
- Infine ma non certo per importanza, il conflitto tra capitale e ambiente ha aperto ormai una vera e propria prateria per far sì che il carattere regressivo del capitalismo diventi elemento di coscienza collettiva e non solo di una nicchia sempre più ristretta della società. Su questo terreno esistono ormai elaborazioni avanzate che vanno socializzate con cura e in modo capillare. Il rischio di offrire una risposta ideologica e inefficace all’infarto ecologico del pianeta è forte, ma è anche vero che affermare come questo modo di produzione sia la causa della crisi ecologica del pianeta oggi è molto più credibile di quanto lo fosse ieri. La crisi alimentare innescata dall’introduzione degli agro-combustibili porta la contraddizione al livello più alto: quello tra crescita economica del capitalismo e sopravvivenza dell’umanità. Lo smantellamento del totem della modernizzazione del sistema che vorrebbe oggi travolgere tutti gli ostacoli (ieri gli indios ed oggi i campani e i valsusini), è una formidabile occasione per una battaglia so-
ciale e culturale in grado di formare e capillarizzare tra le nuove generazioni una coscienza anticapitalista fondata sulla realtà dei fatti. La pianificazione economica –ampiamente demonizzata dagli ideologi liberaldemocratici in questi anni – si sta rivelando come l’unica possibilità per impedire l’infarto ecologico del pianeta.
Un dibattito leale sull’unità dei comunisti
Dopo la catastrofe politica di aprile della sinistra e dei due partiti comunisti esistenti in Italia, è venuta crescendo l’esigenza di unità e ricostruzione di una ipotesi comunista nel nostro paese.
In queste settimane è circolato – raccogliendo numerose adesioni – un appello all’unità dei comunisti che propone la riunificazione del PdCI e del PRC in un nuovo, unico partito comunista, che ricomponga la frattura del 1998 recuperando la falce e martello e l’identità comunista in contrasto con la strategia di biodegradabilità dei comunisti perseguita da Bertinotti.
Nell’appello – che ha trovato immediati consensi nel segretario del PdCI, Diliberto e tra i compagni della componente de “L’Ernesto” nel PRC – si ripropone però una ricostruzione fortemente identitaria dell’opzione comunista (la centralità del simbolo) e una strategia che recuperi in molti aspetti l’eredità e la cultura del PCI prima della dissoluzione avviata con la Bolognina. Entrambi i parametri di riferimento pongono alcuni importanti problemi strategici e sono alla base del motivo per cui i compagni della Rete dei Comunisti non hanno sottoscritto l’appello.
Ci sembra infatti che dalla riflessione che ha preceduto la stesura e il lancio dell’appello e dal contenuto dell’appello stesso, siano completamente assenti una riflessione sulla funzione, la natura e il rapporto tra comunisti e blocco sociale antagonista, anche in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia nel quale non è prevedibile, nel breve periodo, il delinearsi e l’esplicitarsi concreto di una opzione “rivoluzionaria” del cambiamento sociale.
La cultura politica che sottende all’appello per l’unità dei comunisti, si evolve tutta per linee interne e sembra indicare la presenza politica dei comunisti come una sorta di “necessità della storia” avulsa da ogni funzione reale dei comunisti stessi nella società. I comunisti, secondo il nostro modesto punto di vista, esistono e vengono riconosciuti come
tali se rappresentano concretamente – e non astrattamente – quel pezzo della classe che aspira e confligge per un profondo cambiamento politico di sistema. Questa funzione, non è data per diritto divino ma è stata conquistata in un secolo e mezzo di organizzazione, di protagonismo politico e di soggettività militante esercitata concretamente dai comunisti in Italia e nel mondo.
Ritenere che nell’Italia del XXI° secolo i comunisti storicamente rappresentati siano ancora tutto questo, potrebbe essere un amaro inganno verso se stessi, verso la realtà e verso i lavoratori. Resta certo un patrimonio storico e umano che non deve assolutamente essere disperso, ma se non si apre con lealtà una riflessione sulla funzione reale dei comunisti e sulla loro rappresentatività sociale dentro il conflitto tra le classi nell’attuale contesto internazionale, non si capisce e non si comprenderà mai come si è arrivati all’attuale, devastante punto di crisi e di autentica implosione.
L’unità possibile nasce dalla costruzione di una teoria adeguata alla fase storica
L’unità – così come il simbolo della falce e martello.non possono essere dei feticci, dei totem da adorare, risolutori di ogni malattia. Agitare questi due fattori – che pure stanno entrambi a cuore a migliaia di compagne e compagni – indipendentemente dal contenuto concreto, dai processi reali di discussione, dalla formazione politica e culturale e dalla funzione che i militanti comunisti devono essere consapevoli di svolgere – riproduce esattamente la cultura politica e le conseguenti distorsioni che hanno portato la sinistra e i comunisti alla crisi oggi visibile agli occhi di tutti.
Abbiamo assistito in questi ultimi decenni alla devastante subordinazione delle analisi e delle elaborazioni “teoriche” alle necessità politiche e tattiche del momento. Imperialismo ed impero, movimentismo e difesa del partito, violenza e non violenza, lotta di classe e governo in un paese capitalisticamente avanzato sono state le rappresentazioni che di volta in volta sono state utilizzate in base alle necessità ancor prima che politiche elettorali. Questo è stato il vero e tragico buco nero dei comunisti nel nostro paese.
Parlare di teoria oggi non significa affatto reinventarsi il marxismo oppure seguire il devastante ed impotente nuovismo tanto in voga, bensì cogliere il nesso dialettico che esiste tra dinamica e forme, tra le tendenze storiche che sono prodotte dal modo di produzione capitalistico e le forme storiche che si presentano e che sono determinate dalla concretezza dello sviluppo raggiunto. E’ un terreno su cui il ritardo è spaventoso e coinvolge i comunisti dei paesi imperialisti in particolare dove, chiaramente, le difficoltà di mantenere un asse strategico sono enormi.
L’imperialismo del XXI secolo, la dimensione internazionale della classe, la competizione globale tra blocchi economici, la ripresa di una riflessione critica/autocritica del movimento operaio e comunista del ‘900, il livello attuale raggiunto dalle forze produttive, la questione ambientale, il nodo della soggettività e dunque del partito sia sulla funzione che sulle forme nella internazionalizzazione della classe rivoluzionaria, sono tutti nodi teorici che vanno affrontati e che sono fondamentali per cogliere la funzione che possono avere i comunisti qui ed ora. E’, per noi, una attività “fisiologica” che deve essere inquadrata ed organizzata con sistematicità ed è alla base di ogni possibile unità dei comunisti che deve affrontare i nodi strategici in modo non schematico, non settario e dentro un processo e verifiche in rapporto continuo ed organizzato con la realtà.
I comunisti e la classe reale
Questa è un’altra questione sulla quale quando parliamo di unità tra comunisti non possiamo glissare. Noi crediamo fermamente che non possono esistere partiti comunisti che non hanno un progetto di costruzione organica del rapporto organizzato con la classe reale che esiste in Italia nelle sue molteplici e disarticolate forme. Questo ha oggi ancora più valore in quanto, come abbiamo precedentemente detto, il conflitto di classe materiale ha un ruolo politico più avanzato delle stesse espressioni politiche di sinistra ora esistenti a prescindere dalle stesse caratteristiche politiche del gruppo o partito. Questo è perciò un terreno concreto di effettiva unità dei comunisti dove è possibile riprendere quella credibilità perduta avviando un processo di capitalizzazione politica e di sedimentazione organizzata delle forze della classe.
In questi ultimi due decenni è stato uno scandalo politico, ci scusiamo del tono forte ma non possiamo farne a meno se vogliamo essere chiari, che i partiti comunisti non abbiano avuto uno straccio di strategia sindacale delegando totalmente la CGIL, ma usando strumentalmente talvolta il sindacalismo di base per dividerlo, salvo poi gridare al tradimento nei passaggi cruciali di svendita del movimento dei lavoratori. Tutto ciò è avvenuto senza trarne alcuna lezione sulla necessità inderogabile di costruire l’indipendenza organizzata del movimento sindacale e del conflitto di classe dentro e fuori i posti di lavoro.
La soggettività dei comunisti dentro e non fuori i movimenti politici e sociali
E’ un atto di coraggio politico e personale quello che la Rete dei Comunisti intende proporre ai comunisti nell’Italia del XXI° Secolo, ma non è solo questo.
Emerge infatti dal dibattito sviluppatosi prima e dopo il lancio dell’appello per l’unità dei comunisti, una concezione dell’autonomia che rischia di tenere i comunisti ai margini dei movimenti e dei conflitti sociali oggi possibili e necessari nel nostro paese.
La distanza – e per certi versi la sufficienza – con cui il PdCI o l’Ernesto guardano ai movimenti e a ciò che si muove fuori dalla “comunità politica”, ha avuto una sua ragione d’essere nella fase della egemonia bertinottiana che ha strumentalizzato e utilizzato il movimentismo come clava demolitrice dell’identità comunista, ma sarebbe oggi un errore clamoroso e di automarginalizzazione continuare a ragionare sulla questione sindacale guardando unicamente alla Cgil, ai movimenti contro la guerra o contro la precarietà tenendosene fuori o ai margini, ad una gestione in alcuni casi sprezzante e impropria delle relazioni con le forze della sinistra anticapitalista oggi sul campo, una logica questa che abbiamo potuto verificare nella “caduta di stile” con cui il compagno Diliberto ha valutato l’esperienza della Rete dei Comunisti concludendo il comitato centrale del suo partito.
I rapporti di forza reale e il ridimensionamento anche extraparlamentare a cui sono stati costretti i partiti comunisti (PRC, PdCI), non consente più gli atteggiamenti di superiorità del passato in cui ciò che si esprimeva fuori dai partiti era liquidato come “pidocchi sul cavallo di razza” (un linguaggio ed una pratica molto in voga nel PCI).
La situazione non è più quella, e sarà bene che i compagni del PdCI e del PRC se ne rendano conto, ne prendano atto e comincino a ragionare di conseguenza. Oggi, paradossalmente, ci sono molte più potenzialità e dinamicità politiche, culturali e sociali fuori dai “partiti” che dentro il loro ridotto recinto.
A nostro avviso, il posto dei comunisti in questa fase è dunque dentro i movimenti reali e più avanzati che animano il conflitto politico nel nostro paese, è dentro un possibile schieramento unitario ed espansivo della sinistra anticapitalista e non ai margini e al di fuori di essi.
L’unità dei comunisti è un processo importante ed è soprattutto un processo reale che avanza per fasi e che suppone però una verifica ed una critica positiva della fase precedentemente attraversata.
Non dobbiamo nasconderci che la richiesta di unità può corrispondere – e molto spesso ha corrisposto – ad arretramenti e non ad avanzamenti sul piano programmatico e politico. L’unità sindacale tra Cgil Cisl Uil è stato indubbiamente un arretramento per il movimento dei lavoratori, che a suo tempo, ne ha bloccato e ipotecato le spinte più avanzate che venivano dall’esperienza dei consigli di fabbrica e dalla stagione dei delegati, fino a imbrigliare e disciplinare ogni forma di rappresentatività democratica sui luoghi di lavoro. L’unità nella Sinistra Arcobaleno è stata qualcosa di più di un arretramento, è stata una catastrofe. Lo stesso avvenne per l’esperienza di Nuova Sinistra Unita (1979) rispetto al peso politico messo in campo prima dai gruppi della sinistra extraparlamentare e poi da Democrazia Proletaria.
L’unità dei comunisti concepita come processo tutto interno ai maxi o ai micro apparati senza una esplicitazione della dialettica con il blocco sociale antagonista e una riflessione vera sulle caratteristiche della militanza comunista nel XXI° Secolo, potrebbe avere, a distanza di tanti anni, le stesse conseguenze e produrre, di nuovo, arretramenti e dispersione di preziose energie umane e politiche.
Riteniamo infine fondamentale chiarire che pensiamo sia un errore e una deformazione culturale da rimuovere l’idea – niente affatto remota ma presente sottotraccia nelle discussioni attualmente in corso – che l’unità dei comunisti sia il passaggio obbligato e funzionale per arrivare a nutrire qualche ambizione di rivincita alle prossime elezioni europee dopo la catastrofe di aprile. Ci sono su questo almeno tre problemi:
- L’innalzamento della soglia di sbarramento caldeggiata dal Partito Democratico per estendere il modello “italiano” anche al Parlamento Europeo;
- La possibilità che si presentino almeno sei liste comuniste e anticapitaliste alle prossime elezioni europee con le medesime ambizioni di “svolta” o di “rivalsa” e dunque ridotte possibilità di riuscita;
- L’ulteriore devastazione politica e culturale che deriverebbe dal riproporre – dopo la catastrofe di aprile – la prevalenza dell’elettoralismo ad ogni costo sul radicamento sociale e sulla prioritaria azione politica, sindacale, culturale nella società.
Come abbiamo sottolineato e praticato in questi anni, non intendiamo affatto il terreno elettorale un tabù, soprattutto se sta dentro un processo complessivo di riorganizzazione, ma non lo riteniamo neanche un dogma che certifica l’esistenza o meno in vita di una ipotesi politica.
In questo senso diciamo che è urgente e decisiva una rottura culturale con l’idea che il ruolo dei comunisti sia solo quello della propaganda e della testimonianza a tutto discapito di una funzione reale di organizzazione del blocco sociale antagonista o dei settori più avanzati di esso.
Una doppia rottura culturale – quella con il riformismo in tutte le salse e quella con l’elettoralismo – riteniamo che oggi sia un passaggio ineludibile, la porta stretta da attraversare, per la ricostruzione di una riqualificata soggettività comunista organizzata e per l’esplicitarsi di una politica coerente con tale premessa in Italia e nell’intero spazio europeo.
Maggio 2008