Ballando sul Titanic. Report del convegno
Rete dei Comunisti (in Contropiano Anno 18 n° 3 – 16 settembre 2010)
Con il convegno nazionale di Bologna (“Ballando sul Titanic”), la Rete dei Comunisti ha inteso riaprire un progetto di ricerca e confronto sulla crisi capitalistica in atto che da un lato non conceda nulla alle tesi catastrofiste e dall’altro entri in profondità nella comprensione del carattere della crisi sistemica e delle sue ripercussioni sull’agire politico, sociale, sindacale dei comunisti e della sinistra anticapitalista nel cuore dell’Europa.
Si è arrivati al convegno cercando di formulare le “domande giuste” sulla possibilità o meno che il capitalismo riesca a volgere nuovamente a suo favore una crisi che – al contrario – sembra dimostrarne concretamente le contraddizioni strutturali e irrisolte almeno dagli anni settanta. Con questo incontro la Rete dei Comunisti ha inteso rimettere in campo non solo una iniziativa “politica” ma anche il metodo di lavoro ed elaborazione seguito in questi anni di attività e che su questioni come l’imperialismo nel XXI Secolo e il conflitto Lavoro-Capitale nella sua complessità (inclusa la dimensione ambientale) ha prodotto risultati importanti nella ricostruzione strategica di un punto di vista comunista della realtà. Un punto di vista che non ha esitato a confrontarsi e scontrarsi sul piano scientifico – anche con successo e non solo in Italia – con tesi come quelle su L’Impero, sul totem globalizzazione neoliberista, sul carattere comunque progressivo dell’Europa o sulla fine del Lavoro che sono state sistematicamente smentite dall’evoluzione dei fatti.
Analisi concreta della realtà concreta rimane infatti l’approccio da seguire anche per cercare di comprendere “a che punto è la crisi” e quale possono essere le possibili e diverse vie d’uscita.
La Rete dei Comunisti come intellettuale collettivo
La discussione sviluppata dalle relazioni di Mauro Casadio, Vladimiro Giacchè, Maurizio Donato, Guglielmo Carchedi, Luciano Vasapollo e Giorgio Gattei, ha messo in campo ipotesi diverse che vanno dunque integrate e approfondite attraverso il lavoro di quell’intellettuale collettivo che la Rete dei Comunisti ha sempre cercato di ricostruire e socializzare nel suo percorso.
“La crisi dell’Occidente non è la crisi di tutti i paesi; nei paesi della periferia produttiva, Cina, India, America Latina/Brasile, usati nei decenni passati per investire masse enormi di capitale finanziario in cerca di profitto, per piegare la resistenza della forza lavoro nei paesi imperialisti con la delocalizzazione produttiva e per sostenere il consumismo (versus il Comunismo), ora non si vive una condizione di crisi ma, al contrario, appaiono come i nuovi possibili mercati di sbocco per le imprese occidentali” ha affermato nella relazione introduttiva Mauro Casadio. Questa è però una potenzialità che allo stato attuale non è ancora definita concretamente nè sul piano della dimensione di quei mercati nè su quello della volontà politica degli Stati di quella periferia di aprirli a tutto vantaggio delle imprese dei paesi imperialisti. “Il dato che emerge a questo punto è che i mercati dei paesi capitalisticamente avanzati vivono un condizione di stagnazione che non permette in modo adeguato i processi di valorizzazione del capitale nella produzione di merci per il consumo interno e, come abbiamo visto, la leva finanziaria è divenuta un peso che grava pesantemente sullo Stato impedendo una sua funzione classicamente keynesiana di rilancio del ciclo. “Quello che si prospetta è la possibilità di far crescere i mercati della periferia industriale in Asia ed in America Latina/Brasile dove sono stati coinvolti nella produzione centinaia di milioni di operai e di impiegati di nuova formazione e dove gli Stati avendo notevoli surplus finanziari possono sviluppare i mercati interni” ha sottolineato Casadio ponendo l’interrogativo secondo cui “se appare evidente la possibilità di crescita dei ceti medi di quei paesi, quello che bisogna chiedersi è se questi ceti medi sono aggiuntivi o sostitutivi di quelli presenti negli attuali paesi imperialisti. Se viene meno progressivamente il signoraggio del dollaro e la prevalenza della leva finanziaria ora in crisi, che ha permesso negli ultimi decenni l’egemonia USA ma anche del capitalismo in generale, la competizione non può che tornare tendenzialmente sulla produzione di merci. Questo cosa potrà significare concretamente per l’Europa e l’occidente?” (….) “L’attuale crisi, diversamente da quella del ’29, ha assunto caratteri sistemici, sia perché oggi avviene in un contesto di globalizzazione dei mercati, soprattutto quelli finanziari che scaricano gli effetti macroeconomici in una immensa rete di domino finanziario dei debiti, sia perché l’attuale espressione della crisi economica riassume anche quelli della crisi globale dislocata al più alto livello della contraddizione capitale-natura, capitale-fonti energetiche e capitale-alimentazione, capitale- Stato di diritto fino a mettere in discussione la stessa etica capitalista. Inoltre questa crisi è sistemica poiché per la prima volta tocca profondamente i rapporti sociali in tutti i paesi, non solo quelli a capitalismo maturo, investiti in maniera diretta o indiretta dalle nuove forma assunte dalla competizione globale”.
La relazione introduttiva non si è sottratta neanche alla questione delle ricadute politiche legate alla soggettività delle forze rivoluzionarie che dovrebbero e potrebbero agire dentro la situazione per cercare di modificarne gli esiti La soggettività politica non nasce nella “mente di Giove” ma nella concretezza dello scontro di classe e con questo bisogna fare i conti qui ed ora nelle condizioni che stiamo vivendo anche per una nostra responsabilità collettiva” (…) E’ evidente che nessuno detiene il monopolio della politica e dunque tutti siamo chiamati a misurarci con la situazione ma anche nelle relazioni tra le forze politiche, sindacali e sociali. Per questo la Rete dei Comunisti da tempo a scelto di misurarsi a tutto campo e con tutti cosciente che oggi ha valore solo il merito delle questioni”.
Gli sbocchi possibili e le molte incognite della crisi del capitale
La relazione di Vladimiro Giacchè, ricchissima di dati e di spunti, ha ricostruito e decostruito il sistema finanziario internazionale e le sue responsabilità nella crisi, azzardando anche la valutazione secondo cui “I prossimi anni saranno comunque caratterizzati da estrema instabilità finanziaria in tutti i principali mercati (titoli azionari, obbligazioni, valute, materie prime). Ma anche da rigurgiti protezionistici e dal tentativo di deviare la bomba a orologeria della crisi nel giardino del vicino (ad es. con svalutazioni competitive, ma anche scatenando la speculazione) Esplicito è stato il richiamo di Giacchè alla storia della crisi della prima metà del Novecento “la crisi che ha investito l’area dell’euro è l’inizio (ma, appunto, soltanto l’inizio) di una nuova fase. Che presenta tratti simili, e in misura inquietante, agli anni Trenta del secolo scorso”.
La tesi esposta dalla relazione di Maurizio Donato da un lato ha ridimensionato l’idea dell’estensione dei ceti medi su scala internazionale come possibile costruzione di un nuovo mercato mondiale di sbocco per la produzione dei paesi del centro (Europa, USA), dall’altra ha segnalato la crescente verticalizzazione politica degli stati imperialisti nel tentativo di controllare tutte le possibili contraddizioni: “La fase del ciclo di accumulazione caratterizzata dal monetarismo neo-liberista è stata accompagnata da una trasformazione profonda della politica nel segno di una governance che, sottraendo le istituzioni statali classiche alle pressanti domande sociali da parte dei soggetti che avevano messo in crisi nel ciclo precedente il vecchio meccanismo della rappresentanza giuridica formale, fonda nuove istituzioni post-democratiche e sperimenta nuove forme di controllo tecnologico e comportamentale” ha sostenuto Maurizio Donato “Quello che ci ritroviamo dopo 30 anni di liberismo monetarista è così uno Stato non più debole, ma più forte, più poliziesco e militarista di prima,che cerca di anticipare, depotenziare e controllare il conflitto sociale giocando contro i soggetti la loro esigenza di libertà facendogliene prima pagare i ‘costi di produzione’ e poi restituendogliela totalizzata sotto forma di controllo securitario.
La relazione di Vasapollo ha analizzato la funzione economica dello Stato nella condizione determinata dalla crisi. Lo Stato Keneysiano di rilancio del ciclo economico è stata distrutta da oltre un ventennio di politiche liberiste ma oggi si riscopre la sua funzione in relazione esclusiva al sostegno al capitale finanziario ed alla crisi che questo stesso ha determinato. Le migliaia di miliardi di dollari ed euro dati nei due lati dell’oceano certamente rinviano le contraddizioni ma rinvigoriscono le tendenze speculative e producono un effetto di ulteriore depressione economica. In particolare è stato evidenziato il ruolo dell’Europa necessario ad affrontare la crisi della Grecia e quelle delle altre che si prospettano in altri paesi del continente con le quali gli Stati nazionali non sono in grado di misurarsi. In sintesi un rafforzato ruolo della UE ma anche una modifica dei rapporti di forza al suo interno. Infine è stato rilevato dal relatore che la parziale tenuta finanziaria del nostro paese nel contesto di crisi è stato possibile grazie alla presenza della economia criminale che per riciclare i propri capitali sporchi investe nella finanza del nostro paese stabilizzandola.
La relazione di Guglielmo Carchedi, in continuità con il contributo già avanzato nel convegno di Pisa dello scorso anno, si è concentrata sullo sviluppo delle forze produttive attraverso il quale il capitalismo ha spesso dimostrato nella storia di sapersi tirare fuori dalle sue crisi di accumulazione: “Marx ha dimostrato come il capitalismo generi spontaneamente disoccupazione, povertà, sfruttamento e molti altri mali per la stragrande maggioranza dei lavoratori e della popolazione mondiale. Ciò non cambierà. Quello che cambierà sarà la forma di questi mali. Se le nuove tecnologie avranno penetrato la società, quest’ultima sarà cambiata radicalmente” Le nuove tecnologie e il loro esplicito contenuto di classe secondo Carchedi non sono affatto neutrali e possono contribuire all’assoggettamento totale del lavoro al capitale anche a livello del vivente. Il mito del progresso tecnologico come mito appunto va visto anche nell’ottica di rendere ancora più subalterno l’essere umano e il lavoro al capitale se non verranno volte contro il capitalismo stesso “Indubbiamente, questi sviluppi avranno anche aspetti positivi per il lavoro e per le popolazioni in genere, anche se questi vantaggi saranno distribuiti in maniera molto diseguale, e comunque entro i confini posti dal capitale. Ma è importante sapere che le nuove tecnologie rappresenteranno nuove forme di sfruttamento e di possibile resistenza contro tale sfruttamento. Un piano politico realmente antagonista deve guardare oltre il presente, deve guardare al dopo la risoluzione della crisi e quindi anche al carattere di classe delle nuove tecnologie e a nuove forme di lotta di classe”.
La relazione di Giorgio Gattei ha cercato di collocare anche storicamente i vari passaggi di egemonia nel sistema capitalista (dal predominio dell’Olanda a quello della Gran Bretagna fino agli Stati Uniti oggi in seria difficoltà). L’analisi sull’imperialismo di Lenin aveva sotto mano la supremazia dell’imperialismo britannico nel quale, a differenza della precedente esportazione di merci, diventa caratteristica “l’esportazione di capitale, o piuttosto (per dirla con Hilferding) non si esportano «più le merci, ma la stessa produzione di merci» – è all’ombra di questa novità imperialistica che si è consumato il passaggio d’egemonia dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti”.
Ma oggi che l’egemonia statunitense emersa dal declino britannico e dalla fine della sconda guerra mondiale, cosa può accadere? Qualcosa è già accaduto ha sostenuto Gattei “Oggi le cose si sono messe in maniera diversa. A seguito degli accordi che hanno condotto alla costituzione del WTO (equivalenti per importanza alla leggi sul libero commercio del grano introdotte in Inghilterra nel 1848) si è autorizzata l’apertura del mercato del centro ai manufatti prodotti dalla periferia, così che la relazione imperialistica di base ha rovesciato la sua direzione, non essendo più il centro bensì la periferia ad esportare i manufatti del mondo. Di conseguenza non c’è più convenienza per il centro a produrli all’interno (a meno che non si tratti di manufatti d’eccellenza o “di nicchia”) e ciò ha indotto quella sua deindustrializzazione che è servita per “spiazzare” le rivendicazioni salariali che hanno afflitto il centro nell’ultima stagione del “fordismo”. Secondo gattei sta emergendo però almeno un problema: ma come paga il centro imperialistico quei manufatti che acquista senza contropartita d’altre merci? “Con la propria moneta che costituisce il denaro universale (dollari nella fattispecie) e che però è costretto a recuperare per realizzare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Ciò avviene in termini finanziari con il centro, non più esportare di manufatti, che per esporta titoli di credito acquistati dalla periferia con il ricavato della vendita dei manufatti. Insomma, in questo terzo imperialismo (come m’è venuto di chiamarlo) la novità della relazione internazionale mostra una esportazione di manufatti dalla periferia verso il centro ed un indebitamento del centro nei confronti della periferia”.
Le conseguenze sul piano politico della crisi
Al termine delle relazioni ci sono stati alcuni interventi politici a cominciare da quello del segretario del PRC Paolo Ferrero che ha interloquito con alcune delle relazioni anche sulla base della recente visita in Cina che è stata per molti aspetti il “convitato di pietra” del dibattito sulla crisi. Pur non condividendo la severità contro il neokeynesismo di diverse relazioni, Ferrero ha apprezzato lo stile e lo sforzo del convegno.
Nel pomeriggio ci sono stati gli interventi di Grondona (Comunisti Uniti), Bernardi (Sinistra Critica), Volponi (L’Ernesto), Valenti (Comunisti-Sinistra Popolare), Romaro (Il Pane e le Rose) che si sono confrontati nel merito delle questioni poste dal convegno sia nell’analisi della crisi sia nelle ricadute che essa ha sulla situazione politica italiana. Il nodo della debolezza e della dispersione della soggettività politica anticapitalista e comunista nel nostro paese è emersa con forza come nota dolente in tutti gli interventi, così come tutti hanno sottolineato la rarità e quasi l’eccezionalità tra le forze comuniste di momenti di discussione e analisi come quella avanzata nel convegno di Bologna. Pur avendo verificato come non esista alcun automatismo tra crisi e aumento del conflitto sociale – ha ricordato nelle conclusioni Sergio Cararo per la Rete dei Comunisti – è evidente come una soggettività politica più forte e credibile potrebbe incidere molto a più a fondo nei processi sociali che la crisi ci consegna, ma l’idea che i momenti di approfondimento e l’analisi della realtà siano solo una opzione accessoria e secondaria nel lavoro politico, sociale e sindacale dei comunisti, è una deformazione decisamente assurda che ha privato in questi decenni i militanti degli strumenti di interpretazione, conoscenza e coscienza che sono invece decisivi in una situazione messa completamente in movimento dalla crisi di sistema del capitalismo. A questo intende continuare a dare il suo contributo l’esperienza della Rete dei Comunisti.
Le relazioni del convegno sono disponibili in audio sul sito di Contropiano grazie alla collaborazione dei compagni di Antiper che ringraziamo.
Bologna, 21 giugno