Antonio Bufalino (relazione alla Terza Assemblea Nazionale della Rete dei Comunisti)
L’ultimo tentativo del capitalismo di assicurarsi la valorizzazione del Capitale investito è stato attraverso la sua finanziarizzazione – il denaro che produce denaro – siamo così arrivati alla crisi conclamata del sistema capitalista, alla crisi di civiltà che oggi investe in maniera dirompente tutto l’occidente ad industrializzazione matura. Negli ultimi quarant’anni il capitalismo ha cercato di invertire la tendenza alla crisi strutturale che si è manifestata in forma dirompente agli inizi degli anni settanta proprio con la prima profonda crisi energetica del dopoguerra. Crisi accompagnata da sovrapproduzione di merci, inflazione ed alto conflitto politico sociale. Una delle prime risposte del capitalismo, sul piano della neutralizzazione del conflitto, è stata quella del decentramento produttivo. Obiettivo: smantellare i grandi aggregati produttivi e relativa scomposizione della classe operaia per un verso e ridurre i costi di produzione dall’altro. I grandi processi di ristrutturazione che all’epoca hanno investito l’industria italiana hanno prodotto una proliferazione delle piccole e medie imprese a discapito dei grandi stabilimenti di produzione dove era più semplice l’aggregazione operaia e l’organizzazione delle rivendicazioni in materia di diritti e di salario. Con lo sviluppo internazionale della competizione capitalista si è prodotto quel fenomeno che prende il nome di delocalizzazione della produzione e si introduce una nuova divisione del lavoro su scala internazionale. Le grandi imprese nazionali assumono un ruolo ed una forma transnazionali (la FIAT e la Chrysler, il modello polacco o serbo, ecc.). La competizione internazionale ha generato un duro attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori dipendenti, riduzione del salario, aumento di tasse e prezzi, progressiva eliminazione dei diritti, aumento dei ritmi di produzione e della giornata lavorativa, per sostenere la concorrenza nei paesi a capitalismo maturo e nel resto del mondo. Il tentativo di scomposizione della classe ha visto, purtroppo, la complicità pratica ed ideologica della sinistra istituzionale italiana, la quale ha, nel corso degli ultimi decenni, smantellato ideologicamente e nella sua organizzazione pratica qualsiasi ipotesi di alternativa al modo di produzione capitalista, ripiegando, nel migliore dei casi, in ipotesi di tipo Keynesiano e mettendo in campo una vera e propria lettura revisionista della storia del movimento dei lavoratori. Si è così consentito l’affermarsi di una lotta di classe al rovescio: il capitale che contrattacca apertamente il lavoro per negare diritti e salario, sapendo di non avere alcuna opposizione reale. L’internazionalizzazione della competizione concorrenziale produce effetti e reazioni diverse nei diversi stati nazionali. Che hanno ricadute immediate nei posti di lavoro, in ogni quartiere e nelle coscienze dei lavoratori, anche se sembrano sopite. L’acuirsi della crisi e la sempre più feroce concorrenza nazionale ed internazionale hanno indebolito e diviso lo storico fronte del sindacalismo confederale rappresentato da CGIL, CISL e UIL. Gli accordi del 92 e 93 voluti da CGIL, CISL, e UIL, sanciscono l’avvio del periodo della concertazione e del contenimento delle rivendicazioni salariali entro il tetto inflattivo programmato. La nascita e lo sviluppo del sindacalismo di base accompagnato dagli effetti della competizione internazionale inasprita dalla crisi, hanno, nell’arco di pochi decenni, fatto saltare l’ipotesi di una politica sindacale fondata esclusivamente sulla concertazione.
Oggi la FIOM, dopo aver incarnato per un breve lasso di tempo un’idea conflittuale, opponendosi al modello Marchionne, anche in contrasto con il resto della CGIL, deve trovare il canale per rientrare nella cornice degli equilibri interni alla CGIL e in quelli delle compatibilità generali definiti dai tentativi di neutralizzazione degli effetti della crisi da parte del governo e della Confindustria. Nonostante tutto resta una sirena, che ingannevolmente canta e attrae pezzi di movimento. questi si pongono in coda alla CGIL, in attesa del taumaturgico sciopero generale dalla stessa proclamato, rischiando così la negazione delle proprie peculiari istanze d’indipendenza e rientrando nella logica, che non ha mai abbandonato la CGIL nel suo insieme, di compatibilità con gli attuali modelli sociali e sindacali proposti sia ai lavoratori pubblici che a quelli privati, come a tutti i cittadini (precari, disoccupati, pensionati, giovani). Lo sciopericchio, di 4 ore, con manifestazioni regionali, proclamato per il 6 maggio p.v. serve a poco e non sposta di una virgola la relazione stretta che esiste tra le politiche generali della CGIL e quelle del Partito Democratico, non mettono in campo un’opposizione vera al nuovo patto sociale chiesto da CONFINDUSTRIA e governo. Il nuovo patto sociale e le nuove relazioni sindacali si traducono nel tentativo di emarginare il conflitto sindacale e sociale ed evitare la rottura tra classi subalterne e interessi del padronato e del governo, che riconduca tutto, FIOM compresa, nell’alveo delle compatibilità e di ripristino della filiera di comando nel sociale e nella produzione, nella politica e nel sindacato. Perciò l’indipendenza del sindacato è un terreno ineludibile se si vuole arginare l’aumento inumano dello sfruttamento dei lavoratori, la riduzione forte dei salari e la disintegrazione dello stato sociale.
Il sindacato indipendente, oggi, si trova ad operare in controtendenza, con una situazione molto difficile sul piano dell’organizzazione dei lavoratori, con il blocco sociale di riferimento privato di un’adeguata rappresentanza politica. Deve pertanto assolvere al ruolo di ricomposizione del mondo del lavoro, fuori dalle compatibilità economiche padronali e di governo, per una ripresa forte dell’organizzazione e dell’iniziativa di lotta dei lavoratori. Occorre andare oltre la pur significativa esperienza storica del sindacalismo di base, così come lo abbiamo sino ad ora conosciuto, per costruire una vera alternativa nella rappresentanza dei lavoratori, sia quelli pubblici che quelli privati. Un sindacato che abbia l’adeguata credibilità ed una capacità organizzativa tale da rappresentare un’ipotesi sostitutiva del sindacalismo storico espresso da CGIL, CISL e UIL. Un sindacato indipendente sul piano politico e culturale deve impegnarsi nella ricostruzione di un’identità di classe destrutturata dai processi revisionisti che hanno investito la Sinistra storica e quella istituzionale e tutto il sindacalismo storico e giallo (i sindacati autonomi solo nel nome). La costruzione di un sindacato indipendente si deve basare sul valore aggiunto che la confederalità fornisce per affermare in controtendenza l’unione e l’identità di classe in questa complessa fase storica, drammatica e per certi aspetti foriera di opportunità.
La riuscita dello sciopero generale dell’11 marzo 2011, sostenuto dal sindacalismo di base, impone la necessità di un cambio di passo. Occorre capire che si è quasi conclusa l’esperienza del sindacalismo di base e che è bene puntare alla costruzione del sindacato indipendente e di classe, sul suo potenziale sviluppo nel confronto continuo con settori di sindacalismo storico e con i movimenti (sociali, precari, studenteschi, dell’abitare, ecc.). Il sindacato indipendente deve rivolgersi con particolare attenzione ai soggetti sociali maggiormente colpiti dalla crisi e a quelli che si collocano, per effetto del modificato mercato del lavoro, fuori dalle storiche categorie sindacali. Deve riuscire a definire con maggior chiarezza, nel quadro delle mutate relazioni sindacali e alla luce del nuovo patto sociale chiesti da CONFINDUSTRIA e governo, che trova la complicità di tutte le organizzazioni sindacali tradizionali, la sua funzione conflittuale e di organizzazione complessiva del mondo del lavoro. Le nuove relazioni sindacali non prevedono alcuna materia contrattuale relativa all’organizzazione del lavoro, negano, nei fatti, il diritto individuale, sancito dalla Costituzione, qual è lo sciopero. Si ristabilisce il governo unilaterale dell’impresa nella produzione, dentro un quadro di norme non più universale ma stabilito nella singola azienda per mezzo della riforma della struttura contrattuale per il lavoro privato e la Legge, anziché la trattativa, per i dipendenti pubblici.
La difesa delle Funzioni Pubbliche è, oltre la tutela dei lavoratori pubblici, salvaguardia dello stato sociale pesantemente attaccato dal modello Brunetta (ma anche Ichino sarebbe lo stesso). Le continue dismissioni di servizi pubblici in favore di imprese private serve a garantire rendita alle aziende di servizio. La progressiva privatizzazione di capitale ed imprese pubbliche, la esternalizzazione dei servizi sinora pubblici, smantellano il ruolo stesso dello Stato Sociale, i diritti di cittadinanza di una civiltà evoluta. Questo si manifesta: nel definanziamento dell’istruzione pubblica a favore delle scuole private e cattoliche; nella destrutturazione della sanità pubblica che favorisce il ricorso a quella privata; nel sistema previdenziale riformato che non garantisce più la sopravvivenza dei pensionati ed incrementa il sistema delle pensioni complementari, arricchendo le privatissime compagnie assicurative e favorendo le speculazioni finanziarie sui cosiddetti fondi pensione, che nella crisi economica hanno del resto perso fortemente il loro rendimento.
Il modello FIAT, proposto da Marchionne, si inserisce nel già delineato quadro della concorrenza internazionale e nel nostro paese non è un modello inedito. Esiste già da molto tempo, in molte piccole e medie imprese, nelle cooperative, favorito dalla modificata regolamentazione del mercato del lavoro. Con la nascita della precarietà abbiamo di fronte un esercito salariale di riserva, senza diritti, incrementato anche dalla crescente migrazione internazionale. Si è legalizzato il lavoro nero così come lo conoscevamo dal dopoguerra al pacchetto Treu, per passare poi alla Legge cosiddetta Biagi (14 febbraio 2003, n. 30), che ha ulteriormente liberalizzato l’utilizzo della forza lavoro, neutralizzando nei fatti i CCNL. Si è così resa precaria l’esistenza! Si deve quindi costruire un nuovo modello di rappresentanza organizzata dei nuovi soggetti sociali, il lavoro a tempo indeterminato tendenzialmente diventa marginale, la proposta del sindacato indipendente è l’unica risposta concreta alla ulteriore frammentazione della classe lavoratrice non solo in Italia ma nel resto d’Europa. È necessario che il sindacato indipendente guardi anche a livello internazionale. Il ruolo delle politiche europee a guida franco-tedesca limita ulteriormente le scelte economiche dei singoli stati. La UE impone misure draconiane, economiche e sociali, ai paesi membri (rientro del debito pubblico e innalzamento dell’età lavorativa a 67 anni per uomini e donne, lavoratori pubblici o privati, tagli alla spesa sociale, blocco dei contratti e dei salari). Opera, attraverso le politiche di aiuto economico agli stati dell’area dell’Euro in difficoltà, uno strozzinaggio vero e proprio come nel caso di Grecia, Irlanda e Portogallo. Nell’attuale fase di conflitto armato emerge con tutta evidenza anche il ruolo imperialista che l’UE gioca a livello internazionale. Cade la maschera dell’Europa unita e si evidenziano gli aspetti concorrenziali di tipo capitalista tra i diversi stati che la compongono. Vedi il conflitto franco-italiano sul comando delle azioni belliche nell’intervento libico e nella gestione del fenomeno migratorio che ne consegue.
Il sindacato indipendente deve curare l’ipotesi di rafforzamento della sua presenza nelle lotte sociali, che sempre più di frequente mostrano di essere maggiormente avanzate di quelle politiche. Una proposta organizzativa nel sociale che deve intercettare le contraddizioni che la crisi del sistema capitalistico produce nell’impresa, nello Stato Sociale e sul terreno della quotidianità esprimono i loro effetti. Deve saper coniugare i diversi bisogni primari del blocco sociale di riferimento in un progetto complessivo di organizzazione e di lotta, a partire dal diritto al lavoro, al reddito, alla casa, all’istruzione e alla sanità. Un progetto complessivo e strategico che sta dentro l’affermazione ed il rafforzamento di tutto il sindacalismo indipendente. Sta nell’affermazione di campagne vertenziali e politiche diffuse dentro e fuori dai luoghi del lavoro e della produzione. Verificare nello sviluppo inaspettato nelle esperienze metropolitane (le lotte sociali) e nel settore del lavoro privato (imprese, aziende di servizi, trasporti, cooperative, ecc.), determinato anche dalle crescenti contraddizioni che la crisi produce, il ruolo e la credibilità di una proposta organizzativa avanzata dal sindacato indipendente.
Il confronto-scontro con il sindacalismo storico, la CGIL, è importante ma va inquadrato in una visione strategica di indipendenza. Con costanza è necessario denunciare le contraddizioni che si producono nella CGIL anche per effetto della fine della stagione concertativa e spingerla ad assumere azioni, come gli scioperi o le manifestazioni, che non assumerebbe senza l’esistenza e l’affermazione del sindacalismo indipendente.
Occorre essere consapevoli che il punto di rottura della stabilità sociale è dato dall’indicatore inflattivo: più diminuisce il potere d’acquisto dei salari, più aumenta il costo di sostentamento e riproduzione della forza lavoro, più cresce la possibilità di lotta e di organizzazione dei lavoratori dentro un quadro sindacale e politico, nelle lotte sociali e nella costruzione di una necessaria rappresentanza politica. La debolezza dei salari, effetto della crisi del sistema e della civiltà capitalista, ha generato prima la rivolta dei paesi del nord Africa e poi il conflitto libico. Le rivolte inaspettate dell’area nord Africana, che si sono poi estese al Medio Orientale (vedi la Siria), hanno preso avvio proprio dall’aumento del costo della vita e dall’incapacità dei regimi che hanno governato quei paesi di attuare persino semplici politiche sociali ridistributive. Le rivolte popolari della Tunisia e dell’Egitto si sono caratterizzate come progressiste e tendenti al superamento di una situazione che la crisi internazionale ha reso ormai insostenibile: tutta la ricchezza nazionale in poche mani. Si è così marcata una profonda distinzione con quello che è avvenuto in Libia, dove possiamo affermare essere esplosa una vera e propria guerra civile, determinata dalla rottura degli equilibri tra le varie tribù che compongono la società libica. Rottura sostenuta dai paesi imperialisti (in primo piano quelli europei), che l’hanno spinta sino a giustificare il loro intervento militare diretto. La tragedia giapponese, d’altro canto, rende difficile la prosecuzione dell’avventura nucleare nei Paesi occidentali avanzati, la continuità di approvvigionamento energetico tradizionale (gas e petrolio) diventa strategica e impone alle nazioni industrializzate, che hanno per il loro sviluppo bisogno di maggiori fonti di energia, ad essere direttamente interessate nella guerra civile libica e in tutte le aree con grandi giacimenti energetici (Kuwait prima e Iraq dopo lo dimostrano e oggi il Bahrein lo conferma – nessuno si oppone al fatto che l’esercito dell’Arabia Saudita, confinante con il Bahrein, lo occupa di fatto). Alla debolezza dei salari, nei paesi che si affacciano sul mediterraneo, si sono aggiunti gli effetti negativi della crisi internazionale. Ad esempio l’aumento mondiale dei prezzi dei cereali grano, riso, mais, ecc.. In Italia, che non è un paese in via di sviluppo, il costo delle materie prime alimentari è aumento del 35% nell’anno scorso, su questo pesa per ben il 20% la speculazione finanziaria, dovuta anche al loro recente utilizzo come carburanti. Il prezzo proibitivo dei generi alimentari è stato uno dei motivi scatenanti della rivolta dei popoli nordafricani e discende direttamente dalle scelte economico-politiche che si fanno dentro la crisi.
Finché non si superano gli attuali rapporti di produzione e sociali, nazionali ed internazionali, non si potrà fare a meno di un sindacato di classe, libero ed indipendente. Che unifica tutte le lotte, nazionali ed internazionali, dentro una strategia precisa di superamento dello stato di cose presente e costruisce il futuro modello della produzione e della società. È sul terreno sociale e produttivo che si gioca la partita dello scontro tra le classi egemoniche e quelle subalterne, messa inevitabilmente in campo dalla crisi nei singoli stati e su scala internazionale. Il sindacato indipendente deve giocare il suo ruolo “nuovo” di reale “alternativa” al consorzio di CGIL, CISL e UIL, costruendo organizzazione vera e conflitto reale in tutti i posti di lavoro e nella società, in una “strategia” compiuta di trasformazione complessiva della società.