dal Documento politico per la 3ª Assemblea Nazionale della Rete dei Comunisti – Roma 2-3 aprile 2011
Le classi dominanti, sia nella loro versione liberista che in quella riformista, utilizzano come una clava la tesi strategica secondo cui il modello liberaldemocratico è l’unico che possa assumere in sè sia le aspirazioni alla libertà che quelle all’emancipazione sociale. La gran parte di quella che fino a oggi è la rappresentazione politica della sinistra italiana, si è sostanzialmente accomodata negli interstizi di questa conclusione, affidando l’aspirazione all’uguaglianza alla sola capacità del capitalismo di auto-riformare se stesso di fronte alle esagerazioni dei suoi spiriti animali.
Gettate alle ortiche le intuizioni e le elaborazioni di Marx, Lenin e degli altri protagonisti dell’assalto al cielo del XX secolo e miopi di fronte alla situazione internazionale, si è ritirata nell’angolo di una prospettiva nella migliore delle ipotesi riformista. Ogni velleità e ogni ambizione a un cambiamento politico e sociale profondo della società e delle relazioni internazionali, ogni ipotesi di tenere aperta e riaprire con forza la prospettiva del socialismo e del comunismo, è stata rimossa o addirittura espulsa con arroganza e supponenza da quella che viene oggi definita «comunità politica della sinistra».
Non si vuole solo liquidare la storia del movimento operaio, ma si vuole annegare il bambino nell’acqua sporca eliminando ogni riferimento e ogni riflessione critica utile per tenere aperta la prospettiva del socialismo anche nel nostro paese e in Europa.
In alcuni paesi – e la tentazione si sta facendo fortissima anche in Italia e nell’insieme dell’Unione Europea – l’opzione comunista si sta cercando di metterla fuorilegge o di perseguitarla culturalmente come una ideologia totalitaria paragonabile al nazismo.
Una domanda dovrebbe sorgere spontanea: se l’ipotesi comunista è stata sconfitta dalla storia, come spiegarsi il perdurare di tanto accanimento e acrimonia verso idee, libri, persone, organizzazioni che non ritengono liquidata tale ipotesi? Perché mai in tanti ambiti della politica e della cultura ci si adopera per esorcizzare e neutralizzare un nemico che si ritiene sconfitto? Esiste dunque il tentativo di impedire con ogni mezzo necessario che dentro la crisi del capitalismo, il socialismo – nella sua dimensione rivoluzionaria e non riformista – possa tornare ad essere una opzione politica presente e perseguibile nello scenario politico.
Connettersi con la prospettiva del Socialismo nel XXI° Secolo È accaduto che nel XXI secolo la dinamica della storia si sia rimessa in moto indipendentemente dai detrattori e dai liquidatori dell’opzione comunista. Da un lato la crisi sistemica del capitalismo sta diventando una crisi di civilizzazione globale – nel nostro paese drammaticamente avvertibile in tutte le pieghe della vita sociale – dall’altro si stanno modificando sensibilmente i rapporti di forza internazionali con il declino delle vecchie potenze capitaliste occidentali (Stati Uniti e in Europa) e l’emergere di nuove potenze con caratteristiche in parte simili e in parte diverse da quelle precedenti (soprattutto Cina, India, Brasile).
Dentro questa frattura della storia, si sono rimesse in moto forze sociali reali e progetti politici che stanno rimettendo in discussione l’egemonia capitalista e riaprono – in modo originale e peculiare – il processo di transizione al socialismo o a forme innovative nei rapporti di proprietà.
Lo dimostra la riapertura del dibattito sulle caratteristiche del socialismo del XXI secolo in America Latina – con la resistenza di Cuba, l’affermarsi del Venezuela bolivariano e della Bolivia democratica, india e costituente – ma anche i processi in corso in Nepal o nel sub-continente indiano.
Il dibattito sul socialismo del XXI secolo non è stato dunque riaperto in un cenacolo ma dentro la dialettica concreta dei movimenti sociali che hanno cambiato e stanno cercando di cambiare i rapporti reali in un intero continente – l’America Latina – e ne influenzano altri – come l’Asia – 15 dove vive la maggioranza dell’umanità.
Sarebbe tra l’altro interessante – anche sulla base della devastante partecipazione dei partiti comunisti ai governi di centro-sinistra in Italia – una seria discussione e un approfondimento sulle esperienze dei Partiti Comunisti in tre paesi emergenti di grande rilevanza come Brasile, Sudafrica e India. Nei primi due i comunisti partecipano attivamente al governo, nel terzo governano in proprio degli stati importanti. Si tratta di esperienze non prive certo di contestazioni da parte di altre forze della sinistra di classe presenti negli stessi Paesi (vedi la critiche da sinistra al “lulismo”), tra esse spiccano i contrasti nel West Bengala, dove sono addirittura conflittuali sul piano militare con i partiti comunisti maoisti che sostengono la guerriglia naxalita e le lotte dei contadini e degli indigeni contro l’esproprio di terre a fini industriali perseguito dal governo guidato dal partito comunista indiano.
La dimensione europea del movimento per la trasformazione sociale In Europa e qui in Italia, il dibattito e la nuova «spinta propulsiva» che viene dai paesi emergenti del Sud del mondo, si innestano su una situazione sostanzialmente appiattita sull’opzione riformista che ha totalmente rinunciato a porre nuovamente la questione dei “fini” dell’azione dei comunisti e della trasformazione sociale della realtà in cui operano.
Lo scenario europeo – anche sulla spinta delle contraddizioni reali innescate dalla crisi capitalistica – non è affatto desolante. In alcuni paesi europei agiscono dei partiti comunisti o organizzazioni anticapitaliste importanti sul piano politico e culturale (Grecia, Belgio, Portogallo, Repubblica Ceca) ma che ancora stentano a coordinarsi per riavviare una efficace e coordinata controtendenza a livello europeo.
La centralizzazione delle classi dominanti e delle politiche antipopolari a livello europeo, sta mettendo in campo misure economiche, politiche e sociali ormai comuni che rendono più omogenee le caratteristiche del conflitto di classe in Europa.
Le misure adottate dai governi ma imposte dall’Unione Europea a guida tedesca, sono piuttosto simili in tutti i paesi, e in tutti i paesi c’è stata una ripresa del conflitto sociale, con punte più avanzate e realtà più arretrate. In Italia e in Spagna si avvertono maggiori difficoltà ma nella stessa Grecia, dove pure agiscono un forte e radicato partito comunista, una forte sinistra rivoluzionaria, un sindacato di classe e combattivo, non si è riusciti ad andare oltre la fase di protesta sociale e diffusa contro i diktat dell’Unione Europea. Ciò significa che queste lotte non possono che ricostruire un orizzonte politico della trasformazione qui ed ora e che devono connettersi – reciprocamente e in ogni modo possibile – con le lotte, le soggettività politiche e le istanze di cambiamento negli altri paesi europei.
Il perdurare di una concezione schematica, alimenta ancora la formalità sul piano delle relazioni tra organizzazioni comuniste in Europa e riproduce spesso una conflittualità politica e ideologica tra le varie correnti della storia del movimento operaio, un atteggiamento che non riesce ancora a rimodularsi come una dialettica leale che consenta un bilancio storico e una riflessione critica sulle esperienze della storia. Le differenze e le divergenze ci sono e molto spesso agiscono concretamente anche sul piano delle scelte nell’azione politica nella realtà di ogni singolo paese dentro i movimenti sociali, dentro i sindacati, dentro le scelte sul piano politico o parlamentare.
Ciò avviene spesso a discapito di una possibilità e necessità di riaprire a tutto campo una battaglia politica e culturale che inchiodi l’avversario di classe sulle sue contraddizioni e che trasferisca questa capacità dal livello della testimonianza a quello dell’egemonia. Ma la riapertura di un percorso teso al cambiamento politico e sociale nei vari paesi dell’Europa, non può che spingerci ad operare con la necessaria pazienza e determinazione per il superamento di questi ostacoli.
Una opzione comunista per il cambiamento politico e sociale in Italia 16 È ormai evidente come in Italia si vada chiudendo una fase storica e se ne apra un’altra. Tutto ciò non è privo di conseguenze sul piano della nostra azione politica, sociale, sindacale, culturale.
Gli effetti della crisi economica globale si vanno connettendo pesantemente con il tentativo di adeguare il progetto della Seconda Repubblica alle esigenze della accresciuta competizione globale e dei poteri forti europei, un tentativo ancora non riuscito secondo le aspettative e le necessità a cui aspiravano i grandi gruppi capitalistici e le classi dominanti del nostro paese, anche a causa della variabile berlusconiana che ne ha scombinato le carte per i suoi interessi personali.
Sotto pressione e in funzione della oligarchia finanziaria-istituzionale nell’Unione Europea, nel blocco dominante in Italia si è riaffacciata l’ambizione alla normalizzazione della società ed a rendere la governabilità bipartizan un apparato irreversibile di comando, di governo e di amministrazione. A questo – e a rafforzare il carattere oligarchico dello Stato, della politica e dei poteri decisionali – servono le riforme istituzionali in cantiere e alle quali verrà messo mano subito dopo le prossime elezioni, indipendentemente dal loro risultato.
L’apparato ideologico e politico che sovrintende a questa normalizzazione, punta esplicitamente a espellere il conflitto sociale come strumento di emancipazione e di relazione tra le classi e i diversi segmenti della società. Ammette come unica forma di lotta e odio di classe quello dell’alto verso il basso, della borghesia contro i lavoratori, dei ricchi contro i “perdenti”, ma teme, esorcizza, criminalizza ogni conflitto e identità di classe in antagonismo a se stesso. Un passaggio decisivo di questa restaurazione autoritaria è la cooptazione dei sindacati concertativi dentro uno schema neocorporativo che ne snaturi ruolo e funzione e al tempo stesso imbrigli e depotenzi il conflitto e l’insieme delle dinamiche sociali. Ritenere che padroni e lavoratori abbiano gli stessi interessi e siano la stessa cosa (come hanno affermato recentemente Marchionne, Marcegaglia, Fini, Veltroni e i leader di Cgil Cisl Uil) è indicativo di tale impianto ideologico e politico.
Ignorare, subordinare o depotenziare gli interessi dei lavoratori, dei settori popolari, di quello che storicamente e attualmente è il blocco sociale antagonista, non solo sta producendo inevitabilmente un deficit democratico e di rappresentanza politica evidente a tutti, ma intende anche sancire che nessuno orizzonte di cambiamento politico e sociale è possibile se non dentro il quadro esistente.
Le reazioni della sinistra «storica» a tale scenario sono del tutto inadeguate e per certi aspetti devastanti perché producono l’effetto di un generale disorientamento tra i ceti popolari e tra i lavoratori e di un profondo scetticismo tra i militanti comunisti e gli attivisti sociali verso una prospettiva di trasformazione generale della società.
Da un lato le forze che hanno attraversato e si sono via via scisse dalla principale esperienza della sinistra (il PRC) stanno portando nei fatti a conclusione – – sia nelle forme di SEL che della FdS – il processo avviatosi nel 1990 alla Bolognina, facendo così scomparire dallo scenario politico l’opzione comunista indipendente dal centro-sinistra.
Tale deriva non attiene solo alla scomparsa di una identità e presenza comunista ma rivela una subalternità riformista e neo-keynesiana che ipoteca pesantemente il futuro.
Dall’altro la reazione a questa deriva si manifesta più come disorientamento, disagio, disillusione, ricerca di identità che come un tentativo organizzato e coerente di avviare una controtendenza e di rimettere in campo una militanza attiva, un progetto e una idea di trasformazione sociale del paese.
È da questa consapevolezza e da un arco di contenuti e pratiche virtuose e concrete sul terreno dell’organizzazione degli interessi di classe, della democrazia e dell’internazionalismo, che si può determinare l’autorevolezza teorica e la credibilità sociale dell’opzione comunista e di classe nel XXI secolo anche in un paese come l’Italia ed anche tenendo conto di una dimensione europea ed internazionale dei problemi che condizionano pesantemente lo scenario nel nostro paese.
Su questa riflessione e sulle sue possibili e necessarie ricadute concrete, invitiamo tutti le compagne e i compagni che rivendicano e condividono – in tutto o in parte – l’esigenza di non liquidare né di far liquidare una opzione comunista, ad un percorso di organizzazione, ricostruzione e discussione franca e serrata che richiede però molto più coraggio politico e personale che un infinito e paralizzante tatticismo.
L’accumulazione delle forze non può essere un orizzonte senza passaggi temporali che chiamino in campo anche la soggettività attiva dei comunisti. Dentro la crisi di civilizzazione in cui il capitalismo ha gettato la società, il socialismo del XXI secolo non è solo storia, è anche la riapertura di una prospettiva concreta per l’intera umanità.
CREDITS
Immagine in evidenza: Karl Marx, painted portrait
Autore: thierry ehrmann, 16 ottobre 2009
Licenza: Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata