Autore: Lucia Pradella
Pagine: 408
Prima edizione: gennaio 2010
Editore: Il Poligrafo
ISBN-10: 8871156862
ISBN-13: 978-8871156866
La crisi strutturale del capitalismo iniziata nel 2007, e da molti studiosi considerata la più grave e profonda nella lunga storia di questo modo di produzione, sta riconfermando la verità analitica di tante categorie presenti nell’opera di Karl Marx. Lucia Pradella, giovane dottoranda in filosofia nelle università di Napoli Federico II e di Paris X Nanterre, ne individua due in particolare tra loro strettamente connesse: l’accumulazione del capitale e l’impoverimento della classe lavoratrice su scala mondiale.
Per spiegare la prima, l’autrice mette a confronto le pagine del Capitale con gli scritti di Marx ed Engels sul colonialismo e le società precapitalistiche, in particolare gli articoli e le lettere sull’India, la Russia, la Cina, l’Irlanda, gli Stati Uniti. Arrivando alla conclusione che Marx studia l’Inghilterra, madre del capitalismo, avendo sempre presente che uno dei fattori decisivi dell’accumulazione originaria del capitale, insieme ai processi di espropriazione dei contadini nella penisola britannica, furono proprio le conquiste coloniali, la tratta degli schiavi, il genocidio di intere popolazioni, lo sfruttamento «senza veli» degli uomini e della natura dei paesi colonizzati.
Tra i tanti riferimenti storici citati da Lucia Pradella, citiamo solo quello relativo alle guerre dell’oppio scatenate dall’Inghilterra contro la Cina nell’Ottocento, che determinarono un’insurrezione contadina nota come rivoluzione dei Taiping che provocò, secondo Mike Davis citato nel libro, «la guerra civile più sanguinosa nella storia mondiale con una stima dai venti ai trenta milioni di morti». Tutto questo rende il capitalismo, fin dalle sue origini, un sistema globale, un sistema-mondo che si può capire e combattere solo avendo costantemente presenti queste sue caratteristiche.
Basterebbe, a questo punto, ricordare le pagine del Manifesto del ’48 dedicate alla forza d’urto della borghesia che vuole dappertutto ficcarsi, che abbatte qualsiasi muraglia cinese, che spezza secolari legami, che unifica i mercati per capire quanto fosse chiaro fin da giovane a Marx l’orizzonte mondiale del nuovo sistema di produzione. La sua insistenza sulla necessità di un’organizzazione internazionale dei lavoratori discende, d’altronde, proprio da questa analisi e dalla consapevolezza che il comunismo avrà un futuro solo su scala planetaria.
L’illimitata corsa del capitale verso il profitto porta con sé un progressivo impoverimento della classe salariata. È questa l’altra «legge» contenuta nel Capitale che Pradella sostiene essere quanto mai attuale, in particolare se si tiene conto di quanto è avvenuto (e continua ad avvenire) dall’inizio della rivoluzione conservatrice degli anni ’80 che ha rappresentato (e rappresenta) la rivincita del capitale su scala mondiale dopo i «trent’anni gloriosi» del dopoguerra che, ma solo in Occidente, hanno consentito una sorta di compromesso tra capitale e lavoro.
Per questa parte l’autrice fornisce innumerevoli dati e analisi relativi agli ultimi anni. Intanto sfatando il luogo comune che i salariati, su scala mondiale, sarebbero diminuiti e che la classe operaia sarebbe un residuo del passato. Al contrario, tutti i dati (ad esempio quelli dell’Ilo, riportati nel libro) dimostrano l’aumento poderoso dei salariati, «più della metà della popolazione globale attiva», in maggioranza sempre più concentrato nei paesi del Sud del mondo, dove nei prossimi anni si determinerà un ulteriore aumento della classe operaia legato ad un maggior dinamismo dell’economia.
Tutto questo fa dire all’autrice che «per la prima volta nella storia siamo in presenza di una classe operaia davvero mondiale». L’impoverimento si traduce in una progressiva perdita di diritti, in un’intensificazione del lavoro, in un aumento delle ore lavorate, in una condizione di permanente precarietà, in un progressivo ridimensionamento dei salari, dentro un ritorno ad una condizione servile che riappare prepotente anche in Occidente. Si tratta di una condizione che non colpisce solamente le basi materiali del’esistenza, ma permea ogni aspetto dell’uomo lavoratore.
L’autrice molto opportunamente ricorda che Marx rimproverava agli economisti borghesi di ridurre il lavoratore a forza-lavoro, a macchina per la produzione, omettendo tutti quei bisogni e quelle dimensioni dell’esistenza senza le quali, secondo Marx, vi è solo alienazione: il corpo, l’amore, le amicizie, lo studio, la cura dei figli, l’arte, la salute, l’ambiente, l’abitazione. Tale processo di riduzione a forza-lavoro per il profitto non conosce confini.
Ne sono ulteriore prova, scrive l’autrice, le condizioni di proletarizzazione dei piccoli produttori agricoli del Sud del mondo costretti a subire i brevetti imposti dai colossi agroalimentari sulle loro conoscenze secolari in un processo che, come ha più volte ricordato l’attivista e studiana indiana Vandana Shiva, privatizza «il legame tra i processi naturali e l’intervento umano», determinando una sorta di enclosures of the commons, di spossessamento, privatizzazione e mercificazione dei beni comuni.