Guglielmo Carchedi in Ballando sul Titanic. Atti del convegno
La crisi scoppiata nel 2007 ha colto di sorpresa non solo la classe politica e istituzionale ma anche la totalità degli economisti ortodossi, che sono i fautori teorici più accesi delle politiche neo-liberali. Non avendo previsto la crisi, ora che è scoppiata, essi tentano ora di raccapezzarsi per cercare di spiegarne le origini. Questa incapacità non è dovuta necessariamente ai limiti intellettuali degli economisti ortodossi ma ai limiti inerenti alla teoria stessa. La causa di questa incapacità è il presunto comportamento degli agenti economici e cioè della domanda e dell’offerta. Detto in termini non tecnici, se il prezzo è troppo alto, cioè se la domanda è insufficiente, alcune merci rimangono invendute. Quindi i venditori devono abbassare il prezzo. Conseguentemente, la domanda aumenta fino a quando tutte le merci sono vendute. Il contrario vale se il prezzo è troppo basso. In tal caso, un eccesso di domanda fa alzare il prezzo e quindi l’offerta. Quindi, per la teoria neo-classica l’economia tende verso l’equilibrio sul mercato. Non vi è spreco, le risorse sono impiegate in modo ottimale e quindi l’economia è razionale.
Si noti che il comportamento degli agenti economici che spinge il mercato verso l’equilibrio e un comportamento prettamente egoista. Per esempio, se la domanda aumenta e cioè se vi è più bisogno di una certa merce, coloro che dispongono di quella merce si approfittano di questo maggior bisogno e aumentano il prezzo. Un comportamento altruista o non aumenterebbe il prezzo o addirittura lo diminuirebbe per venire incontro ai maggiori bisogni. Quindi l’equilibrio di mercato e la razionalità del sistema si basano su un comportamento implicitamente egoista. L’egoismo è razionale. Ma allora l’altruismo è irrazionale. Una società alternativa non basata sull’egoismo è per definizione irrazionale perché inefficiente. Questo è il contenuto di classe della teoria.
Soprassediamo sul fatto che questa teoria è minata alle fondamenta sia da osservazioni empiriche che da considerazioni teoriche. La questione che ci riguarda ora è: questa teoria come spiega le crisi? Essa non la spiega. Per esempio, un primo tentativo sostiene che le crisi sono dovute all’azione dello stato che interferisce e altera il funzionamento del mercato. Questo sarebbe un errore. Un’altro tentativo sostiene che le crisi sono dovute ad un diverso tipo di errore, e cioè ad una insufficiente regolamentazione del sistema economico e finanziario. Nella fattispecie, all’origine della recente crisi nel settore finanziario vi sarebbero alti livelli di debito, una sfrenata speculazione, una meno rigorosa politica monetaria, ecc., il tutto come conseguenza della deregolamentazione in seguito all’abrogazione nel 1999 del Glass-Steagall Act. Nel primo caso si uscirebbe dalla crisi ritornando ad un sistema completamente deregolamentato. Nel secondo, si uscirebbe dalla crisi aumentando la regolamentazione.
È certamente vero che gli errori, sia la regolamentazione che la sua assenza, hanno giocato un ruolo in tutte le crisi. Ma questo è il punto. Siccome le crisi sono una caratteristica costante e ricorrente del capitalismo, se la loro origine fossero solo gli errori dei politici, degli economisti, dei policy makers, ecc. perché sarebbero questi errori ricorrenti? Perché non potrebbero costoro imparare dei propri errori? È chiaro che vi devono essere delle ragioni strutturali che impediscono loro di imparare dai propri errori, e cioè che li costringono a fare gli stessi errori una volta dopo l’altra. Per esempio, la deregolamentazione non è stata semplicemente un errore, è stata necessaria per dare un maggior margine di manovra al capitale per incrementare i profitti. Tuttavia, tale misura ha aumentato i profitti nella sfera finanziaria e speculativa, aumentando così la bolla speculativa, invece di riavviare la produzione di valore e ricchezza.
La tesi dominante è che la crisi, essendo sorta nella sfera finanziaria/speculativa, si estende poi alla cosiddetta sfera reale, cioè produttiva. È certamente vero che la chiusura dei canali di credito dovuta alla crisi bancaria può provocare una catena di fallimenti nel settore produttivo. Tuttavia, l’osservazione empirica che la crisi, una volta scoppiata nel settore finanziario, si espande a quello produttivo non implica che essa abbia avuto origine nel settore finanziario. La ragione è la seguente.
Nell’economia capitalista vi sono settori produttivi e settori improduttivi, principalmente quello commerciale, finanziario e bancario. Solo nei settori produttivi si generano nuovo valore e profitti. Le attività commerciali, per esempio, non generano nuovi profitti ma ridistribuiscono i profitti esistenti. Una merce il cui valore è 100 può essere venduta a 120. Ma in tal caso, quello che guadagna il venditore è perso dal compratore e i profitti nel loro insieme né aumentano né diminuiscono. La compra-vendita non genera profitti. È in questo senso che è improduttiva anche se necessaria per il funzionamento del sistema economico.
Lo stesso vale per il settore bancario. Quando una banca fa credito per un multiplo dei propri depositi, essa non crea come si usa dire moneta dal nulla, per il semplice motivo che il credito non è moneta. La moneta, qualunque forma essa abbia, è un simbolo di valore, di ricchezza. Anche nel caso di un movimento inflazionistico, una maggiore quantità di moneta rappresenta la stessa quantità di ricchezza, e tuttavia quella moneta rappresenta ricchezza. Il credito invece è un simbolo di un debito. Un aumento della sfera creditizia non significa un aumento della ricchezza, o valor reale, e viceversa per una sua contrazione. Il credito non è moneta, checché ne dicano gli economisti ortodossi, perché la moneta è un simbolo di valore mentre il credito è un simbolo di debito. Il credito è certamente necessario per il buon funzionamento del capitale produttivo ma malfunzionamenti nel sistema creditizio non possono provocare una crisi, cioè una distruzione di capitale produttivo e un calo nel tasso medio di profitto. Il malfunzionamento del credito può solo rivelare il precedente malfunzionamento del settore produttivo.
Lo stesso vale infine per il settore finanziario e speculativo, dove si comprano e vendono titoli di credito/debito di vario tipo, inclusi i derivati. Questo investimento non crea nuovo valore, ricchezza. Esso è solo un trasferimento di potere d’acquisto da un agente economico a un altro, una redistribuzione di valore, di ricchezza. Per esempio, se la borsa crolla e i prezzi dei titoli con essa, contrariamente a quanto ci raccontano i giornali finanziari, non si bruciano capitali, non vi è una distruzione di valore (così come non vi è creazione di valore quando i prezzi aumentano), ma vi è solo una redistribuzione di valore dai compratori ai venditori di quei titoli.
Se in questi settori non viene né creato né distrutto valore, essi non possono essere la causa della crescita economica o della decrescita, cioè delle crisi. La relazione di causa ed effetto è la seguente: la crisi nel settore reale determina un enorme afflusso di capitale nel settore finanziario. La rincorsa di sempre maggiori profitti virtuali in tale settore, per compensare la caduta di profittabilità nel settore reale, provoca una bolla finanziaria che, una volta scoppiata, rivela la debolezza del settore produttivo. È da qui, e non dalla finanza, che la crisi parte. Nella fattispecie, il settore produttivo era in grandi difficoltà già prima del 2007, come dimostrato dal movimento del tasso medio di profitto fin da dopo la seconda guerra mondiale (movimento su cui ritornerò), un movimento che ha poi determinato l’inizio di una crisi di lunga durata a cominciare dai primi anni 1970.
Se nei circoli ufficiali accademici la tesi prevalente è quella della deregolamentazione, nella sinistra è quella del sottoconsumo. Essa individua l’origine della crisi nella caduta dei salari nel lungo periodo. Bassi salari significano beni di consumo invenduti venduti, una perdita per il capitale, e una caduta del tasso di profitto. I bassi salari, a loro volta, sarebbero causati dalla politica economica neo-liberale. Questa tesi, se fosse corretta, sarebbe una critica potente del neo-liberalismo. Purtroppo non è corretta. Marx ha considerato la possibilità che una parte del prodotto non possa essere venduto. Ma non ha mai pensato che questa fosse la causa delle crisi, tanto è vero che i suoi schemi di riproduzione dimostrano che tutto il prodotto può essere venduto, qualsiasi sia il tasso di profitto ipotizzato. Il motivo, penso, è il seguente.
Ipotizziamo un taglio salariale. L’ipotesi iniziale sia che tutti i beni di consumo che non possono essere acquistati dai lavoratori non possano essere acquistati neanche dai capitalisti. Questo è il caso più favorevole alla tesi sottoconsumistica. I profitti come conseguenza dei minori salari e le perdite a causa delle minori vendite si cancellano e il numeratore del tasso di profitto ritorna al livello precedente il taglio dei salari. Il denominatore, e cioè il capitale sia effettivamente investito sia disponibile per investimenti, non cambia perché quello che il capitalista risparmia tagliando i salari diventa una riserva che conta nel calcolare il tasso di profitto. Quindi, il tasso di profitto ritorna al suo livello di prima del taglio salariale. Ma l’ipotesi di partenza è solo una prima approssimazione. Per capire l’origine delle crisi, dobbiamo partire da un periodo di crescita economica in cui non vi è ancora crisi. In questa fase i profitti crescono. Ma allora i capitalisti, o altre classi se consideriamo più di due classi, possono acquistare almeno una parte dei beni invenduti ai lavoratori e il tasso di profitto cresce. Nella fase ascendente, i minori salari possono solo aumentare i profitti e quindi non possono essere la causa della crisi.
I minori salari non solo non possono essere la causa della crisi, essi non possono essere neanche la via d’uscita dalla crisi. Nella crescita economica si ha sia un aumento del tasso medio di profitto (aumento relativo dei profitti) sia un aumento del livello assoluto, cioè della massa, dei profitti. Cioè si deve avere una riproduzione allargata del capitale a tassi di profitto crescenti che deriva dall’investire una parte dei profitti nel settore produttivo. Ora, nella fase discendente del ciclo, i profitti non sono investiti nella sfera produttiva –mancando la possibilità di fare profitti in questa sfera – ma si dirigono verso le riserve e il settore finanziario. Essi quindi non possono iniziare una riproduzione allargata del capitale produttivo. È quindi inutile per i lavoratori accettare riduzioni salariali come se ciò fosse la via d’uscita dalla crisi. Una cosa è che i lavoratori di una ditta vicina al fallimento accettino un taglio salariale per salvare il proprio posto di lavoro, un’altra è argomentare che l’economia esce dalla crisi attraverso i tagli salariali.
La terza teoria è la profit squeeze secondo la quale nell’alta congiuntura i lavoratori sono più forti e possono strappare maggiori salari a svantaggio dei profitti. Sarebbero gli alti salari piuttosto che i bassi salari (come nella tesi del sottoconsumo) che sono la causa della crisi. Siccome i salari e i profitti sono in relazione inversa, questa tesi sembra andare d’accordo col paradigma Marxiano. E tuttavia per Marx “nulla è più assurdo che spiegare la caduta del tasso di profitto con un aumento del tasso salariale”. Credo che la ragione sia la seguente. Abbiamo visto che, per comprendere l’origine della crisi, bisogna supporre un periodo di crescita economica al cui interno si genera la crisi. In questa fase, i profitti crescono. Ma secondo la teoria in questione crescono anche i salari. La salari e profitti possono crescere entrambi solo se la massa del plusvalore cresce. E ciò è precisamente quello che succede nella fase ascendente. Ma questo è anche il tallone di Achille della teoria. Se nell’alta congiuntura crescono sia i salari sia i profitti, i maggiori salari non diminuiscono necessariamente i profitti e quindi le crisi (la diminuzione del tasso di profitto medio) non derivano necessariamente dagli alti salari. Supponiamo che io investa 100 e faccia un profitto di 1: il tasso di profitto è 1%. Se adesso, in un fase di alta congiuntura, il profitto è di 5 di cui 2 vanno ai salari e 3 ai profitti, crescono sia i salari (+2) che la massa dei profitti (+3) che il tasso di profitto (dall’1% al 3%). Non vi è quindi nessun motivo per dedurre che nella fase ascendente un incremento salariale incida necessariamente sul tasso di profitto e sulla massa dei profitti. Questo può essere il caso oppure no. Questo è il caso solo se supponiamo che la massa e i profitti siano costanti o decrescenti. Ma ciò presuppone la crisi e quindi non è ipotizzabile se si vuole comprendere la sua genesi. L’osservazione empirica che alti salari in un periodo sono seguiti da un periodo in cui i profitti e quindi il tasso di profitto medio diminuiscono non può supportare la tesi in questione.
Tra l’altro, ciò rigetta anche con l’interpretazione neo-liberalistica che è ossessionata dagli alti salari.
Queste teorie dunque non sono in grado di spiegare l’inevitabile genesi delle crisi. Ma vi è anche un’altra ragione per rifiutarle. Se l’origine della crisi fossero i livelli salariali troppo bassi (sottoconsumo) o troppo alti (profit squeeze), si potrebbe uscire dalla crisi sia aumentando sia diminuendo i salari. Le crisi sarebbero quindi dovute a una distribuzione sbagliata e potrebbero quindi essere evitate. Se possono essere evitate, è possibile far tendere l’economia verso la crescita economica. E se può tendere verso la crescita, non tende oggettivamente verso le crisi e il proprio superamento. La lotta dei lavoratori cessa di essere la manifestazione cosciente di un movimento oggettivo. Il lavoro è privato della base teorica per la sua lotta per il superamento del capitalismo. Ancor peggio. Non vi è nessuna ragione per ipotizzare il continuo emergere di gruppi o classi sociali che necessariamente rappresentano la tendenza oggettiva del sistema verso il proprio superamento.
D’altro canto, solo teorizzando una tendenza oggettiva verso la crisi e il provvisorio superamento della crisi come controtendenza, è possibile capire come vi debbano essere forze soggettive che esprimono a livello di coscienza di classe la tendenza e altre forze che esprimono la controtendenza. Ciò è possibile solo con la quarta teoria, quella della caduta tendenziale del tasso di profitto. La tesi alla base di questa teoria è che i capitalisti competono tra di loro introducendo nuove tecnologie. Queste tecnologie sono concepite per rimpiazzare i lavoratori con mezzi di produzione. Siccome solo il lavoro produce plusvalore, meno plusvalore è creato per unità di capitale investito. Il tasso medio di profitto cade, ceteris paribus. Siccome la concorrenza tecnologica è il motore della dinamica capitalista, l’economia tende necessariamente verso la caduta del tasso di profitto e quindi la crisi a causa della propria dinamica interna. Il sistema tende verso periodi di crisi interrotti da periodi di crescita economica invece di tendere, come sostiene la stragrande maggioranza degli economisti, verso periodi di crescita economica interrotti da periodi di crisi. Siccome il sistema è un sistema di relazioni tra gruppi e classi sociali, questo approccio dimostra che vi devono essere soggetti sociali che incarnano la tendenza verso il superamento e altri che incarnano la contro-tendenza verso la riproduzione del sistema.
Ma le innovazioni, non solo eliminano forza lavoro e riducono il plusvalore, esse aumentano anche la produttività (definita come la quantità di output prodotto in un determinato periodo per unità di capitale investito). Se i leaders tecnologici producono una quantità maggiore di output, il minor valore prodotto è incorporato in una maggiore quantità di valori d’uso. Essi vendono questa maggiore quantità per lo stesso prezzo unitario della minore quantità prodotta dai concorrenti meno efficienti e quindi realizzano un tasso di profitto maggiore. Il tasso medio di profitto cade mentre il tasso di profitto degli innovatori cresce. Se il tasso medio di profitto cade, agli altri capitalisti rimangono meno profitti da realizzare. Questi capitalisti entrano in difficoltà. Alcuni falliscono. Più questo processo continua, più si avvicina la crisi. Come dice Marx, “Il tasso di profitto cala non perché il lavoro diventa meno produttivo ma perché diventa più produttivo”. Questa è l’unica teoria che dimostra che l’economia deve tendere verso le crisi e quindi oggettivamente verso il proprio superamento. È l’unica teoria che offre una base oggettiva per la lotta dei lavoratori.
Due punti ne conseguono. Se una parte del maggior output non può essere venduto né ai lavoratori (a causa della disoccupazione) né ai capitalisti (a causa dei minori profitti), la conseguenza è la sovrapproduzione. Tuttavia essa è la conseguenza della crisi (dei minori salari e profitti) piuttosto che esserne la causa. Secondo, i minori salari non sono la causa della crisi ma essi sono una contro-tendenza messa in moto dal capitale per contrastare la caduta dei tassi di profitto.
I dati empirici supportano tutto ciò:
- negli USA, la produttività, l’output per ora nel settore non-agrario, è aumentata dal 51 nel 1959 a 136 nel 2007.
- allo stesso tempo, tra il 1950 e il 2002, incrementi nel capitale costante hanno creato sempre meno posti di lavoro.
- come conseguenza della minor redditività nella sfera produttiva, il capitale si è mosso verso le sfere improduttive, quella finanziaria e speculativa. Questa è la causa ultima della recente crisi finanziaria. L’occupazione nella sfera produttiva cade dal 28% della totale occupazione nel 1979 al 17% nel 2005, cioè nel 2005 più dei 4/5 della forza lavoro statunitense era impiegata improduttivamente.
- conseguentemente, il trend nel tasso di profitto medio negli USA è stato discendente fin dai primi anni susseguenti la seconda guerra mondiale.
- la caduta del tasso di profitto ha causato una caduta nei salari come contro-tendenza. Negli USA il salario minimo è diminuito del 26% tra il 1967 e il 2005. Ciò ha causato livelli crescenti di povertà. Ma non solo negli USA. La povertà nel mondo ha raggiunto livelli catastrofici. Oggigiorno, un miliardo di persone soffre la fame e, tragica ironia, la metà sono piccoli e indipendenti produttori di generi alimentari e salariati nell’agricoltura.
Contrariamente a quanto si crede, le nuove tecnologie non causano la crescita economica. Esse causano disoccupazione e quindi sono la causa ultima della crisi. Tuttavia il loro effetto non è immediato. Dopo una prima fase in cui vi è sia riproduzione allargata (accumulazione di capitale) sia tassi di profitto crescenti, vi è una seconda fase in cui i tassi di profitto incominciano a calare mentre l’accumulazione procede. In questa fase la disoccupazione aumenta nei settori arretrati, a bassa composizione organica ma la forza lavoro eccedente è assorbita dai capitali più avanzati tecnologicamente che si stanno ancora espandendo. Il tasso medio di profitto cala ma la massa dei profitti da reinvestire per alimentare l’accumulazione aumenta. Dopodiché vi è una fase di minor accumulazione e profittabilità. Questa è la depressione economica e la crisi.
Le nuove tecnologie hanno un triplice effetto. Primo, in tutte le fasi del ciclo, esse riducono l’occupazione e quindi il plusvalore e quindi il tasso medio di profitto. Secondo, siccome aumentano la produttività del lavoro, esse sono una delle condizioni (non la causa) della crescita nel periodo ascendente perché provvedono sia i mezzi di produzione sia di sostentamento necessari per una riproduzione allargata. Infine, favorendo i leaders tecnologici e la loro crescita a scapito dei capitali con tecnologie obsolete, esse causano la concentrazione e centralizzazione di capitale. Nel dopoguerra, esse hanno provocato una grande concentrazione di ricchezza nelle aziende e nei paesi tecnologicamente avanzati a scapito del resto del mondo. Quindi, in una fase depressiva, maggiori innovazioni tecnologiche non possono offrire una via di uscita dalla crisi, esse possono solo aumentare la concentrazione del capitale e inasprire la crisi.
Allora, come si esce dalla crisi? Non attraverso minori salari, anche se essi implicano una minore caduta dei profitti, come sostiene la sezione del capitale più retrogrado. Ma neanche attraverso maggiori investimenti in alte tecnologie, come sostengono i capitalisti più efficienti. Essi non si rendono conto che i maggiori profitti che l’alta tecnologia assicura ai capitalisti più efficienti non provengono dal maggiore valore prodotto ma da una appropriazione di valore il cui risultato finale è un deterioramento della profittabilità generale. Visto che le alte tecnologie sono concentrate nei paesi imperialisti, l’appropriazione di valore è anche un fenomeno internazionale.
Per Marx, si esce dalla crisi attraverso “la distruzione di capitale in maggiore o minore misura”. Distruzione di capitale significa distruzione della relazione di produzione capitalista, la recisione della relazione tra capitale e lavoro, anche attraverso le guerre. Questo sistema si rigenera in maniera distruttiva, esso tende verso la propria catarsi, la distruzione del capitale eccedente, che è quello meno efficiente. Si esce dalla crisi solo quando sufficiente capitale è stato distrutto. Solo allora possono le riserve e il capitale investito nel settore finanziario rifluire nelle attività produttive. In questo momento, una crisi di grandi proporzioni, sulla scala di quella del 1929, è esplosa solo nel settore finanziario. Una massiccia redistribuzione di valore dal lavoro al capitale finanziario è riuscita ad evitare massicci livelli di fallimento e disoccupazione nella sfera produttiva. Ma in tal modo la crisi è stata solamente posposta.
Tutto ciò non comporta per nulla un atteggiamento passivo da parte di coloro che sono le vittime della crisi. La difesa del proprio livello di vita e del proprio posto di lavoro fanno parte di tutta una serie di rivendicazioni (lotta contro le privatizzazioni, contro la distruzione del medio ambiente, ecc.) il cui scopo è a breve termine quello di non far pagare gli effetti della crisi a chi non ne è la causa e a più lungo termine è quello di favorire la presa di coscienza che si esce dalla crisi solo se si esce da questo sistema economico e sociale. Senza questa presa di coscienza, il capitalismo continuerà a rigenerasi in forme nuove e sempre più distruttive ma sostanzialmente sempre le stesse.
Se, come è prevedibile, il capitale uscirà da questa crisi rafforzato, ci aspetterà una nuova fase della lotta di classe. In questa fase un ruolo fondamentale sarà giocato dalle nuove tecnologie. Questo è un punto fondamentale che purtroppo è ignorato dalla totalità della sinistra, inclusi i marxisti.
Secondo Marx, “una crisi è sempre il punto iniziale di massicci nuovi investimenti. Quindi, dal punto di vista della società essa forma una nuova base materiale per il successivo punto di svolta del ciclo”. Ciò significa che una massiccia distruzione di capitale dovuta alla crisi è seguita da una nuova fase di accumulazione del capitale. Questo è il motivo per cui ogni crisi di maggiori proporzioni è seguita da un’ondata di nuovi investimenti. Sono questi che sono la nuova base materiale. Quanto più grave è la crisi, tanto maggiori sono i nuovi investimenti. Ma dal punto di vista del lavoro, è ugualmente importante sottolineare che i nuovi e massicci investimenti saranno in nuove tecnologie. Queste nuove tecnologie non solo rimpiazzeranno lavoratori con mezzi di produzione, non solo aumenteranno la produttività del lavoro, non solo getteranno i semi della prossima depressione e crisi, ma saranno anche nuove forme di lotta di classe.
Per comprendere questo punto è necessario trattare brevissimamente la questione se la scienza e le tecnologie abbiano un contenuto di classe o no. Per coloro che ne siano interessati, rimando al mio libro di prossima pubblicazione, Behind the Crisis.
Per l’approccio tradizionale Marxista-Leninista, le forze di produzione, e la scienza e le tecniche che ne fanno parte, non hanno un contenuto di classe e quindi possono essere usate indifferentemente sia nel capitalismo sia nel socialismo. Sarebbe quindi il loro uso e non il loro contenuto che conta. L’approccio contrario, che secondo me è quello di Marx, è che la razionalità della classe penetra la scienza e le tecnologie fin dall’inizio, durante la loro concezione. Per Marx, “sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni che sono state fatte fin dal 1830 il cui solo scopo è essere un’arma del capitale contro le rivolte della classe operaia”. Da questa prospettiva, considerare il sapere come ‘oggettivo’ nel senso di socialmente neutrale rafforza le relazioni di potere dominanti. Elaborando il senso dell’affermazione di Marx, è possibile giungere alla conclusione che il sapere, e questo è ovvio per quello prodotto dalle grandi ditte nel secondo dopoguerra, è stato concepito sotto relazioni di produzione mentale capitalistiche, e cioè dal lavoratore mentale collettivo per il capitale.
Due importanti conclusioni possono essere tratte:
- primo, la conoscenza ha una doppia e contraddittoria natura. Deve essere adatta a dominare il lavoro perché essa è stata concepita per il capitale; ma essa può essere usata anche per resistere contro quel domino perché è stata concepita dal lavoratore mentale collettivo. Si considera priva di contenuto di classe semplicemente perché può essere usata da entrambe le classi per i loro fini opposti. Ma questa possibilità è dovuta non ad una sua presunta neutralità ma al suo contenuto di classe.
- secondo, il fatto che essa sia stata concepita dal lavoratore mentale collettivo per il capitale significa che la creatività dei lavoratori mentali deve essere stimolata ma solo nelle forme determinate ed entro i confini posti dal capitale. Quindi l’uso di questa conoscenza fatta dal lavoro e contro il capitale non può cancellare la sua origine di classe. L’uso di tale conoscenza per combattere il dominio capitalista contribuisce allo stesso tempo alla riproduzione di tale dominio, in forme e misure diverse. Il suo uso sarà tanto più efficace quanto questo intrinseco effetto negativo sarà minimizzato. Tuttavia, è dubbio se questo effetto negativo possa essere cancellato.
Tutto ciò vale anche per le nuove tecnologie. Alcune di esse sono: la biotecnologia (che considera la natura come una sostanza programmata e quindi programmabile); la nanotecnologia (il cui scopo è il controllo della materia a un livello atomico o molecolare); la bioinformatica (l’applicazione dell’informatica alla biologia molecolare); genomica (la determinazione della struttura del DNA degli organismi); la biofarmacologia (la ricerca di medicine biotecnologiche); e il calcolo molecolare (l’uso di singoli atomi e molecole per la soluzione di problemi di calcolo).
Queste e altre nuove tecnologie sono molto importanti per il periodo di transizione, e cioè per la determinazione di quali elementi delle forze di produzione capitaliste (comprese queste tecnologie) possano essere usate nella transizione verso il socialismo e in quale misura. Ma esse sono anche molto importanti per quella che Marx chiama la nuova base materiale che emergerà dopo la crisi. Grandi quantità di capitale, ora inattivo sia come riserve o investito nella finanza e nella speculazione, attendono di essere investite con profitto nel settore produttivo dopo la crisi. Questo capitale sarà investito principalmente nelle nuove tecnologie.
Al fine di chiarire gli effetti della loro introduzione sulla lotta di classe, vediamo qual è la differenza tra le nuove e le vecchie tecnologie. Il punto discriminante è l’introduzione del computer. Mentre le vecchie tecnologie (prima della guerra) forzano le funzioni umane ad adattarsi al movimento delle macchine (si pensi alla catena di montaggio), le nuove tecnologie (dopo la guerra), quelle che presuppongono il computer, riproducono in una maniera meccanica le funzioni umane (si pensi ai robot) e integrano gli esseri umani nelle macchine. Il contenuto di classe di queste tecnologie è che esse riproducono il pensiero, la creatività e persino la vita degli umani in un modo semplificato e meccanizzato cosicché essi possano essere meglio controllabili. Conseguentemente, le nuove tecnologie rendono possibile la sostituzione degli essere umani (in primo luogo, il lavoro) da parte non solo di macchine (come nelle vecchie tecnologie) ma di macchine che espropriano e incorporano le funzioni umane stesse per i fini (la controllabilità del lavoro) e nelle forme (meccanizzate) dettate dal capitale. Allo stesso tempo, gli esseri umani diventano sempre più estensioni di quelle macchine non solo quando fanno un lavoro oggettivo ma anche quando fanno un lavoro mentale.
Farò solo tre esempi tra i molti. Nel dicembre del 2009, Invetech, una azienda di ingegneria australiana, annuncia che ha prodotto la prima bio stampante tridimensionale. (Ludovica Amoroso, copia di tessuti vascolari con le bio stampanti in 3D, La Repubblica, 31 Marzo 2010. Si veda anche http://nextbigfuture.com/2009/12/3d-bioprinters.html). La bio stampante si basa sul fatto che un insieme di cellule umane si comporta come un liquido. Se piazzati l’uno accanto all’altro, gli insieme fluiscono assieme e si fondono, formando degli strati. La bio stampante crea una un foglio di bio carta idoneo alle cellule. Dopodiché stampa l’insieme di cellule sulla carta goccia dopo goccia. Gli insieme si fondono formando tessuti più complessi. Quando uno strato è completato, un altro è aggiunto ad esso. In questo modo si creano strutture di tessuti tre dimensionali. La creazione di organi umani cellula dopo cellula è ora nell’ambito delle reali possibilità.
Secondo esempio. Il 21 maggio 2010, si annuncia che Craig Venter e Hamilton Smith, due biologi americani, hanno creato un batterio artificiale che possiede un genoma artificiale che si auto-replica. In pratica si tratta di una vita artificiale che non somiglia a nessuna forma di vita esistente in natura e interamente costruita in laboratorio e programmata per specifiche funzioni. Ciò inaugura l’era della biologia sintetica che rende possibile concepire nuovi batteri e quindi – anche se ci vorrà molto tempo nuovi animali e piante realizzati con computer e fatti crescere in successione. Ciò ridefinisce i confini tra il biologico e l’artificiale. (Mario Pappagallo, Passo verso la Vita artificiale, il DNA costruito al computer, Corriere della Sera, Milano, 21 Maggio, 2010).
Infine, recentemente, Intel ha sviluppato un software che è un primo passo verso la lettura del pensiero. Il software scannerizza la persona che si sottopone al test mentre essa pensa ad una serie di oggetti. Se susseguentemente la stessa persona pensa ad uno di quegli oggetti, il software individua a quale oggetto quella persona sta pensando. Il software è accurato al 90%. È dubbio se un software sarà mai in grado di leggere pensieri complessi. Ma questo non è il punto. Il punto è che le possibili applicazioni di questo tipo di tecniche al processo lavorativo non solo facilitano la semplificazione e la standardizzazione di pensieri complessi e quindi l’impoverimento delle forze mentali ma sono anche un inizio della espropriazione delle capacità mentali e la loro incorporazione nelle macchine.
Marx ha dimostrato come il capitalismo generi spontaneamente disoccupazione, povertà, sfruttamento e molti altri mali per la stragrande maggioranza dei lavoratori e della popolazione mondiale. Ciò non cambierà. Quello che cambierà sarà la forma di questi mali. Se le nuove tecnologie avranno penetrato la società, quest’ultima sarà cambiata radicalmente. Indubbiamente, questi sviluppi avranno anche aspetti positivi per il lavoro e per le popolazioni in genere, anche se questi vantaggi saranno distribuiti in maniera molto diseguale, e comunque entro i confini posti dal capitale. Ma è importante sapere che le nuove tecnologie rappresenteranno nuove forme di sfruttamento e di possibile resistenza contro tale sfruttamento. Un piano politico realmente antagonista deve guardare oltre il presente, deve guardare al dopo la risoluzione della crisi e quindi anche al carattere di classe delle nuove tecnologie e a nuove forme di lotta di classe.
Se il lavoro sarà in grado di usare le nuove tecnologie non solo per difendersi contro il capitale ma anche e soprattutto come base per lo sviluppo di strutture tecnologiche e sociali alternative che incorporino solo la razionalità del lavoro, una razionalità che deve essere basata su una universale cooperazione, solidarietà e uguaglianza, allora nella nuova fase della lotta di classe che si aprirà dopo la crisi, un passo fondamentale sarà fatto nella direzione del socialismo. Se il lavoro non sarà in grado di fare tale passo, allora tutto sarà cambiato e tuttavia nulla sarà cambiato.
CREDITS
Immagine in evidenza: Noi la crisi non la paghiamo
Autore: Rete degli Studenti Medi Massa; 17 novembre 2008
Licenza: Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata