Capitolo 5 di “Bologna. Dove sta andando la vecchia signora?“
I diversi piani
Nel Quadro Conoscitivo del Piano Strategico Strutturale Comunale del 2003 erano indicati dieci “motori di sviluppo” a Bologna: cinque industriali (meccanica, alimentare, editoria, abbigliamento e informatica) e cinque “terziari” (comunicazioni, commercio, sanità, università e turismo).
Ora, nel caso drammatico che la crisi in atto sia strutturale e non soltanto congiunturale (che si sviluppi quindi a U piuttosto che a V), essa finirebbe per danneggiare irrimediabilmente la capacità d’esportazione del distretto manifatturiero bolognese facendo venir meno il “motore” dello sviluppo industriale.
La produzione della ricchezza a Bologna si troverebbe affidata soprattutto ai settori terziari.
È da tempo che si avanza l’idea di Bologna “città di servizi”, ma come convogliarvi gli investimenti privati, essendo ridimensionato l’intervento pubblico dallo strangolamento finanziario provocato dai vincoli di bilancio europei?
È qui che la “logica degli affari” incontra l’organizzazione dello spazio municipale che sopra è stato descritto.
Le aree urbane
Si è visto che il territorio del Comune di Bologna può essere distinto in tre zone caratteristiche: il centro storico, la periferia e lo spazio interstiziale (come lo chiamano gli urbanisti), ossia lo spazio che dalla periferia si estende fino ai comuni limitrofi.
Questo spazio, ancora scarsamente occupato, è attualmente interessato dalla mobilità dei lavoratori che dalla periferia e dal centro storico, dove abitano, sono occupati nelle industrie collocate fuori Comune, e dagli impiegati che dai comuni limitrofi, dove risiedono, lavorano nei servizi situati in periferia e nel centro storico.
Le trasformazioni viarie in corso su questo spazio interstiziale sono proprio l’effetto di quella mobilità intercomunale.
Ma questo spazio può diventare anche l’affare immobiliare su cui possono riversarsi i capitali privati che abbandonano l’investimento produttivo.
Marxismo e valore del suolo
Come spiega la teoria marxiana della speculazione immobiliare, se la politica monetaria favorisce l’investimento finanziario quando aumenta il tasso d’interesse, se invece lo riduce non necessariamente favorisce l’investimento produttivo qualora la dimensione della domanda, sia estera che interna, non sia adeguata.
Si può allora offrire ai capitali in cerca d’investimento l’alternativa dello sfruttamento del valore del suolo urbano incentivato proprio da quella riduzione del tasso d’interesse.
Ma quale suolo e con quale finalità economica nel concreto?
Ovviamente il suolo interessato dalla iniziativa immobiliare non può essere che quello “spazio interstiziale” che sta a cuscinetto tra la periferia ed i comuni limitrofi, ma con la finalità di costruirvi non tanto abitazioni per guadagnare sugli affitti, bensì di sfruttare l’incremento del valore del suolo indotto dalla riduzione del tasso d’interesse in questo modo: ceduto dai proprietari, previa valorizzazione urbanistica municipale (destinazioni d’uso e indici di edificabilità), ad imprese immobiliari, sul quel suolo verrebbero edificati luoghi d’aggregazione consumistica da cedere in locazione a società di servizi interessate al commercio e all’intrattenimento (outlet, multisale, centri-benessere, nuovo stadio, polo universitario, parchi tematici…) per intercettare i canali di traffico del pendolarismo intercomunale.
La rendita del suolo
In questo modo il processo di produzione della ricchezza a Bologna passerebbe dal profitto dei “distretti manifatturieri” (la fine dell’economia “fordista”) alla valorizzazione della rendita del suolo, disegnando una città metropolitana terziaria estesa dal centro storico ai comuni limitrofi e di cui si è già anche parlato, ma con scarsa decisione di passare ai fatti. Le imprese immobiliari, le società di servizi, i proprietari fondiari ed i consumatori vi troverebbero il proprio tornaconto.
E perfino il Comune, in una funzione notarile (con la remunerazione del caso) per una urbanistica contrattata lasciata all’esito del rapporto di forza degli interessi privata.
Scheda 1. Per una teoria della speculazione immobiliare
La rendita d’abitazione
La questione della rendita urbana è trattata da Marx soltanto indirettamente, per analogia con la rendita agricola che era allora l’argomento più scottante anche politicamente.
Ciò non toglie che dalla teoria della rendita fondiaria esposta dettagliatamente nei cap. 37-47 del terzo libro del Capitale si possa ricavare una illustrazione della dinamica speculativa sui suoli urbani che già si manifestava a seguito delle grandi urbanizzazioni ottocentesche
Come per la rendita fondiaria, anche la rendita edilizia interviene successivamente alla valorizzazione del capitale che si ottiene con la produzione del plusvalore.
Infatti è solo tramite la trasformazione del plusvalore in profitto che si viene a dar conto di come nasce il “potere della proprietà fondiaria di appropriarsi una parte crescente dei valori creati senza il suo intervento” (Capitale, III, p. 740).
Il presupposto è che, se nelle diverse produzioni si estraggano differenti quantità di plusvalore, in regime di concorrenza perfetta tutti i capitali devono finire per ricevere un’identica percentuale di profitto.
Si pensi al caso esagerato di un capitalista che non utilizza affatto manodopera (e quindi non produce plusvalore) a fronte di un altro identico capitalista che impiega invece soltanto manodopera e quindi produce tutto il plusvalore.
Anche il primo dovrà guadagnare lo stesso ammontare di profitto del secondo e ciò avviene perché la concorrenza costringe il secondo a vendere le merci ad un prezzo di produzione inferiore al valore prodotto, mentre il primo le venderà ad un prezzo di produzione superiore al valore. “Ciò in parole povere non significa altro se non che i capitalisti si sforzano (ma questo anelito è la concorrenza) di dividersi fra loro la quantità di pluslavoro che essi spremono alla classe operaia non nella proporzione in cui un capitale particolare produce immediatamente pluslavoro, ma nella proporzione in cui questo capitale particolare costituisce una parte aliquota del capitale complessivo” (Teorie sul plusvalore, II, p. 26).
Attraverso la perequazione dei profitti imposta dalla concorrenza ci sono quindi capitalisti, che sono poi quelli che più sfruttano la manodopera, che si vedono sfuggire parte del plusvalore prodotto.
Per cui sarà del tutto conseguente che costoro cerchino di sottrarsi a quella logica concorrenziale per conservare l’intero plusvalore prodotto senza spartirlo con gli altri.
Per far ciò si devono introdurre delle barriere all’entrata che possono essere di tipo politico o amministrativo, ma che sono anche naturali qualora s’impieghi nella produzione un fattore scarso e non riproducibile come la terra.
S’immagini tutto il suolo già utilizzato, così che altre produzioni non vi si possano aggiungere: si manifesta allora una chiusura monopolistica che sottrae quel capitale alla perequazione del profitto consentendogli di vendere i propri prodotti all’intero valore e quindi conservando presso di sé tutto il plusvalore.
E così, mentre gli altri capitali, in concorrenza tra loro, dovranno dividersi “da buoni fratelli” il plusvalore che resta accontentandosi di un saggio del profitto minore, nel settore sottratto alla concorrenza sarà come se il suo capitalista venisse a guadagnare due profitti: quello normale secondo la percentuale identica agli altri capitali, ed un sovra-profitto dovuto alla eccezionalità dell’impiego del suolo.
Questo sovraprofitto è incassato dal capitalista edilizio, ma se la proprietà del terreno non è sua, sarà rivendicato dal proprietario (altrimenti non gliene cederebbe l’utilizzo), così che le due parti del plusvalore finiscono nelle mani di due diversi “esattori, l’uno che ottiene il saggio generale di profitto e l’altro l’eccedenza esclusivamente inerente a questa sfera” (TSP, II, p. 27).
In questo modo quel sovra-profitto, che esiste per una ragione di natura (la limitatezza fisica del terreno) si trasforma in rendita fondiaria per una questione di diritto privato: “la proprietà fondiaria non crea quindi la parte di valore che si trasforma in plusprofitto, ma semplicemente permette al proprietario fondiario di trasferire questo plusprofitto dalle tasche dell’industriale nelle sue.
Essa non è la causa della creazione di questo plusprofitto, ma della sua conversione nella forma della rendita fondiaria, quindi della sua appropriazione di questa parte del profitto da parte del proprietario del terreno’’ (C„ III, 749).
È questa la rendita assoluta. Ma siccome nei fatti i prodotti del suolo si vendono a prezzi di mercato differenti superiori ai valori per la cronica pressione della domanda sull’offerta (si pensi alla scarsità d’abitazioni nei centri urbani), anche questo ulteriore incremento di prezzo finisce nelle tasche dei proprietari dei terreni più richiesti a titolo di rendita differenziale, diversa per ogni singola unità abitativa.
Così la rendita edilizia, quale reddito complessivo di spettanza del proprietario del suolo, si compone di una parte assoluta, per l’eccedenza del valore sul prezzo di produzione, e di una parte differenziale per lo scostamento del prezzo di mercato dal valore.
E come è la combinazione tecnologica arretrata a consentire al settore edilizio di produrre più plusvalore degli altri settori ed è l’utilizzo della scarsità del suolo a sottrarlo alla perequazione concorrenziale, mentre la pressione della domanda sociale porta ad un prezzo di mercato superiore al valore, così è solo il diritto di proprietà privata a trasferire le due eccedenze ad una terza persona distinta dal capitalista edilizio, al proprietario del terreno.
Il valore del suolo urbano
Quando la rendita edilizia si è costituita, essa può essere considerata dal suo percettore come la misura della redditività del suolo posseduto, alla stregua del rendimento di un qualsiasi altro capitale.
E come questo capitale, quando impiegato, assicura un interesse, altrettanto può fare il terreno, che così assume la forma di un patrimonio fruttifero di cui la rendita è il rendimento periodico.
Di esso si può calcolare il valore applicando la regola della capitalizzazione finanziaria nel caso di una rendita perpetua (essendo il suolo un bene che non si consuma).
E come l’interesse che finanziariamente si guadagna deriva dall’applicazione del tasso d’interesse corrente sul capitale posseduto, così il valore del suolo risulta dall’attualizzazione, secondo il tasso corrente d’interesse, delle rendite che si guadagneranno per la durata della concessione di sfruttamento del suolo:
Valore del suolo = Anni x Rendita / Tasso d’interesse
Come si vede, il valore del suolo “è in realtà il prezzo di acquisto, non del suolo, ma della rendita fondiaria che esso frutta, calcolato secondo il saggio corrente dell’interesse” (C., III, p. 723), ma esso “appare come il prezzo della forza naturale stessa” (C., III, p. 749) che così può essere “acquistata e venduta come qualsiasi altra merce” (C„ III, p. 724). Esso è quindi il prezzo che il capitalista deve pagare se, prima d’intraprendere la produzione edilizia, vuole farsi proprietario del suolo per non cedere poi la rendita d’abitazione (che dipenderà anche dal numero di prodotti edilizi che potrà realizzare) ad altri.
La sua convenienza ad acquistare il terreno pagandone subito il relativo valore sarà quindi in funzione delle rendite attese, quelle che si prevedono di percepire in futuro e che si possono approssimare alle rendite già realizzate sulle abitazioni simili, così che tutti i terreni, anche quelli ancora incolti, finiscono per acquistare un valore.
Però ciò che è più importante è che quel valore del suolo urbano è in funzione inversa del saggio d’interesse, così che diminuisce se il tasso d’interesse aumenta, favorendo la convenienza del capitalista immobiliare a comprare dal proprietario (e viceversa). “Si ha qui un movimento del prezzo della terra, indipendente dal movimento della rendita fondiaria stessa e regolato unicamente dal saggio d’interesse” (C., III, p. 723), dato che a questo livello d’analisi il rapporto di dipendenza non è più tanto tra la rendita d’abitazione e il saggio del profitto della produzione d’abitazioni, bensì tra il valore del suolo urbano ed il tasso d’interesse, collegando in funzione inversa la speculazione immobiliare alla speculazione finanziaria. Ed ecco come.
Supponiamo che ci siano risparmi monetari in cerca d’investimento redditizio.
Essi potranno rivolgersi all’investimento finanziario per lucrarvi interessi e capital gains (ossia gli aumenti del valore di mercato dei titoli) oppure verso l’investimento immobiliare per guadagnare dalle rendite o dall’aumento di valore dei suoli.
Evidentemente il primo tipo d’investimento è in funzione diretta del tasso d’interesse, mentre il secondo è in funzione inversa, così che se il tasso d’interesse è in aumento sarà conveniente per quei risparmi monetari indirizzarsi verso l’acquisto di titoli finanziari; nel caso invece di una riduzione dei tassi d’interesse, che scoraggia la speculazione finanziaria per i minori rendimenti, quei risparmi monetari dovrebbero volgersi inevitabilmente verso l’investimento produttivo, come predica la teoria, se non ci fosse il “terzo incomodo” del valore del suolo in crescita ad intercettarli per indirizzarli nella speculazione immobiliare, nello sfruttamento economico, piuttosto che della rendita d’abitazione, proprio delle aree libere disponibili per l’urbanizzazione abitativa e/o commerciale.
Così, se la finanza è in difficoltà, nemmeno l’industria può passarsela bene se la corsa all’immobiliare accaparra a proprio vantaggio il risparmio deluso dall’investimento finanziario, stornandolo dall’investimento produttivo di profitto.