Vladimiro Giacché in Ballando sul Titanic. Atti del convegno
Sintesi
Gli anni dal 1980 al 2007 sono stati caratterizzati da un’espansione senza precedenti delle attività finanziarie. Questa espansione ha improntato di sé il trentennio liberista a livello mondiale. In almeno quattro direzioni:
- Consentendo di forzare gli argini frapposti dai confini degli Stati-Nazione all’espansione del capitale,
- mantenendo alti i consumi del mondo occidentale a dispetto di un costante calo dei redditi da lavoro,
- permettendo a interi settori in situazione di cronica sovrapproduzione di restare in vita,
- e infine fornendo, con la speculazione, una comoda e redditizia valvola di sfogo a capitali che stentavano a trovare adeguata valorizzazione nel settore industriale.
È verosimile che con il 2007 tutto questo sia finito: che sia, cioè, finita la fase in cui il capitale produttivo d’interesse rappresentava la più rilevante controtendenza alla caduta del saggio di profitto nell’intero occidente industrializzato.
La fase che si apre è piena di incognite. È già chiaro il tentativo, dopo la gigantesca socializzazione delle perdite avvenuta nel 2008 e 2009, di scaricare il peso della crisi sugli Stati (sul debito pubblico) e di qui sui lavoratori. Si tratta di un tentativo, che – anche qualora avesse successo – non basterebbe a ridare slancio a un capitalismo sempre più in difficoltà e sempre meno dal volto umano. Anzi: la deflazione salariale che così si produrrebbe potrebbe, anche a breve termine, tornare a spingere il mondo verso il collasso finanziario che soltanto l’intervento coordinato degli Stati è riuscito ad impedire nel 2008/2009. I prossimi anni saranno comunque caratterizzati da estrema instabilità finanziaria in tutti i principali mercati (titoli azionari, obbligazioni, valute, materie prime). Ma anche da rigurgiti protezionistici e dal tentativo di deviare la bomba a orologeria della crisi nel giardino del vicino (ad es. con svalutazioni competitive, ma anche scatenando la speculazione). Da questo punto di vista la crisi che ha investito l’area dell’euro è l’inizio (ma, appunto, soltanto l’inizio) di una nuova fase. Che presenta tratti simili, e in misura inquietante, agli anni Trenta del secolo scorso.
Premessa
Poche parole per presentare il tema di questa relazione. Tratterò del rapporto tra finanza e crisi, ampliando però il significato dei due concetti rispetto a quello più comune (che però è anche il meno appropriato). Non intendo finanza come sinonimo di speculazione finanziaria, ma come sinonimo di quello che Marx definiva il “capitale produttivo d’interesse” (Marx 1864-5: 137): quindi non soltanto finanza e “speculazione” in senso stretto, ma più in generale l’insieme dell’attività creditizia e finanziaria. Allo stesso modo intendo la crisi non limitando il significato di questo termine alle manifestazioni conclamate di crisi che si possono osservare nelle recessioni, ma, più in generale, come crisi di profittabilità e tendenza a un declino del saggio di profitto. In base a questa più comprensiva accezione dei due termini, lo sviluppo dell’attività creditizia e finanziaria accompagna un lungo processo storico, iniziato poco meno di quaranta anni fa.
1. Dalla crisi del capitalismo al collasso del socialismo sovietico: 1971-1989
In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: “nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al PIL, era del 356%” (Farrell 2008). Se si considerano i soli Stati Uniti, la percentuale a fine 2007 è ancora superiore: 373% (Bellamy Foster, Magdoff 2008). Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l’idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza.
Si è parlato della “finanziarizzazione” del capitale come della “caratteristica assolutamente predominante” del capitalismo in crisi dagli anni Ottanta (Arrighi 1994: 9). All’origine del processo c’è verosimilmente una “sovraccumulazione di capitale rispetto alla domanda inelastica sia di manodopera che di materie prime” (Itoh 1990: 116, cit. in Arrighi 1994: 398) Si tratta di un processo che ha radici lontane, che affondano nella fine degli anni Sessanta, quando cessa il grande periodo di crescita economica postbellica. Già in un testo del 1977 Harry Magdoff e Paul Sweezy scrivevano che con la fine di quel periodo di prosperità “l’economia degli Stati Uniti si è sempre più andata abituando ad un uso continuato del debito. I cicli caratteristici del credito continuano ad alternarsi, ma con una differenza significativa: i livelli del ricorso al credito continuano a crescere da una recessione all’altra e da un massimo di ciclo economico all’altro. In misura sempre maggiore il livello generale di attività economica… viene sostenuto da sempre maggiori iniezioni di credito da parte del governo e da parte di enti privati” (Magdoff, Sweezy 1977: 190).
In parallelo al rallentamento della crescita e all’aumento della leva creditizia, cresce l’instabilità finanziaria. Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1968 gli Stati Uniti non avevano conosciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel periodo 1945-1971 nel mondo non vi erano state crisi bancarie (Minsky 1993: 6). Da allora le crisi finanziarie, negli Stati Uniti e nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il 1975 e il 1997 il Fondo Monetario ne conterà più di 200 (Burgio 2009: 150).
Il 1971 è una data cruciale proprio perché quell’anno gli Stati Uniti decretano la fine del gold-exchange standard. Però non nella direzione che all’epoca auspicava il presidente francese De Gaulle, quella di un ritorno al gold standard, cioè un sistema monetario internazionale ancorato direttamente all’oro.
Si imbocca la strada opposta, quella del pure dollar standard: facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente fiduciaria. Il dollaro diviene una fiat money, ossia una valuta il cui valore è ormai esplicitamente privato di ogni riferimento alle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve, ma che resta, ciò nondimeno, il perno del sistema monetario internazionale. Il mondo comincia ad essere inondato di dollari: erano 30 miliardi nel 1958, supereranno gli 11.000 miliardi nel 2004 (Goldner 2004).
Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera del 1973, in quanto il petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambiato in dollari. Da questo momento il dollaro diventa “moneta mondiale” – il ruolo che Marx attribuiva all’oro – e quindi assume anche il ruolo di moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie che periodicamente scuotono altri paesi, ed in particolare i paesi del Terzo Mondo.
Nel 1973-1978 è stampata una grande quantità di dollari. Del resto, come osservò Parboni, per gli Stati Uniti – e solo per loro – “la possibilità di attingere alle risorse del resto del mondo mediante l’emissione della propria moneta è pressoché illimitata” (Parboni 1985: 22). Gli Stati Uniti attuano una politica monetaria espansiva e spingono sul prestito estero.
Si cominciano a liberalizzare i movimenti internazionali di capitale, che iniziano a rompere gli argini posti dagli Stati-Nazione. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti si comincia a smantellare il sistema normativo che era stato costruito dopo la crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novanta). Ad esempio, viene ampliato il tipo di prodotti finanziari che possono essere acquisiti dalle casse di risparmio americane (le saving & loans associations): il risultato, alla fine di quello stesso decennio, è il fallimento di 745 casse di risparmio. Soltanto massicci salvataggi pubblici (per una spesa di 125 miliardi di dollari a carico dello Stato) riescono ad impedire che la crisi divenga sistemica (Minsky 1993: 17). In compenso esplode il debito pubblico (che diventerà stellare per finanziare il riarmo voluto da Reagan).
Gli anni Ottanta vedono il brusco passaggio dalle politiche monetarie estremamente espansive del decennio precedente a politiche fortemente restrittive. Sono gli anni del governatore della Fed Paul Volcker, che attua una restrizione monetaria portando alle stelle – e tenendo molto al di sopra del tasso di inflazione – i tassi di interesse Usa (Arrighi 1994: 412-3, 421). I Paesi emergenti sono costretti, per competere con efficacia con gli Usa nei mercati dei capitali, a rendere stellari i propri tassi d’interesse, il che a sua volta rende onerorissimo il servizio del debito ed estremamente doloroso anche il ripagamento dei prestiti contratti in precedenza. Esplode la crisi del debito dei paesi del Terzo Mondo, peggiorata dal crollo del prezzo delle materie prime. Anche i Paesi socialisti dell’Est europeo sono presi in contropiede dalla mutata situazione dei mercati monetari. I Paesi più nei guai sono quelli che negli anni precedenti si erano fortemente indebitati. Non pochi sono colpiti – oltrechè dall’impennata del servizio del debito – dall’instabilità dei cambi, soprattutto quando il loro export viene pagato in dollari e le loro importazioni sono pagate in altre valute. Tra il 1980 e il 1988 i prezzi reali delle esportazioni di merci prodotte nel Sud del mondo segnano un – 40%, e i prezzi del petrolio addirittura un – 50%. In diversi paesi del terzo mondo scoppiano crisi del debito.
A seguito di ciascuna di queste crisi gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono rafforzato il ruolo di Wall Street come centro finanziario mondiale.
Si ha di fatto una ricentralizzazione del capitale all’interno dei paesi ad alto reddito, mentre negli anni Settanta si era avuto un processo contrario. La mobilità geografica del capitale è in progressivo aumento (Arrighi 1994: 18). Torna ad aumentare divario di reddito tra Paesi occidentali e resto del mondo.
L’impennata dei tassi d’interesse, unitamente al crollo del prezzo delle materie prime energetiche a metà degli anni Ottanta, contribuisce in misura non piccola al crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti dell’est europeo. Il primo fattore infatti peggiora la situazione debitoria dei Paesi indebitati (e i paesi socialisti avevano ricevuto cospicui finanziamenti), a fronte di minori introiti derivanti dal secondo fattore. A questo va aggiunta l’elevata percentuale del prodotto interno lordo di questi Paesi destinata alla corsa al riarmo che con Reagan era massicciamente ripartita.
Dietro alla caduta del muro di Berlino prima, e alla fine dell’Urss poi, c’è anche questo.
2. Danzando sul Titanic: 1989-2007
La fine dell’Urss marca uno spartiacque nella storia del XX secolo, e conferisce al capitalismo contemporaneo l’aura, più ancora che della superiorità, della definitività: “Non esiste altra società all’infuori di me”, grida ogni giorno da ogni mezzo di informazione il capitalismo contemporaneo. Bisogna però distinguere tra ideologia e concreto processo storico, in particolare dal punto di vista economico. A quest’ultimo riguardo, infatti, l’esultanza per la fine dell’Urss lasciò presto il campo a nuove preoccupazioni. E il venir meno del “Nemico” esterno accentuò i conflitti intercapitalistici. Un esempio per tutti: il varo, nel 1992, del progetto dell’Euro, ad oggi la maggiore sfida lanciata all’egemonia valutaria statunitense su scala mondiale.
Né si può dire che in questo periodo manchino le crisi finanziarie. All’inizio degli anni Novanta era scoppiata la bolla finanziaria del Giappone, entrato in una stagnazione destinata a durare oltre un decennio. Nel 1997 vanno in crisi anche i Paesi del sud-est asiatico; nel 1998 ad essere colpita è la Russia.
In tutti questi casi, enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la bolla speculativa della new economy (1999-2000). Già in questi anni alcuni analisti finanziari lanciano segnali d’allarme riguardo ad “un ciclo mondiale del credito le cui origini possono essere rintracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai prossimo alla maturità” (ossia all’esplosione); si menzionano esplicitamente la “eccessiva creazione di credito” a cui fanno riscontro “decisioni di investimento sbagliate”; si sostiene, in particolare, che “la spiegazione principale della rapida crescita del Pil e della produttività negli anni recenti, in particolare negli Stati Uniti, consiste nel parossistico ciclo del credito” (Warburton 2000).
Ma non avviene alcuna inversione di tendenza. Anche l’esplosione della bolla della new economy viene riassorbita in modo relativamente rapido, e la stessa recessione americana iniziata nel marzo del 2001 risulta di breve durata, soprattutto grazie alle enormi iniezioni di liquidità effettuate nel sistema dopo l’11 settembre e al ribasso dei tassi di interesse, portati ai minimi da 40 anni (di fatto negativi, cioè inferiori al tasso d’inflazione).
Questa politica è resa possibile da due presupposti: in primo luogo da bassi livelli di inflazione, dovuti sia al contenimento dei prezzi delle merci importate dai Paesi emergenti, sia (soprattutto) alla compressione dei salari; in secondo luogo dallo status di valuta internazionale di riserva del dollaro, dal suo continuare ad essere “moneta mondiale” a dispetto di una bilancia commerciale in passivo dal 1976. Qualsiasi altro Paese che avesse così a lungo consumato più di quanto produceva (è questo in definitiva il significato del passivo della bilancia commerciale), avrebbe pagato una politica monetaria così espansiva con una crisi del debito simile a quelle patite negli anni da molti Paesi emergenti.
I bassi tassi di interesse alimentano il credito e più in particolare la bolla del mercato immobiliare: sia i prezzi delle case che l’ammontare dei mutui contratti dalle famiglie americane raddoppiano dal 2000 al 2005 (Kliman 2009: 6). Nel 2006 i prezzi delle case cominciano a scendere. Si manifesta un evidente eccesso di offerta, cioè una crisi da sovrapproduzione, nel settore delle costruzioni. Cominciano le insolvenze di chi aveva contratto mutui. Ma il problema è molto più vasto, come la crisi iniziata nel 2007 – e non ancora finita – costringerà a capire.
3. La Grande Crisi: 2007-?
Dalla prima metà del 2007 i titoli obbligazionari legati ai mutui subprime statunitensi (mutui ad alto rischio) cominciano ad essere colpiti dalle vendite.
Alcuni grandi fondi di investimento devono chiudere. La crisi si comunica ad altri comparti e a poco a poco si generalizza.
I più assumono dapprima un atteggiamento minimizzante, poi si perdono nella ricerca delle “cause” della crisi, adducendo le più svariate. Quasi tutti sono colti di sorpresa dall’imponenza della crisi. Poi, quando la gravità della situazione non si può più negare, si escogita la spiegazione (la metafora) della “crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale”.
La verità è un’altra, anzi sono due. La prima: i mutui subprime sono soltanto un tassello nel più generale eccesso di credito e di finanza che ha caratterizzato gli ultimi decenni. La seconda: questo eccesso di credito e di finanza, quest’onda il cui improvviso ritrarsi non ha soltanto prosciugato molti portafogli, ma ha paralizzato per qualche tempo la circolazione del capitale a livello mondiale, non era né una viziosa deviazione dal corso sano e ordinato dell’economia, né una malattia. Semmai era il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla – e che quindi l’ha cronicizzata. La malattia era un’altra: la stentata valorizzazione del capitale, in altri termini una sovrapproduzione di capitali e di merci ormai endemica da molti anni, soprattutto nei Paesi dell’Occidente industrializzato (i dati in Giacché 2009: 25-6). Un ruolo centrale, per contrastare e gestire questa caduta di lungo periodo del saggio di profitto, è stato giocato dal “capitale produttivo d’interesse”. Infatti, a partire dagli anni Settanta la finanza ed il credito hanno contrastato i problemi di valorizzazione del capitale, svolgendo una triplice funzione:
- mitigare, con il credito al consumo e l’effetto ricchezza indotto dalle bolle finanziarie, le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori sui consumi. Con la conseguenza che, in particolare nei Paesi anglosassoni, il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro.
- Allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria, anche fornendo credito a basso costo ad imprese in difficoltà, grazie a tassi d’interesse artificialmente bassi.
- Fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d’investimento ad elevata redditività. Negli ultimi anni gran parte delle stesse aziende manifatturiere ha fatto i propri profitti tramite operazioni finanziarie (vedi Giacché 2009: 36 sgg.).
Non è la prima volta, nella storia del capitalismo, che questo succede. Già il Marx del secondo libro del Capitale osservava che “tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione”. Più di recente Giovanni Arrighi ha spiegato così questo fenomeno: “quando i rendimenti del capitale investito nello scambio di merci, per quanto ancora positivi, cadono al di sotto di un certo tasso critico, che rappresenta ciò che il capitale può fruttare se investito in transazioni monetarie, un numero crescente di organizzazioni capitalistiche si asterrà dal reinvestire i profitti nell’ulteriore espansione dello scambio di merci. Le loro eccedenze monetarie saranno dirottate dalle transazioni in merci a quelle monetarie”. Ma appunto perché la preferenza dei capitalisti per la liquidità e l’investimento finanziario nasce da un’insufficiente valorizzazione del capitale investito nella produzione di merci, le espansioni finanziarie (e la specializzazione di determinati sistemi nella finanza) rappresentano altrettante “crisi-spia” della crisi del regime di accumulazione dominante. Quando poi questa crisi giunge al suo esito, si usa incolparne la finanza e i suoi eccessi. La verità però è diversa: “gli agenti dominanti delle espansioni finanziarie non furono mai la causa principale del crollo definitivo del sistema che essi regolavano e sfruttavano. L’instabilità era strutturale” (Arrighi 1994: 302, 283, 309).
Altri autori hanno osservato che “l’eccessiva attenzione verso la finanza e la tolleranza nei confronti del debito sono tipiche delle grandi potenze economiche nel corso delle ultime fasi del loro dominio. Esse ne preannunciano il declino economico” (Phillips 1993: 194).
Sono parole che parlano direttamente del nostro presente. Nella crisi attuale confluiscono infatti due diversi processi: la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi a capitalismo maturo, e la più specifica crisi del regime di accumulazione statunitense, che ha dominato il secolo passato ma non dominerà il nostro. Per questo non ci si può stupire del fatto che la crisi iniziata nel 2007 abbia assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una vera e propria crisi generale, dando luogo ad una gigantesca distruzione di capitale su scala mondiale. Essa si è manifestata nel 2009 in un calo del Pil a livello mondiale del 2,9% (il primo dalla fine della seconda guerra mondiale), in un crollo del commercio internazionale del 12%, in un tasso di utilizzo degli impianti inferiore al 70% in molti paesi, in un’enorme crescita delle bancarotte (+35% su scala mondiale) e in una crescita della disoccupazione nel mondo di 60 milioni di unità. Siamo giunti soltanto alla metà del 2010, e già si parla di ulteriori 30 milioni di posti di lavoro a rischio.
4. Fine della bubble èpoque.
E adesso? La domanda cruciale a questo punto è: la distruzione di capitale sin qui avvenuta sarà sufficiente a ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione del capitale? Nessuno oggi è in grado di rispondere con certezza a questa domanda. È però possibile fissare qualche punto fermo.
In primo luogo, è ragionevole pensare che con il 2007 si sia consumato un passaggio d’epoca: che si sia chiusa la bubble èpoque, l’èra in cui debito e finanza riuscivano a nascondere e tamponare una crescita asfittica e un’insufficiente valorizzazione del capitale.
Se questo è vero, le tre funzioni della finanza viste sopra non torneranno a funzionare come prima. Le implicazioni saranno molto importanti: il peso del calo dei redditi da lavoro sulla domanda interna si farà sentire a lungo, ristrutturazioni violente colpiranno i settori con eccesso di capacità produttiva, ed il profilo rischio/rendimento delle attività speculative peggiorerà. Attenzione a quest’ultimo aspetto: se confermato, esso per un verso impedirà ai capitalisti industriali facili vie di fuga nella speculazione finanziaria, ma per altri versi creerà rilevanti problemi sul piano delle prestazioni sociali, in particolare nei paesi in cui la componente privata della previdenza (leggi fondi pensione) è molto rilevante.
Nel medio periodo è lecito attendersi valutazioni più ragionevoli (ossia più modeste) delle imprese quotate, un sostanziale ridimensionamento dei mercati borsistici in Occidente, e per contro un ulteriore spostamento degli investimenti mondiali verso le aree a maggior crescita del mondo (in particolare l’Asia). Nel breve periodo, invece, non si possono escludere ulteriori convulsioni, e neppure che la crisi si riaccenda con la virulenza che abbiamo conosciuto nell’autunno 2008.
È verosimile che l’innesco questa volta sia rappresentato dal debito pubblico. In effetti, c’è una singolare contraddizione tra ciò che si è detto sull’origine della crisi e quello che si è fatto per superarla. Si è detto che in giro c’era troppo debito, ma non vi è stata alcuna riduzione del debito, bensì un suo spostamento dall’attore privato a quello pubblico: di fatto, gli Stati si sono caricati il debito che avevano molte imprese, soprattutto finanziarie. Gli ultimi dati li ha diffusi il centro studi di Mediobanca: gli Stati Uniti, da soli, hanno speso più di 2.500 miliardi di dollari per salvare i loro istituti finanziari (riacquistando obbligazioni, fornendo garanzie e entrando nel capitale di banche e assicurazioni semifallite), la Gran Bretagna poco meno di 700 miliardi di sterline, e così via (Mediobanca 2010). Cifre enormi, a cui va aggiunto il prezzo di una politica monetaria ultraespansiva. Oggi la base monetaria mondiale è pari a 18 volte il prodotto interno lordo del mondo: nel 2007 era appena (si fa per dire) 13 volte il Pil.
È evidente che in questo modo il problema non è stato risolto, ma soltanto spostato su un altro piano: quello del debito sovrano, ossia degli Stati. Il problema non è soltanto il rischio di insolvenza di uno o più Paesi, ma il fatto che, comunque vadano le cose, a causa degli interventi già effettuati, gli Stati hanno ora un margine di manovra molto inferiore: se oggi scoppiasse un’altra emergenza come quella che si è prodotta dopo il fallimento di Lehman, avrebbero serissimi problemi a fronteggiarla.
Quanto alla montagna del debito, essa è ancora tutta lì, e in qualche caso è addirittura cresciuta. Lo dimostra un recente studio della McKinsey: il debito totale (pubblico e privato) del Regno Unito è pari al 469% del prodotto interno lordo, in Giappone è intorno al 459% del Pil, in Spagna al 342%, in Francia e Italia rispettivamente al 308% e al 298%, in Germania al 274% (McKinsey 2010: passim); senza dimenticare il tondo 360% degli Stati Uniti (di gran lunga il maggiore di tutti in cifre assolute). Non sorprende, quindi, che buona parte di questi Paesi si trovino sulla lista degli Stati del mondo più a rischio di fallire stilata dal Credit Suisse. E come dimostrano le vicende greche e l’attacco all’euro iniziato nei primi mesi del 2010, il gioco del cerino è già iniziato: in effetti, non pochi osservatori hanno evidenziato come le turbolenze nell’Eurozona ridessero fiato a Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone, che pure – come ci dicono le cifre appena citate – non hanno affatto una situazione debitoria meno pericolosa di quella dei Paesi dell’euro.
L’unica soluzione a lungo termine del problema è rappresentata dalla diminuzione del debito. In termini storici, però, le riduzioni del debito sono in genere durate dai 6 ai 7 anni e hanno visto una contrazione molto significativa del prodotto interno lordo dei Paesi interessati. Per quanto riguarda in particolare il debito pubblico, le terapie proposte da BCE e FMI sono quelle classiche: stretta sulle spese, ossia recuperi di efficienza della spesa pubblica e riduzione delle prestazioni sociali, oltreché cautela nella riduzione delle tasse.
Quando si parla del debito pubblico bisogna infine fare un’ultima considerazione. La mappa mondiale del debito è cambiata in modo considerevole rispetto a pochi anni fa. Basti pensare che a metà febbraio 2010 la Sace (la società pubblica italiana che si occupa di assicurazioni all’export) ha declassato il rating di Grecia, Irlanda e Islanda, e messo sotto osservazione Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Stati Uniti; migliorando al contempo il merito di credito di molti paesi emergenti sino a non molto tempo fa considerati “a rischio”.
In effetti, sia dal punto di vista del deficit corrente che dello stock di debito, i Paesi dell’Asia e dell’America Latina evidenziano una situazione molto più sana dei Paesi industrialmente avanzati: la media del rapporto tra deficit e prodotto interno lordo previsto per il 2010 è del 2,8%, contro Stati Uniti al 9,5%, la Spagna all’11,4% e la Grecia al 12.7%. Quanto al debito pubblico, è relativamente elevato soltanto in India (85% del pil); gli altri Paesi asiatici, inclusi quelli travolti dalla crisi del 1997/8, nella peggiore delle ipotesi si situano intorno al 50% (Filippine), in tutti gli altri casi stanno molto al di sotto di questa soglia; il record spetta alla Cina, con un debito pubblico che è appena il 20% del pil.
L’asimmetria negli andamenti del debito pubblico ci racconta un altro pezzo della storia di questa crisi. Il fatto che essa ha colpito più severamente le economie della triade Europa-Stati Uniti-Giappone, che già avevano conosciuto un rallentamento di lungo periodo della crescita. Anche molti paesi esportatori dell’Asia hanno accusato i colpi della crisi, soprattutto tra l’ultimo trimestre del 2008 e il primo del 2009, ma hanno manifestato una capacità di reazione molto migliore. In questo modo, dalla crisi emerge l’accelerazione di tendenze già in atto da tempo: tassi di sviluppo accelerati in Asia (escluso il Giappone), recessione o stagnazione altrove. Tutto questo non potrà non riflettersi, prima o poi, sul piano valutario. A rischio è in primo luogo il dominio del dollaro e il suo status di valuta internazionale di riserva, anche per la crescente difficoltà a finanziare i titoli di Stato americani. Però, se Sparta piange, Atene non ride: il problema del crescente debito pubblico accomuna Unione Europea e Stati Uniti.
Per questo la crisi non ha affatto portato ad un rafforzamento del bipolarismo euro/dollaro, come era parso in una prima fase. I segnali al riguardo sono molti. Si pensi alle valute che sono cresciute rispetto al dollaro e all’euro, come il franco svizzero. Ma anche al revival dell’oro, che negli ultimi mesi è apparso più correlato alla crescita del debito pubblico in Europa e Usa che alla debolezza del dollaro. La verità è che va incrinandosi quel bipolarismo valutario che sino a pochi anni fa sembrava il futuro prossimo del sistema monetario internazionale.
È in questo contesto che va inserita la proposta, avanzata il 23 marzo 2009 dal governatore della Banca del Popolo cinese, di una “riforma creativa” del sistema monetario internazionale in direzione di “una valuta internazionale di riserva con un valore stabile, che sia emessa in base a regole precise e la cui offerta sia gestibile”, con l’obiettivo di “salvaguardare la stabilità economica e finanziaria a livello mondiale”. Le tre caratteristiche ideali indicate sono precisamente il contrario di quello che rappresenta oggi la valuta americana: una valuta estremamente instabile, emessa su basi discrezionali e offerta in quantità eccessiva e destabilizzante. Il messaggio lanciato agli Usa e al mondo è chiaro: l’era del dollaro è finita. Ma la proposta di riforma del sistema monetario internazionale non è l’unica misura assunta dalla Cina. Da un anno in qua si sono susseguiti accordi con altri Paesi (Argentina, Corea del Sud, Malesia, Indonesia, Hong Kong, Bielorussia…) per regolare in yuan le transazioni commerciali bilaterali. L’obiettivo è chiaro: porre le basi per una valuta asiatica imperniata sullo yuan e in grado di competere con dollaro ed euro. Del resto, già da tempo si parla – e con sempre maggiore insistenza – di una Asian Currency Unit, analoga all’Ecu (il progenitore diretto dell’euro).
In definitiva, è probabile che la crisi attuale avrà tra i suoi effetti quello di sconvolgere le gerarchie attuali tra le valute. A scapito non soltanto del dollaro, ma anche dell’euro. Non è questo però, oggi, il rischio peggiore, né il più ravvicinato.
Siamo entrati nella seconda fase della crisi, che investe il debito pubblico.
E siccome nell’occhio del ciclone c’è l’Eurozona (anche se le potenzialità di contagio vanno ben oltre i suoi confini), finalmente i paesi europei si trovano d’accordo su qualcosa: bisogna abbattere il debito pubblico. Come? Essenzialmente tagliando le spese, riducendo le prestazioni sociali (assistenziali e pensionistiche) e gli stipendi del settore pubblico.
È opinione diffusa che si tratti di qualcosa di necessario e inevitabile. Financial Times del 10 maggio 2010: “gran parte dell’Unione Europea vive al di sopra dei suoi mezzi”, e “se gli Europei non accettano misure di austerità adesso, probabilmente dovranno affrontare qualcosa di più scioccante: default del debito sovrano e collassi bancari”. Washington Post dello stesso giorno: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state. … Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Il Sole 24 Ore del 15 maggio (articolo di Alberto Orioli): “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. Va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello economico continentale.
Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso tra stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano [?] di fronte ai colpi della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di nazioni”. Insomma, il revival dello Stato a cui abbiamo assistito nell’autunno del 2008 e nei mesi successivi, quando si trattava di socializzare le perdite di banche e assicurazioni, è già finito: e oggi al centro del dibattito politico sono tornati gli “sprechi” dello Stato, e più precisamente la presunta “eccessiva generosità” delle prestazioni sociali.
Le stesse opinioni pubbliche, dando prova di una pazienza francamente eccessiva, sembrano pronte a inghiottire questi “sacrifici necessari” senza neppure chiedersi come mai due anni fa, quando gli stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie, nessun Panebianco levasse il suo indice accusatore contro il “socialismo della spesa”.
Dalla teoria alla prassi. Dopo le misure draconiane adottate in Grecia (taglio del 16% dei salari del settore pubblico), tagli della spesa sociale e degli stipendi pubblici vengono proposti ovunque: dalla Francia (congelamento per 3 anni) alla Germania (piano di austerity per 10 miliardi), dall’Irlanda al Portogallo, passando per Spagna (taglio degli stipendi del 7%) e Italia (manovra da 25 miliardi). Senza dimenticare la Romania, che nell’euro deve ancora entrare ma è già la prima della classe, con un taglio dei salari pubblici del 25% (e di un 15% sulle pensioni). L’entità complessiva delle manovre di aggiustamento dei bilanci in Europa assomma a qualcosa come 300 miliardi di euro.
Il fatto stesso che queste misure siano adottate da molti Stati assieme dà ad esse una parvenza di inevitabilità e legittimità. Invece questo genere di misure, per dirla con Talleyrand, “è peggio di un delitto: è un errore”. Un errore che potrebbe costare davvero caro. Perché la sola vera arma letale in grado di abbattere il debito pubblico di un Paese è la crescita economica: che comporta aumento delle entrate fiscali e minori spese per misure di assistenza (alle imprese e alle famiglie). Se non c’è crescita, se il prodotto interno lordo anziché crescere diminuisce, è inevitabile che cresca il rapporto tra deficit e pil (perché si tratta, appunto, di un rapporto) – e quindi anche lo stock del debito. E se si adottano misure di restrizione della finanza pubblica per abbattere il deficit in una situazione in cui la crescita già non c’è, il risultato inevitabile sarà una recessione. Perché, in una situazione di disoccupazione già elevata per i licenziamenti nel settore privato, e quindi di minori consumi, si avrà una deflazione salariale anche sul lato del pubblico impiego. Immaginiamo ora che queste misure vengano adottate contemporaneamente da tutti i Paesi di una regione del mondo. In tal caso lo scenario sarà probabilmente depressivo: per il semplice motivo che il calo della domanda interna in ciascun Paese si tradurrà anche in un calo delle esportazioni reciproche tra questi Paesi.
In concreto: tagli contemporanei alla spesa pubblica come quelli ipotizzati, sono tali da infliggere un colpo formidabile ad una domanda interna europea che è già boccheggiante. E quindi da stroncare i pochi sintomi di ripresa economica che qua e là cominciano ad avvertirsi. In questo senso, oggi stringere la cinghia significa anche stringere un cappio al collo della ripresa.
Non si tratta di una possibilità, ma di una certezza. Si può affermarlo, perché questo in Europa è già avvenuto: negli anni Trenta del secolo scorso. Anche allora la crisi allora conobbe due fasi. La prima iniziò con il crollo della borsa di Wall Street dell’ottobre del 1929, cui seguì una ripresa che condusse nel 1930 i mercati azionari a recuperare il 60% delle perdite. Poi fu la volta dell’Europa: dove l’avvitarsi delle economie nella spirale delle difficoltà economiche, con fallimenti bancari a catena (a partire da quello dell’austriaco Credit Anstalt) e politiche deflazionistiche controproducenti, diede inizio alla seconda e più drammatica gamba della crisi, innescando una depressione mondiale destinata a risolversi soltanto con la seconda guerra mondiale.
Ecco cosa dicono di quel momento cruciale alcuni storici: “Tenendo a mente il fresco ricordo dell’inflazione e la dimostrazione più recente di speculazioni irresponsabili negli Stati Uniti, i politici cercarono di evitare qualsiasi cosa che minacciasse la stabilità della moneta o dei bilanci in pareggio. L’appello all’incremento dei lavori pubblici finanziati col disavanzo incontrò resistenze perché sentito come una minaccia radicale alla sicurezza finanziaria e alla fiducia nell’impresa, per essere raccolto solo alla fine del periodo recessivo quando tutti gli altri espedienti avevano fallito. La gran parte dei governi seguì i manuali, con tagli alle spese pubbliche e all’occupazione.
In Francia lo stato perseguì una rigida politica monetaristica sino al 1936, riducendo gli stipendi dei funzionari pubblici e dei dipendenti dello stato, e tagliando le spese per la difesa e l’assistenza sociale. Nella Germania del 1932 si ebbe una serie di tagli forzosi sui salari pubblici, sulle rendite e sulle pensioni” (Overy 2007: 95).
“Per tutta la seconda metà del 1930 e del 1931 la situazione economica si deteriorò costantemente ovunque. Con la caduta dei redditi il bilancio statale e i conti con l’estero divennero squilibrati e la prima reazione dei governi fu quella di varare provvedimenti deflazionistici, che non fecero che peggiorare le cose” (Aldcroft 1993: 107).
Ed ecco un grafico che raffigura con grande chiarezza come andarono le cose:
Alla luce di questi inquietanti precedenti storici sarebbe facile etichettare le misure che si stanno ponendo in essere oggi in Europa come folli. E, ovviamente, non si avrebbe neppure torto. Ma si tratta di una lucida follia, legata ad una ben chiara priorità economica: cercare di far riprendere i profitti comprimendo il salario indiretto e differito, quello in qualche modo storicamente garantito dal welfare state (oltreché abbassando quello diretto con il ricatto della disoccupazione).
È bene capire non soltanto che è questo il ragionamento che si trova dietro le ricette deflazionistiche proposte all’Europa, ma che si tratta di un ragionamento coerente con il progetto-Maastricht: che in fondo era basato anche sull’idea di poter vincere la competizione globale con gli Stati Uniti con successo grazie ai superiori margini di manovra forniti da un welfare ancora esistente in Europa (a differenza che negli Usa), e quindi comprimibile (Casadio, Petras, Vasapollo 2003: 127). D’altra parte, però, per una di quelle contraddizioni con le quali la storia costringe a fare i conti, proprio il fatto che l’Europa si sia sviluppata come un’Europa dei capitali – entro un esplicito progetto di dominio imperialistico fondato sull’egemonia valutaria (Carli 1993: 412-3, cit. in Burgio, Dinucci, Giacché 2005: 173; Giacché 2003: 177-8) – ha privato l’Unione Europea di una fiscalità comune, e quindi di una politica economica comune: ed è precisamente questa gamba mancante che oggi fa traballare e scricchiolare l’intero tavolo europeo. Questo oggi non soltanto si rivela un problema dal punto di vista del perseguimento dell’originario progetto imperialistico, ma anche sotto il profilo della stessa sopravvivenza dell’Unione Europea come l’abbiamo conosciuta – con il rischio di farla regredire a semplice area di libero scambio.
Gli scenari che a questo punto si aprono sono molto incerti. La deflazione è già una realtà in diversi Paesi europei (Grecia, Spagna, Irlanda). Le svalutazioni competitive anche: in fondo, l’attuale debolezza dell’euro si spiega anche con l’oggettiva collusione tra gli attacchi valutari anglo-americani e l’interesse tedesco al rilancio delle proprie esportazioni. Infine, i disordini valutari in atto sono un esempio di tentativi di risolvere i propri problemi con pratiche non cooperative e tendenti a “fregare il vicino” (l’atteggiamento noto nella letteratura economica come “beggar thy neighbour”). È evidente che di qui a pratiche esplicitamente e direttamente protezionistiche, come quelle praticate negli anni Trenta, il passo non è lungo.
Il contesto economico generale rende possibile questo e altro. In particolare, la situazione economica degli Usa, che, a dispetto dell’ottimismo profuso a piene mani quasi quotidianamente da giornalisti e commentatori, non sembra essere realmente migliorata nei primi mesi del 2010. In ogni caso, l’uscita dal tunnel della crisi non è davvero a portata di mano, su nessuna delle due sponde dell’Atlantico. Per quanto riguarda il movimento dei lavoratori, la priorità assoluta è rappresentata dal respingere le manovre “lacrime e sangue” che si vanno proponendo un po’ ovunque (con significativa sintonia, come del resto già accadde negli anni Trenta, tra partiti politici conservatori e socialdemocratici). Ma questa stessa priorità suggerisce ben altre necessità. Il fatto stesso che nella gran parte dei paesi europei la resistenza agli attacchi al welfare sia assai inferiore al dovuto nasce da due ordini di motivi, legati tra loro. In primo luogo, l’ideologia neoliberista è riuscita a uscire indenne (o quasi) da questi anni di crisi: e quindi le mistificazioni sullo Stato “sprecone” riescono a passare anche in una situazione che dovrebbe rendere di palmare evidenza che gli Stati negli ultimi anni hanno “sprecato” solo in quanto dovevano spendere per salvare le grandi banche private (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, ecc. ecc.) o per sostenere i consumi privati (Grecia) a beneficio dei capitali privati.
In secondo luogo, a ben vedere questa straordinaria resilienza ideologica non ha nulla di straordinario: essa infatti è radicata in un senso comune, costruito in decenni, una vera e propria “filosofia della storia” di massa, per cui l’attuale ordine sociale è l’unico possibile. Se le cose stanno in questi termini, soltanto un rilancio in grande stile del socialismo come alternativa di società potrà consentire anche di combattere al meglio le battaglie del presente.
L’iniziativa dei comunisti nei difficili anni a venire dovrà sapersi muovere su entrambi i piani.
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CREDITS
Immagine in evidenza: Wall Street
Autore: Karen; 21 dicembre 2011
Licenza: Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata