Capitolo 1 di “Bologna. Dove sta andando la vecchia signora?“
Quando a Togliatti veniva imputato di voler “fare come in Russia”, egli rispondeva di guardare a quello che stava facendo a Bologna il sindaco Dozza, per avere un modello di come i comunisti avrebbero governato, domani, in Italia.
Questo “modello” si fondava su alcuni elementi caratteristici:
- la centralità politica della classe operaia e delle masse lavoratrici come soggetto storico emancipatore, in alleanza con i “ceti medi produttivi”;
- una struttura economica flessibile, decentrata, coordinata, con una bassa conflittualità al suo interno;
- una amministrazione locale d’eccellenza (su cui il controllo politico riduce drasticamente il tasso di corruzione, rispetto alla media nazionale) in grado di fornire servizi sociali ed infrastrutture d’avanguardia;
- una lunga e forte tradizione mutualistica, incarnata in un tessuto sociale coeso e solidale.
Gli albori
Già nella seconda metà dell’ottocento, in un contesto caratterizzato dalla miseria e dall’analfabetismo di un’arretrata economia agricola, si sviluppa un forte movimento socialista, che accanto a scioperi e rivolte, produce numerose cooperative di produzione e consumo, e strutture permanenti di educazione e formazione (scuole e università popolari, case del popolo, ecc.), portando, nel 1914, all’elezione del primo sindaco socialista, Francesco Zanardi.
Questa realtà si interseca con esperienze di imprenditorialità diffusa, nelle tradizionali attività agricole (mezzadria) e in più moderne – anche se comunque plurisecolari – attività proto-industriali (lavorazione della seta e della canapa) in una integrazione tra città e campagna.
Fino all avvento del fascismo, l’amministrazione comunale socialista bolognese persegue il “governo economico municipale” con misure daziarie e calmieratoci tendenti ad una parziale redistribuzione del reddito e, con lo sviluppo della rete stradale, l’edificazione scolastica, la promozione di servizi medico-sanitari decentrati, ad una integrazione fra centro e periferia cittadina.
L’esistenza, già dal 1839, di scuole tecnico professionali (l’istituto Aldini- Valeriani, ma non solo) in grado di formare operai e tecnici di alto livello, consente lo sviluppo di un’industria e di un artigianato (prevalentemente nei settori meccanico, chimico, edile e alimentare) molto specializzati ed al contempo flessibili di fronte alle richieste del mercato.
L’età dell’oro
Con la Liberazione, il sindaco Giuseppe Dozza, che amministrerà Bologna per oltre vent’anni, affronta i problemi della ricostruzione postbellica, di una gravissima disoccupazione, dell’esclusione politica dagli stanziamenti del “Piano Marshall”, della repressione poliziesca, con una straordinaria mobilitazione popolare, che consolida un’identità collettiva, un blocco sociale che sostiene la giunta comunale, composto non solo dalle tradizionali masse proletarie che avevano sostenuto Zanardi e combattuto il fascismo, ma anche da consistenti settori di artigiani, commercianti, piccoli industriali, cooperative, intellettuali progressisti.
Una realtà cittadina orgogliosamente diversa ed in opposizione al governo nazionale democristiano ed ai grandi monopoli industriali.
Mentre il PCI, negli anni Cinquanta, subisce una dura emarginazione dalla politica nazionale, a Bologna consolida in maniera netta un consenso destinato a durare a lungo. Questo consenso poggia da un lato sulla legittimazione politica (il socialismo, il comuniSmo, la resistenza, ecc.) e dall’altro sullo scambio amministrativo (i servizi sociali, il decentramento, le infrastrutture, ecc.).
Negli anni, con il mutare del contesto nazionale ed internazionale, andrà sempre più indebolendosi la legittimazione politica, specie fra i giovani, fino al suo esaurirsi dopo il 1989, mentre lo scambio amministrativo tenderà verso un modello corporativo, per lobbies.
Il Comune di tutto il popolo
Fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta, ad una politica di bilancio oculata, tendente al pareggio, se ne sostituisce una dapprima fortemente, poi più moderatamente, orientata all’indebitamento finalizzato al- l’implemento dei servizi sociali (deficit spending): sono gli anni degli autobus gratuiti e degli asili nido, dei centri sportivi e dei poliambulatori.
Ad una prima ipotesi di sviluppo urbanistico “quantitativo”, che doveva portare ad una città di uno-due milioni di abitanti, viene preferito uno sviluppo urbanistico “qualitativo”, cioè di riqualificazione e salvaguardia del territorio, mantenendo il numero degli abitanti sotto il mezzo milione.
Questo è reso possibile anche dal fatto che la configurazione dei distretti industriali a specializzazione flessibile, articolati in aziende di dimensioni medio-piccole e che richiedono forza lavoro altamente qualificata, non richiama i grandi flussi migratori delle metropoli industriali fordiste.
Si fa quindi sempre più solida l’alleanza con i “ceti medi produttivi” preconizzata da Togliatti nel 1946: al comune “rosso” si sostituisce gradualmente quello “democratico e antifascista”, in sintonia con la linea politica nazionale del “compromesso storico”. Significativo in tal senso il fatto che il PCI non si sia mai presentato alle elezioni comunali con il simbolo della falce e martello ma con quello delle due torri, raccogliendo anche i voti di una consistente quota di elettorato che alle elezioni politiche non votava comunista.
Il declino
La crisi degli anni Settanta ha un impatto sulla struttura economica bolognese attutito dalla maggiore flessibilità e dalla maggiore capacità di autofinanziamento delle piccole imprese e dall’ampia rete di servizi. È in questo periodo che Bologna diventa uno dei modelli, studiati a livello internazionale, di quella accumulazione flessibile che sostituirà l’accumulazione fordista-keynesiana.
Da modello del socialismo in occidente, a modello del capitalismo globalizzato… Ma la crisi, la risposta liberista alla crisi, renderà sempre più difficile. e poi impossibile, il deficit spending, minandolo alla base.
Scheda 1. Il grande Partito che fu
Non si può comprendere la storia del modello emiliano, e al suo interno di Bologna, senza comprendere il ruolo dirigente del PCI, la sua pervasiva azione di governo, di orientamento strategico dello sviluppo locale.
A partire dall’immediato secondo dopoguerra, il PCI si appropriò della politica che era stata propria del riformismo socialista prima dell’avvento del fascismo.
Una fitta rete di cooperative, inizialmente volte a gestire la manodopera agricola, si era estesa agli ambiti del commercio, dell’edilizia e dei servizi all’industria.
La lenta industrializzazione, si era sviluppata prevalentemente in imprese di dimensioni piccole e medie, aggregate in distretti territorialmente specializzati. Le amministrazioni locali avevano supportato questi processi, indirizzando la spesa pubblica verso i servizi alla persona (compensando i bassi livelli salariali), la formazione professionale e le infrastrutture.
Nel trentennio 1945-75, il PCI abbinò un’ideologia che mitizzava l’URSS ad una pratica che prendeva a concreto modello le socialdemocrazie scandinave. Il controllo capillare del PCI si può leggere in maniera duplice: da una parte una capacità di dare forza e organizzazione al blocco sociale attraverso la rete delle cellule e delle sezioni, dall’altra questa forza veniva utilizzata contro tutto ciò che si riteneva estraneo al blocco sociale, come avverrà nella fine degli anni 60 e negli anni a seguire, tramite l’odiosa pratica della delazione e del contrasto di tutte quelle forme di organizzazione comunista e di classe che presero vita, indipendenti dal revisionismo del PCI.
Le nuove leve nel partito
Con l’ingresso nella vita attiva di una nuova generazione, che non ha conosciuto direttamente il fascismo e la guerra, e che deve fare i conti con un capitalismo in crisi, il meccanismo, così perfettamente oliato e collaudato, conosce una prima e brusca contraddizione. Il movimento del ’77 risulta incomprensibile e viene esorcizzato come complotto di forze oscure ed esterne ad un corpo sociale sano e docilmente governabile. La risposta è brutalmente repressiva, attuata in complicità con i settori più reazionari del governo centrale (Kossiga) ed ottiene una vittoria sul campo, che però, se azzittisce e recupera il dissenso politico, non può risolvere le contraddizioni aperte dalla crisi economica.
Infatti, a poco più di un decennio dai “fatti di marzo”, nel 1989, la crisi del modello si dispiega in tutta la sua gravità:
– sul piano amministrativo, alla tradizionale politica di investimenti pubblici, si sostituisce una politica di privatizzazioni (vedi scheda), volta a favorire soggetti “amici” -le cooperative in primo luogo;
– sul piano ideologico, la crisi ed il crollo dell’URSS producono un disorientamento completo nella già logorata base militante.
La rottamazione
Anche il PCI finisce, ma il partito che ne prende il posto (il PDS-DS-PD) non riesce a svolgerne la funzione dirigente.
Infatti, il ceto politico-amministrativo, non è più quello temprato dalla lotta partigiana, disciplinato dalla ferrea organizzazione di partito, orientato da una forte ideologia progressista.
Si tratta ormai di burocrati che considerano i propri privilegi di casta come diritti acquisiti, abituati a non dover rispondere a nessuno dei propri fallimenti, sprezzanti verso la base. Un meccanismo consolidato nei decenni, li vede ruotare fra incarichi nelle amministrazioni locali o nelle municipalizzate o nelle cooperative o nel sindacato o nell’associazionismo, con l’obiettivo superiore di uno scranno parlamentare e/o governativo.
Trafficanti senza scrupoli, hanno perso negli anni la coesione più che monastica del vecchio PCI.
Privi di un progetto politico di lungo periodo, hanno imbarcato qualche rottame craxiano e un più cospicuo numero di diaconi.
Accomunati dal considerare il patrimonio pubblico come “roba propria” e le masse popolari come gregge elettorale.
In questo contesto si sviluppa la guerra per bande interne, che ha come oggetto il progetto di città metropolitana, che porta alla sconfitta del 1999.
Il pacioso conservatore Guazzaloca può essere sconfitto nel 2004 solo previo invio di un “commissario” esterno, sufficientemente autoritario e dotato di un notevole appeal mediatico: Cofferati. Il bonapartismo cofferatiano, in linea con le tendenze più autoritarie della politica italiana, manda ancora più in crisi il vecchio apparato di partito (e dei partiti alleati di giunta) e ne configura uno proprio, “aziendale”, che però fallisce per abbandono del principale protagonista.
Del grande Partito che fu, si sgretolano anche le macerie…
CREDITS
Immagine in evidenza: Bologna sotto il cielo blu
Autore: sterlinglanier Lanier, 30 agosto 2020
Licenza: Unsplash License
Immagine originale ridimensionata e ritagliata