Mila Pernice (relazione alla Terza Assemblea Nazionale della Rete dei Comunisti)
Come Commissione Internazionale della Rete dei Comunisti sentiamo la grande responsabilità di questo nostro intervento, legata non solo a quello che sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo ma anche e soprattutto a causa del ruolo strategico che l’internazionalismo deve assumere per un’organizzazione comunista, anche come elemento forte della sua identità politica. L’attività politica della Rete dei Comunisti si è sempre connotata in questi anni per il forte intervento a livello internazionale, che si è sempre più rafforzato e che attraverso la Commissione Internazionale sta superando la distinzione per settori per caratterizzarsi attorno al ruolo delle organizzazioni di classe e dei comunisti nel contesto internazionale a partire dai processi di ricomposizione della classe a livello globale. In pochi mesi il lavoro della Commissione ha dato vita a Contropiano Internazionale, all’apertura di nuovi siti, alla prima di una serie di campagne come occasione di approfondimento teorico e di produzione di materiali di studio che diano respiro teorico e pratico all’intervento internazionale della Rete dei Comunisti.
Pensiamo a quanto sia necessario, genetico, per noi comunisti esprimere nel modo più attivo possibile la solidarietà con le altre forze di classe, antimperialiste, anticapitaliste, con i movimenti di resistenza e di liberazione nazionale operanti nel resto nel mondo. Ma la dimensione strategica dell’internazionalismo proletario entra in gioco quando ci poniamo un interrogativo semplice ma fondamentale: qual è il nostro ruolo? Senza sforzarci di dare risposte a questo interrogativo, senza quindi porci il problema di un’analisi di classe a livello globale, rischieremmo di limitare il nostro intervento internazionalista su un livello esclusivamente solidaristico, perdendo di vista, appunto, la dimensione strategica. Per fare questo è necessaria anche un’analisi specifica a partire proprio dal nostro contesto di crisi del sistema capitalista, con la conseguente crescita della competizione globale e alla luce della nuova divisione internazionale del lavoro.
A tal fine, accanto al lavoro quotidiano di solidarietà internazionalista che in questi anni abbiamo messo in campo su vari temi e che continuiamo a portare avanti, abbiamo deciso di rafforzare, a fronte della nuova fase politico-economica, delle vere e proprie campagne sull’analisi e la pratica di classe a livello internazionale, come quella che ha avuto il suo culmine nel Forum Internazionale del 12 marzo scorso sul polo geoeconomico-politico che abbiamo definito “La Mala Europa”, e in sintonia con i compagni greci, spagnoli, portoghesi, danesi abbiamo adottato la posizione tutta politica per la fuoriuscita dall’Unione Europea, che ha assunto definitivamente il ruolo e la funzione per la quale era stata costruita, cioè quella dell’imperialismo europeo a guida egemonica tedesca. In questo senso abbiamo proposto una parola d’ordine che farà probabilmente fatica ad essere compresa e/o raccolta, ma che oggi ci sembra l’unica possibile a fronte degli attuali rapporti di forza fra le classi e fra gli Stati: “dentro l’Europa ma fuori dall’Unione Europea”.
Sul ruolo del blocco imperialista europeo, emerso dopo la fine del conflitto globale USA/URSS, la Rete dei Comunisti ha aperto da molti anni un’analisi che spesso si è scontrata, e ancora si scontra, con la posizione di alcune forze di sinistra, o anche forze dichiaratamente comuniste, che vedono nel processo di consolidamento dell’Unione Europea una necessaria alternativa rispetto all’imperialismo statunitense. Una visione che trascura il fatto che l’Unione Europea non è che il frutto degli interessi e dell’egemonia delle borghesie europee dominanti e del rafforzamento delle mire imperialiste di un polo che si pone come competitore del blocco USA, a maggior ragione alla luce dell’inasprimento della crisi del sistema capitalistico, la cui asimmetria sta determinando una nuova fase nei rapporti di forza internazionali. La stessa crisi, infatti, che si abbatte pesantemente sui poli imperialisti tradizionali, Europa e Stati Uniti, è occasione della crescita delle potenze economiche emergenti, quelle dei paesi cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), come anche del Sudafrica, che in maniera diversificata svolgono un loro ruolo specifico all’interno della competizione globale. Da questo punto di vista rimane ancora sicuramente problematica per noi una valutazione fortemente definita sulla Cina, cioè su una potenza di cui vogliamo approfondire il ruolo particolare dal punto di vista politico, economico e sociale, evitando posizioni superficiali o ideologiche, e di questo la Commissione Internazionale si farà carico.
Questa parziale modificazione del quadro internazionale, che vede comunque il 60% del PIL mondiale ancora nelle mani dei centri imperialisti, sta determinando una sempre maggiore divaricazione fra gli USA e l’UE, sta quindi acutizzando il conflitto tra l’area del Dollaro e quella dell’Euro. Mentre, infatti, gli Stati Uniti continuano a riproporre la politica del sostegno alla domanda stampando dollari ed utilizzando il debito pubblico e privato, l’Unione Europea, pur mantenendo nel suo centro economico la funzione di mercato di consumo, si sta orientando verso un ruolo anche manifatturiero, di produzione di merci, funzionale al modello esportatore tedesco che guarda sempre più anche dentro i confini dell’Europa, e di erogazione di servizi sempre più a carattere bancario e assicurativo. Al contrario degli USA, inoltre, l’Unione Europea, attraverso il ruolo centrale della borghesia tedesca, seguita contraddittoriamente da quella francese, sta attuando una politica di contenimento del debito pubblico che è funzionale a salvaguardare i parametri di riferimento dell’euro, a stabilizzare il sistema economico continentale ed ad utilizzare le crisi del debito sovrano dei vari paesi per stabilire una gerarchia politica all’interno della stessa Unione Europea, che rafforza anche la stessa egemonia economica tedesca. Abbiamo definito la gerarchizzazione interna all’Unione individuando 5 aree ben definite dal punto di vista produttivo ed economico: l’Europa centrale (quella del modello esportatore tedesco, appoggiato e affiancato dalla borghesia francese pur con le evidenti contraddizioni interne), i paesi Nord europei (quelli del keynesismo sociale nei termini ancora possibili), i paesi a economia debole come Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia (i cosiddetti PIIGS) – privi di borghesie in quanto classi dirigenti, che hanno espresso la loro funzione solo come classi dominanti -, i paesi dell’Est-europeo (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania ecc..), quelli della delocalizzazione produttiva (utili per tentare di risolvere la conflittualità sul versante del costo e dei diritti del lavoro) e la zona Afro-Mediterranea (Algeria, Marocco, Tunisia, ecc…), con un esercito salariale di riserva che si esplicita nei sempre più massicci flussi migratori, zona detentrice di risorse energetiche strategiche per il tentativo di rilancio della nuova economia capitalista, e sempre più integrata, (ormai anche a forza di bombardamenti) nella dimensione europea, sul piano del ruolo assegnato dalla nuova divisione internazionale del lavoro.
Occorre quindi continuare ad approfondire in modo particolare l’analisi sul contesto entro il quale operiamo come comunisti, entro l’Unione Europea, dove il ruolo egemonico di Germania e Francia si manifesta attraverso una sorta di neocolonialismo interno all’Europa che, mentre trova una relativa difficoltà ad attecchire in aree come quella del Nord Europa dove permangono un forte stato sociale ed una presenza consistente dello Stato e della politica nell’economia, si riversa brutalmente sull’area dei PIIGS, che vede l’assenza di una borghesia dinamica come classe dirigente, l’abbandono (o imposizione dell’abbandono) della partecipazione pubblica nelle attività produttive e nella programmazione economica strategica, e la dismissione di tutto il potenziale industriale. Allo stesso tempo, la semiperiferia assume un ruolo sub-imperialista nei confronti delle aree periferiche, quelle dell’Europa dell’Est e dell’Africa Mediterranea, dove la delocalizzazione di interi segmenti del ciclo produttivo, e con essa lo sfruttamento di forza lavoro a basso costo, sono funzionali alla nuova configurazione della divisione internazionale del lavoro. E’ proprio nei paesi della periferia produttiva europea che si sono aperte tutte le contraddizioni foriere delle grandi rivolte popolari contro i regimi corrotti e filo-occidentali, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, oggi bersaglio delle pressioni contro-rivoluzionarie interessate alla normalizzazione dell’area.
E’ la stessa Unione Europea, del resto, che si sta confrontando con un inasprimento della competizione con gli Stati Uniti dal piano meramente economico al terreno dell’opzione bellica, come dimostra l’interventismo militare francese nel caso delle pressioni internazionali sulla Libia destabilizzata dalla guerra civile: a dirci che l’attacco della coalizione internazionale alla Libia serve anche ai fini di un riposizionamento interno all’Europa, c’è il fatto che la Francia contrappone all’egemonia economica tedesca un tentativo egemonico sul terreno militare. L’inasprimento della competizione globale sta portando i blocchi imperialisti sul terreno dell’espansionismo politico ed
economico attraverso, come già visto nel caso dell’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan, l’interventismo militare, che ieri vedeva come protagonisti soprattutto gli Stati Uniti, oggi porta alla ribalta le borghesie dei paesi che all’interno dell’Unione Europea esercitano egemonia pur con tutte le contraddizioni interne cui facevamo riferimento prima. Per questi motivi condanniamo la guerra contro la Libia senza alcuna forma di ambiguità, senza i “se” e i “ma” che venivano con decisione tenuti fuori quando capofila del “militarismo umanitario” erano gli Stati Uniti e a cui invece oggi larga parte del “pacifismo di lotta e di governo” si appella come discriminante fondamentale. Oggi saremmo infatti in piazza con la piattaforma di Gino Strada che non ha commesso, a nostro parere, l’errore di vincolare l’opposizione alla guerra entro la trappola delle compatibilità. Così come non siamo mai caduti nella trappola delle compatibilità sostenendo senza condizioni la resistenza del popolo palestinese contro l’occupazione sionista e imperialista, senza mai cedere ad alcuna forma di ambiguità o di “equidistanza”, e senza mai svendere il diritto all’autodeterminazione dei popoli in nome delle stesse logiche che spesso hanno diviso le nostre piazze e le nostre piattaforme, sempre a favore dei contenuti espressi nelle nostre piazze.
Siamo nel quadro di una crisi da cui, come sappiamo, è possibile uscire o con un ulteriore sviluppo quantitativo, al centro o nei paesi periferici, dell’economia capitalista, che necessita quindi di un aumento della produzione e dei consumi, o, appunto, attraverso una distruzione generalizzata di capitale, quindi attraverso una guerra ampia. A fronte della crisi energetica in corso, nell’ambito della quale il disastro di Fukushima ha aperto una crepa anche sul fronte del nucleare, i pozzi petroliferi e le riserve di gas della Libia hanno rappresentato dunque una doppia opportunità alla pratica del keynesismo militare da una parte e all’accaparramento delle risorse energetiche dall’altra. E’ proprio la crisi energetica a portare acqua al mulino neocoloniale e quindi all’opzione bellica: e quando parliamo di crisi energetica non possiamo non fare riferimento alle trivellazioni e con esse alla grande devastazione ambientale nel Golfo del Messico, così come non possiamo non fare riferimento al disastro di Fukushima, entrambi provocati dall’ acuirsi della contraddizione fra rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive. La crisi del capitale ha messo in evidenza come, all’interno del conflitto capitale/lavoro si esplicitino le contraddizioni che non erano emerse prima con la stessa evidenza: quella fra capitale e natura, fra capitale e scienza, fra capitale e diritti, in una involuzione complessiva che non fatichiamo a ricondurre all’interno di una generale “crisi di civiltà”.
All’interno di questo contesto lo sviluppismo capitalista, attraverso le attuali forme che assume l’imperialismo, guarda all’America Latina, in primis al Venezuela, all’Ecuador, alla Bolivia, paesi che sono possessori di importanti giacimenti di petrolio, gas e litio, e che si sono posti, con i loro processi di cambiamento, fuori dal controllo degli Stati Uniti e dalle regole della società del capitale. E’ da quell’area del nostro pianeta che giungono segnali concreti e dati oggettivi relativi alla possibilità di superamento del capitalismo: è qui che sono in atto importantissimi percorsi, a volte anche con le necessarie contraddizioni, di trasformazione rivoluzionaria e transizione socialista realizzati dai paesi dell’ALBA con il ruolo storico e di riferimento sempre centrale del processo rivoluzionario socialista di Cuba. E’ all’interno della stessa grave crisi economica che si abbatte sulla classe lavoratrice internazionale, oltretutto aggravata dal criminale embargo statunitense, che il processo rivoluzionario cubano sta adottando tutte le misure necessarie per adeguare la sua pianificazione economica in un percorso di perfezionamento sempre incentrato sulla pianificazione socialista, nell’ottica, quindi, di una profonda e necessaria attualizzazione della transizione rivoluzionaria. E’ da Cuba e dai paesi dell’ALBA che giungono importanti esempi di esperienze dove la soggettività del socialismo di classe ritrova una sua funzione politica e un ruolo concreto che ci indicano che lo sviluppo di un nuovo cammino del movimento di classe non può che avere carattere internazionale e deve avvenire nei percorsi del socialismo nel e per il XXI secolo.
Concludo ribadendo il nostro impegno politico nelle lotte e nelle dinamiche dell’ internazionalismo proletario: ciò può essere possibile solo tentando, con il metodo dell’inchiesta, di tracciare le tendenze in atto nella trasformazione della classe a livello internazionale e di descrivere le forme che la classe assume a livello mondiale e in relazione alla modifica dei sistemi produttivi. E’ così che possiamo dotarci degli strumenti affinché il nostro fare internazionalismo assuma un ruolo strategico che sappia rispondere all’interrogativo iniziale, sul nostro ruolo come comunisti, e ai compiti che la fase richiede, QUI ED ORA!!