Avviso ai naviganti n. 50
Giorgio Gattei in Contropiano Anno 18 n° 1 – 16 febbraio 2010
1 L’origine della Grande Crisi dei Mutui non è affatto finanziaria, bensì materialisticamente economica e sociale. Essa trova la sua origine nella sconfitta di quell’“assalto al cielo” che il movimento operaio fordista ha condotto negli anni ’70. Allora, sull’onda di una colossale insurrezione del lavoro contro il capitale, furono guadagnati vantaggi salariali (e non solo; basti pensare in Italia allo Statuto dei lavoratori) che misero alle strette il profitto. Però l’avversario di classe non è rimasto con le mani in mano e ha reagito con una riorganizzazione del processo di produzione che fosse in grado di eliminare l’elemento che aveva fatto la forza di quel movimento operaio: la catena di montaggio che, rendendo rigido il processo di produzione, rendeva rigido (“variabile indipendente”) anche il lavoratore. Si è così compiuto il passaggio alla produzione post-fordista, un termine volutamente indistinto con cui si coprono tutte le novità, sia tecnologiche che legislative, che dagli anni ’80 in poi hanno reso la produzione (e quindi il lavoratore) quanto più flessibile possibile fino al limite della precarietà (il. lavoro “usa e getta”).
La conseguenza è stata una trasformazione radicale del mercato del lavoro che ne ha sottratto in gran parte il controllo ai lavoratori che, affidati alla pura logica di un mercato dove a fronte di una domanda di lavoro crescente le imprese offrivano occupazione solo ad intermittenza, hanno visto precipitare i loro salari, mentre il profitto si riprendeva quanto aveva ceduto in precedenza (e anche di più). E’ stata questa una redistribuzione del reddito, a cui s’è già dato il nome di Grande Moderazione Salariale (Great Wage Moderation), che le statistiche ormai documentano senza ambiguità: per l’insieme dei paesi OCSE la quota delle retribuzioni del lavoro (comprese quelle del lavoro autonomo) sul valore aggiunto si è ridotta dal 67% del 1976 al 57% del 2006 (cfr. S. Perri, Distribuzione del reddito e diseguaglianza: l’Italia e gli altri, in ww.economiaepolitica.it, 23.1.2009).
Se una simile caduta dei salari ha rialzato le sorti del profitto (e questo è stato o.k. per i capitalisti), essa ha però provocato un vuoto di domanda aggregata, dato che con quelle retribuzioni non potevano che corrispondere consumi al ribasso (e questo non è più o.k.).
Che fare allora per sostenere la domanda, così che la maggior produzione trovasse comunque corrispettivo d’acquisto adeguato? La soluzione, uscita dagli Stati Uniti all’alba del XXI secolo, è stata il credito al consumo privato così che, nonostante i minori salari, le famiglie potessero addirittura accrescere il livello di spesa rivolgendosi alle banche che s’erano messe a concedere aperture di credito indiscriminate, anche sorvolando sulle garanzie necessarie. L’idea era geniale: quei lavoratori a più basso reddito avrebbero corrisposto addirittura degli interessi pur di consumare oggi le merci che s’impegnavano a pagare domani.
E’questa l’interpretazione (che accomuna elementi d’analisi marxista, sraff i s t a , istituzionalista e keynesiana) sull’origine della Grande Crisi dei Mutui risuonata al convegno di Siena, ottimamente organizzato da Emiliano Brancaccio, su La crisi globale. Contributi alla critica della teoria e della politica economica (26-27 gennaio 2010). Al convegno si sono respinte interpretazioni di comodo che attribuiscono la responsabilità della crisi alla politica monetaria troppo lassista oppure all’esagerato risparmio dei cinesi che avrebbero ridotto il tasso d’interesse, oppure all’incapacità delle famiglie di valutare appieno il rischio finanziario che si assumevano nel sottoscrivere i mutui. Così interpretando, colpevoli sarebbero stati una Federal Reserve poco accorta oppure i “musi gialli” poco consumistici o ancora le famiglie troppo inclini a spendere a debito, quando invece: «diversamente da questi punti di vista, abbiamo sostenuto che il crescente indebitamento delle famiglie doveva essere interpretato essenzialmente come una reazione alla stagnazione dei salari reali ed ad un ridimensionamento dello stato sociale, ossia come la contropartita di cambiamenti persistenti nella distribuzione del reddito» (A. Barba e M. Pivetti, Cambiamenti nella distribuzione del reddito, disordine finanziario e crisi). Infatti, schiacciati i salari, che altro restava se non far indebitare le famiglie per sostenere una domanda che rischiava di andare sotto all’offerta? Si è così formata negli Stati Uniti un colossale bolla d’indebitamento familiare che può essere colta da tre indicatori statistici correlati: in termini reali (ossia depurata dall’inflazione) la spesa per consumo pro-capite è cresciuta dai 45.000$ anni del 1972 ai 75.000$ del 2008, nonostante che la retribuzione per lavoratore nel settore privato sia calata dai 325$ alla settimana del 1972 ai 275$ del 2009, grazie a un debito per famiglia salito dai 20.000$ del 1975 agli 80.000$ del 2008 (G. Forges Davanzati e R. Realfonzo, Labour market deregulation and the global economic crisis: a monetary circuit theory approach).
E’stata questa una situazione economica paradossale, in cui l’apertura di credito si poneva come alternativa alla lotta distributiva ed il bancomat finiva al posto dell’aumento dei salari, che si può definire «una vera e propria sussunzione del mondo del lavoro alla finanza e al debito» (R. Bellofiore e J. Halevi, La Grande Recessione e la terza crisi della teoria economica) che ruotava attorno alla coppia infernale del «lavoratore precarizzato / consumatore indebitato» (ma evidentemente ai lavoratori americani andava bene così…).
2 Non c’erano però altre poste della domanda aggregata che potevano essere utilizzate al rialzo invece di far indebitare le famiglie? In teoria sì, ma non in concreto. Intanto sulle esportazione nette non era possibile contare perchè gli Stati Uniti, dalla fine degli anni ’70 e con accelerazione dagli anni ’90, sono diventati un paese importatore invece che esportatore di merci, preferendo acquistare dall’estero invece che produrre all’interno con grande soddisfazione dei paesi industrializzati dell’Estremo Oriente che a loro volta sono diventati esportatori di manufatti (ai tempi dell’imperialismo di Lenin la “periferia” era soprattutto esportatrice di materie prime).
A sua volta la spesa pubblica, complici gli alti deficit di bilancio provocati dalla “crisi fiscale dello Stato” degli anni ’70, è stata oggetto di una opposizione ideologica che ha fatto il paio con l’offensiva contro il mondo del lavoro. Accusata di essere portatrice d’inflazione, è stata contenuta con una politica di rientro che, in assenza d’aumento delle imposte, ha infierito sulle voci della spesa civile. Poi è arrivata la fine della Guerra fredda e si sono potute ridurre anche le spese militar e Clinton è arrivato a portare il bilancio federale addirittura in avanzo.
Ma poi Bush “il piccolo” ha dovuto riprendere a spendere per finanziare le sue le sue (fallimentari) avventure imperiali in Afghanistan e in Iraq in risposta all’attentato alle Torri del 2001 e così il deficit dei conti pubblici è tornato a crescere non lasciando più margini di manovra per una politica fiscale espansiva.
Restano comunque gli investimenti e qui sta la sorpresa, perchè il ricorso al credito al consumo per sostenere la domanda aggregata è stato imposto dalla concomitante caduta degli investimenti produttivi interni. L’ultimo soprassalto era avvenuto al tempo della new economy, ma dopo il fallimento a mezzo del 2001 tutto si è spento: con saggi del profitto interno a calare (che c’entri la marxiana caduta tendenziale?) gli investimenti americani si sono diretti all’estero dove migliori erano le occasioni di guadagno (globalizzazione) oppure si sono rivolti alla speculazione borsistica dove si potevano lucrare interessi più alti e più comodi degli profitti industriali (finanziarizzazione).
Così è avvenuto che, con tutte le altre poste della contabilità nazionale ormai in blocco, negli USA non è rimasta che la soluzione dei consumi privati per ridar fiato alla domanda aggregata ed evitare la crisi di sovrapproduzione. Ma per la stretta salariale imposta dalla “controrivoluzione monetarista” degli anni ’80 e ’90, che altro fare se non far indebitare quelle famiglie americane vogliose di consumare anche a colpi di carta di credito? E’ stato questo il keynesismo geneticamente modificato del Governatore della Federal Reserve Alan Greenspan, che sinteticamente si potrebbe chiamare il Keynspan. Quando però il tasso d’interesse ha preso a crescere per l’aumento del prezzo del petrolio, conseguenza del fallimento della guerra irakena; che minacciava inflazione, quelle famiglie indebitate si sono progressivamente trovate nell’impossibilità di pagare le rate dei mutui e la bolla finanziaria alla fine è scoppiata, perchè che quei mutui, così generosamente elargiti anche se scarsamente garantiti, sono diventati in gran parte inesigibili e quindi nel bilancio delle banche sono dovuti passare dal lato dell’attivo (crediti) a quello del passivo (perdite).
L’american dream si è così tramutato nell’incubo americano che ci tormenta dal 2008 e che, lo si tenga bene a mente, non è per niente terminato.
CREDITS
Immagine in evidenza: merry crisis and a happy new fear
Autore: János Pálinkás 13 gennaio 2010
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