Nazareno Festuccia CESTES-USB (in Contropiano anno 21 n°1 – maggio 2012)
Monti ha detto: “Dobbiamo rendere il mercato del lavoro simile a quello dei Paesi che attraggono gli investimenti”.
Così nasce una “riforma” che distrugge identità e ruolo sociale dei lavoratori, affida il loro futuro, e quello delle loro famiglie, alle leggi di un mercato che non ha altra legge se non quella del profitto in una competizione globale senza regole, che ridisegna gli apparati produttivi nazionali trasformandoli in transnazionali per una nuova divisione internazionale del lavoro.
Premessa
La crisi prosegue il suo cammino, indifferente alle misure draconiane che il governo ci rovescia addosso, eppure sembrava che bastasse fare qualche sacrificio in più per sistemare il debito “sovrano” e i conti dello stato.
Oggi i conti sono in sicurezza, dice il governo, la crisi no e non è bastato mettere in sicurezza i conti pubblici, perché la crisi è economica e non finanziaria, il progetto è molto più ambizioso e di lungo e buio periodo. Con la scusa del debito pubblico stiamo assistendo ad un’ulteriore spostamento di ricchezza dai lavoratori subordinati a imprese, banche e centri finanziari, tale da riportare i consumi dei lavoratori allo stesso livello del dopoguerra, tira aria di anni 50, tanto per capirsi. Perché la leva fiscale, dopo aver compresso salari e stipendi, ora mira a svaligiare i risparmi delle famiglie sopravvissuti finora.
È la fine del sogno di una crescita illimitata basata sulla convinzione che il capitalismo, unico modello di sviluppo possibile, possa garantire a tutti ricchezza e benessere. In realtà la condizione di apparente benessere per i lavoratori è totalmente subordinata all’instabilità ciclica del sistema e al primo accenno di crisi ripiomba nella povertà la condizione dei lavoratori subordinati e non solo, perché la sua ricomposizione di classe la borghesia la fa sul piano del profitto e dell’appropriazone della ricchezza sociale.
Le scelte di politica finanziaria utilizzano la recessione, che acuiscono, come strumento di sterminio di massa di forze produttive e mezzi di produzione, ridisegnando un nuovo sistema sociale in cui la libertà di impresa sia l’ideologia dominante e la subordinazione economica, culturale e ideologica dei lavoratori diventa una condizione strutturale dell’intero modello di sviluppo. Le famose riforme strutturali che l’Europa ci chiede, insaziabile, sono lo strumento legislativo per realizzare il nuovo modello di sviluppo.
L’attuale riforma del mercato del lavoro è in continuità con le precedenti, note come pacchetto Treu e legge 30, ma si inserisce in una strategia più complessa, quella di predisporre il nostro paese ad entrare in quello che sembra delinearsi come nuovo apparato produtrivista della 42 M Nazareno Festuccia* necessariamente Contropiano solo articolo 18 *CESTES-USB 1 e 8 non fanno tivo di dimensioni sovranazionali. Le precedenti riforme si proponevano obiettivi di medio termine, come rompere l’unità dei lavoratori e ridurre il loro potere contrattuale da un lato, dall’altro di recuperare margini di profitto per le imprese attraverso la compressione salariale e la devastazione dei diritti strappati a forza dalle lotte degli anni 70.
La riforma attuale si propone obiettivi di grande spessore, la trasformazione del paese in una componente del futuro apparato produttivo dell’Europa nazione ancora in fieri.
Per raggiungere questo obiettivo occorre regolare i conti con il novecento e i suoi contenuti sociali, distruggere l’impianto normativo di garanzia frutto delle lotte passate, cancellare l’anomalia italiana dovuta alla presenza di un forte movimento operaio egemone nella società, rompere i meccanismi ideologici e culturali che fanno dei lavoratori una classe sociale. Non è un caso che la riforma del mercato del lavoro si accompagna alla riforma del sistema previdenziale, alla riforma della pubblica amministrazione, alla devastazione del tessuto industriale del paese, allo stravolgimento delle condizioni di vita e di lavoro, quando lo si trova.
Un nuovo sistema sociale che non conservi alcunché che faccia ricordare la stagione dei diritti e sottometta i lavoratori alla libertà di impresa nella sua accezione ottocentesca sul piano ideologico, alla competitività nell’ambito della globalizzazione con la fine degli stati nazionali e la creazione degli stati sovranazionali, l’Europa appunto. In questo modello non c’è posto per normative di garanzia per i lavoratori e quindi i contratti nazionali di categoria diventano un ostacolo da abbattere. La Fiat ha introdotto il contratto specifico come modello di sviluppo delle relazioni industriali, la giurisprudenza nazionale ed europea si sta già orientando pronunciandosi contro la validità dei ccnl contrapposta a quelli specifici. Il neoliberismo, utilizzato come grimaldello ideologico, riporta indietro l’orologio della storia, il sistema capitalistico torna alle origini in una condizione di crisi sistemica che lo rende pericoloso per il futuro dell’intera umanità.
Il centralismo del potere finanziario mondiale si ripropone nell’autoritarismo delle relazioni interne dei singoli governi etero gestiti a colpi di debito sovrano e spread, le sovranità nazionali si dissolvono di fronte alle politiche economiche e sociali dettate dalla gestione della crisi e dalla famelica invadenza del capitale finanziario. E’ successo nel nostro paese con i partiti politici ridotti a cavalieri serventi del governatore Monti e un sindacato di regime ridotto a praticare l’autoconcertazione, visto che la concertazione la fa da solo. Il gioco delle parti su chi debba dei due varare la riforma è pietoso, dopo lamentele sulle scelte pattizie che il sindacato ha rivendicato quando riteneva di poterne sopportare il peso, ora ci si rimette ad un atto legislativo di imperio. Tutto questo per consentire di nascondere le proprie responsabilità e, vantando ogni modifica di virgole già preconcordata, per rappresentare la sconfitta e l’arretramento sistematico come una vittoria o una conquista. Senza considerare che il ricorso alla decretazione d’urgenza sulla quale viene concordata la fiducia di fatto modifica già e profondamente la forma stato delegittimando un parlamento che non chiede altro.
Quali sono i principali ispiratori dell’attuale riforma del mercato del lavoro
I principi, sbandierati come salvifici per le nuove generazioni contro il conservatorismo delle precedenti sono riassumibili in : FLESSIBILITA’ IN ENTRATA, FLESSIBILITA’ IN USCITA E AMMORTIZZATORI SOCIALI TRA UN’USCITA ED UN’ENTRATA, si sono dimenticati di dire che tra l’entrata e l’uscita ci sono condizioni di vita e di lavoro insostenibili e a retribuzione ferma.
La flessibilità totale a cui sono sottoposti i giovani, per i quali, si dice, bisogna colpire i vecchi, ha determinato una disoccupazione giovanile del 31%, uno su tre, ma non è detto che gli altri due stiano meglio. Tutto questo in un settore sociale, quello giovanile appunto, che neanche conosce l’articolo 18, ma è questa la vera condizione del nuovo mercato del lavoro. La precarizzazione degli stabili non risolve la precarizzazione delle giovani generazioni, ma consente di distruggere forze produttive, mezzi di produzione e recuperare ricchezza. Perché è evidente che le scelte fatte portano dritti alla recessione utilizzata come arma di guerra per creare nuove condizioni di sviluppo capitalista, dopo aver distrutto l’esistente. La compressione dei consumi di cui non si parla neanche più, e ormai siamo alla rimozione dei bisogni primari, è lo specchio della nuova condizione dei lavoratori. Ad una condizione di povertà progressiva bastano consumi da poveri, è una forma di rieducazione sociale in previsione del futuro e la possibilità di una compressione salariale fino all’azzeramento. La sperimentazione di questo processo è portata avanti in Grecia con i risultati sociali che tutti possono vedere, un dato su tutti, 400.000 bambini su una popolazione di poco più di 4 milioni, sono in condizioni di povertà e sottoalimentati. È questa la vera politica dei giovani dell’attuale fase del capitale internazionale. Se nel nostro paese la ricchezza posseduta dai 10 più ricchi equivale al reddito di 3 milioni di poveri, è facile capire di cosa stiamo parlando.
Fressibilità in entrata
La flessibilità in entrata, nella riforma, si materializza nei famosi TRE ANNI DI PRECARIATO SENZA GARANZIE REALI DI STABILIZZAZIONE e nell’APPRENDISTATO come modalità di ingresso nel mondo del lavoro. Le garanzie di stabilizzazione per i precari non esistono, perché non vengono abolite pacchetto Treu e legge 30 e i famosi tre anni possono essere la somma di una miriade di contratti a tempo determinato, esattamente le stesse di ora. L’operazione è quella di fare del precariato una condizione sociale stabile, un esercito di riserva da utilizzare come elemento di devastazione del mercato del lavoro. L’elemento di garanzia per la stabilizzazione è propagandato con l’aumento della tassazione delle aziende che renderebbe meno conveniente l’assumere un precario rispetto ad uno stabile in prova permanente per tre anni. Le grida della CONFINDUSTRIA su questo aspetto sono comprensibili perché questa nuova presunta rigidità lo è in realtà solo per le piccole e medie imprese. Quella che è stata definita come la degenerazione delle riforme precedenti, con uno sviluppo del precariato abnorme e sostitutivo del lavoro stabile, in realtà era lo strumento attraverso il quale piccole e medie imprese, incapaci di sostenere competitività, recuperavano profitto. Negare questo strumento vuol dire spingere al fallimento quelle imprese incapaci di innovazione e di reggere il confronto internazionale, come l’ondata di fallimenti e chiusure sta a dimostrare. Questo perché nel nuovo apparato produttivo non c’è posto per imprese speculative e parassitarie e allora o sei in grado di de localizzare e quindi scappare all’estero, o muori. È un processo di progressiva pulizia e manutenzione dell’apparato produttivo. Le medie industrie che hanno capacità di tenuta e le grandi imprese non solo non temono questa nuova presunta rigidità, ma ne fanno lo strumento di governo di una nuova classo operaia.
Del lavoro sommerso neanche se ne parla, visto che il 37 % dei lavoratori si dedica al secondo lavoro per evidente sofferenza salariale, e il sommerso produce un valore pari al 35% del pil nazionale. Una componente strutturale dell’economia reale, destinata ad un incremento inevitabile, dovuto alla riforma e ai nuovi costi del precariato, che consente di produrre ricchezza destinata comunque a transitare dal mercato sommerso a quello legale. Esattamente come avviene con l’economia criminale che mette in circolo risorse finanziarie aggiuntive e non disdegnate dall’economia legale.
L’APPRENDISTATO, come via di accesso al lavoro, fa un ulteriore passo in avanti nella definizione della nuova classe operaia. La condizione di apprendista vanifica e cancella la formazione posseduta sia scolastica che lavorativa e con esse cancella l’identità del lavoratore rendendolo docile strumento, perché fortemente ricattato, nelle mani dell’impresa e succube della gerarchia datoriale.
Siamo di fatto alla negazione del valore legale del titolo di studio, non ancora formalizzata, ma già più volte preannunciata, e anche questo è un forte segnale di trasformazione. Il mancato riconoscimento della professionalità posseduta, a seguito del proprio personale percorso formativo, scolastico o lavorativo, distrugge la soggettività del lavoratore e lo rende permeabile, a forza, dei valori e delle modalità di produzione del proprio datore di lavoro. È un ulteriore passo verso il baratro, ricordiamo tutti l’enfasi della professionalizzazione degli anni passati in cui si sono professionalizzate intere categorie. Le lauree triennali introdotte come strumento formativo che doveva produrre tecnici laureati, destinati a sostituire le vecchie aristocrazie operaie costituite dagli operai specializzati, sono ormai una ricordo del passato. Non occorrono tecnici laureati perché nel nuovo apparato produttivo il “know how” non sta più nel singolo posto di lavoro ma nelle centrali progettuali delle multinazionali, la tecnologia produttiva lo applica senza la mediazione umana. Allora occorrono lavoratori totalmente subordinati alle macchine, senza conoscenze specifiche e senza professionalità, solo docili appendici della robotica.
Flessibilità in uscita
La logica è semplice, non può esserci libertà di impresa senza la libertà di licenziare, perché di questo di tratta quando parliamo di flessibilità in uscita. La difesa, più o meno convinta, dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ha sicuramente nascosto la reale portata dei processi di riforma contenuti nel disegno di legge. Tuttavia sull’articolo 18 si sta giocando una partita importante, non tanto per l’aspetto simbolico, quanto per lo spostamento ulteriore del potere contrattuale a favore delle imprese. È evidente che le modifiche dell’articolo 18 corrispondono al disarmo del lavoratore di fronte all’impresa che può scegliere le modalità di licenziamento, dal disciplinare, all’economico. La fluttuazione della possibilità di reintegro affidata al giudice, oltre ad aprire questioni di tipo legale, crea una vera e propria giungla giurisprudenziale, basta ricordare l’articolo 28 che sanziona il comportamento antisindacale. Le motivazioni economiche per il licenziamento, di difficile verifica da parte del giudice che dovrà entrare nel merito, pone a carico del lavoratore l’onere di dimostrare la non sussistenza. Come questo sia possibile è veramente difficile comprenderlo.
Le stesse dichiarazioni di Monti sul fatto che il reintegro riguarderà soltanto “fattispecie estreme e improbabili”la dice lunga sulla realtà che ci aspetta e ci fa capire come lo sbandieramento della conquista del reintegro da parte della Camusso si riferisca unicamente al reintegro della CGIL nel novero delle confederazioni istituzionali. Del resto se si estende l’applicazione del nuovo articolo 18 alle piccole imprese è sicuramente perché è stato edulcorato e disinnescato.
L’uscita improvvida del ministro della Funzione Pubblica sulla applicabilità dell’articolo 18 ai dipendenti pubblici, subito smentita dal governo per non creare ulteriore allarme sociale, apre uno spaccato di non poco conto.
Tutto il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è volutamente incentrato sul lavoratore della grande impresa e non tiene conto della nuova composizione del modo del lavoro che vede milioni di lavoratori che non sono meccanicamente sovrapponibili al lavoratore dell’industria. Una disamina approfondita della nuova composizione sociale del lavoro ci dovrà vedere sicuramente impegnati nell’analisi partendo da dati strutturali certi e concreti. Sull’applicabilità ai dipendenti pubblici dell’articolo 18 ci sembra che sia possibile considerando l’artico 51 del decreto legislativo 165 del 2001 che ne asserisce l’applicabilità dello statuto dei lavoratori al lavoro pubblico. Tale articolo richiama a sua volta l’artico 55 del precedente decreto legislativo 29 del 1993 che introduce la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico e l’aziendalizzazione della pubblica amministrazione. Ma non è un problema accademico, il licenziamento economico in una pubblica amministrazione alla quale si attribuiscono, oltre al deficit strutturale, 300.000 esuberi, è facile capire che effetto può avere. Il tentativo di tenere separati i dipendenti pubblici dai privati, e quelli dell’industria dagli altri creando una condizione in cui tutti stanno a guardare quello che succederà ai metalmeccanici, è una strategia comprensibile da parte del governo, non è comprensibile subirla da parte dei lavoratori. Per non parlare poi delle piccole imprese e delle imprese dei servizi che hanno già cominciato a licenziare perché non vogliono neanche il disagio dell’utilizzo del nuovo articolo 18 che dovrebbero applicare. Il segnale sulla libertà di licenziamento è passato nel corpo sociale, un ulteriore deterrente per i lavoratori.
Tra un uscita e un’improbabile entrata ci sono gli ammortizzatori sociali
La prima riflessione ch viene in mente è la singolarità dell’accostamento della parola sociale a quella di ammortizzatori che contiene al suo interno la parola morte. Rischia di diventare una premonizione tenebrosa. In realtà lo scimmiottamento della flexsecurity di qualche paese europeo è semplice fumo negli occhi di chi vuol farsi affumicare. La riforma degli ammortizzatori attuali ha anch’essa una serie di obiettivi di non poco conto. L’abolizione della CIG in deroga, erogata facendo ricorso al gettito fiscale consente di recuperare le risorse ad essa attribuita lanciando un segnale di resezione del rapporto tra il lavoratore e i proprio posto di lavoro. La cesura netta di ogni possibilità, anche la più remota di riavere il proprio posto di lavoro. La CIG è sicuramente vero che rappresenta un sostegno alle imprese, ma quella ordinaria e quella straordinaria se la pagano lavoratori e imprese, quella in deroga no. Tuttavia la CIG svolge un ruolo di sostegno al reddito e quindi alla sopravvivenza del lavoratore e non rescinde il rapporto di lavoro almeno nell’immediato. L’ASP di prossima istituzione diventa l’erogazione di un nuovo sussidio di povertà sia per la quantità economica, sia per la durata, sia per le modalità. Innanzitutto è diventata l’occasione per una nuova ondata di aumenti della tassazione indiretta con le conseguenze immaginabili sull’economia delle famiglie, e una nuova sforbiciata di tagli come quelli agli enti previdenziali che fa capire quale sia il futuro reale di questi istituti. La durata è irrisoria, l’ammontare è insufficiente, ma compie un’operazione importante, sposta la titolarità della tutela, se tutela si possono definire gli ammortizzatori sociali, dal posto di lavoro al lavoratore. Questo significa che si annulla il ruolo sociale del posto di lavoro, in linea con la riforma dell’articolo 41 della Costituzione che sancirà la piena e totale libertà di impresa, e il lavoratore è relegato da soggetto operante in un ciclo produttivo a mera forza lavoro senza identità e senza più appartenenza ad una categoria produttiva. Senza considerare che il percorso che si realizza da un uscita ad una nuova entrata passa sempre per una perdita di salario, diritti, professionalità e dignità, perché la fame di lavoro diventa predominante sui valori propri della classe.
Conclusioni
È evidente che non ci troviamo di fronte a semplici riforme strutturali, siamo davanti alla trasformazione di un intero sistema sociale, soggiogato alle centrali finanziarie internazionali, che impongono le nuove regole della competizione globale, all’interno di uno scontro tra aree produttive imperialiste senza esclusione di colpi. Le nostre analisi non possono essere episodiche e rincorrenti gli eventi, hanno bisogno di essere sistematizzate e articolate in una visione dei processi capace di darci una strategia di medio e, perché no, di lungo periodo.
I processi di trasformazione in atto stanno mettendo in evidenza le reali condizioni materiali che determinano l’appartenenza al mondo del lavoro subordinato di cui dobbiamo comprendere la nuova composizione.
Le condizioni oggettive di per sé non bastano a determinare una coscienza collettiva che consenta di costruire un progetto di ridefinizione dei rapporti sociali, tuttavia è innegabile che determinino nei fatti nuovi blocchi sociali, se non altro per espulsione dalla divisione della ricchezza sociale.
La questione della soggettività è un elemento centrale di ogni strategia che voglia esprimersi su un progetto complessivo di modello sociale alternativo, perché ormai siamo di fronte alla necessità di un’alternatività tra modelli incompatibili che deve diventare pratica sociale e politica. Oggi scontiamo il disarmo ideologico, politico e organizzativo che la sinistra parlamentare e il sindacato concertativo hanno costruito in tutti questi anni. Questo ha trasformato la subordinazione lavorativa al modello produttivo in sottomissione e identificazione con la cultura dominante fino a trascendere nello scimmiottamento del modello di vita dei ricchi producendo ulteriore indebitamento e schiavitù fiananziaria.
Una condizione complessiva che può diventare il substrato della destra che egemonizza i settori sociali in difficoltà, come la stroria insegna. Puntare a riprendersi l’egemonia in un processo di ricomposizione sociale del lavoro subordinato intorno al quale aggregare un nuovo blocco sociale rideterminato dalla crisi nella sua condizione oggettiva e egemonizzato nella sua condizione soggettiva dalla lotta per un nuovo modello di sviluppo.
L’impoverimento dei lavoratori subordinati, con l’inevitabile ricaduta sociale, la distruzione del ceto medio e il processo di proletarizzazione a cui è violentemente sottoposto, la condizione giovanile e la ridefinizione delle condizioni di lavoro per chi lo conserva, sono gli elementi sui quali la nostra analisi deve orientarsi. La stessa difficoltà a nascere di movimenti di lotta, come li abbiamo conosciuti negli anni 70, dimostra quanto sia profonda la subordinazione sociale di una classe che deve ricostruire la coscienza di sé e ridefinire il proprio futuro.
Assistiamo però a fenomeni nuovi che assumono l’aspetto della ribellione di categorie sociali non assimilabili direttamente ai movinenti sociali. Se in assenza di movimenti di lotta è l’organizzazione che deve dare l’impulso a manifestarsi dobbiamo avere la capacità di percepire per tempo quanto avviene nel corpo sociale senza rimanere sorpresi dagli eventi e aspettare il movimento di lotta perfetto che rischiamo di non vedere mai.
Avere una strategia alternativa è la garanzia per confrontarsi con i movimenti in atto o attivarne di nuovi. La comprensione di fenomeni è il primo passaggio per la costruzione di strategie alternative. Sul piano sociale e sindacale abbiamo una condizione di progressivo vuoto di contenuti sicuramente e di forme di rappresentanza probabilmente. CGIL, CISL, UIL hanno difficoltà a liberarsi delle modalità costruite nell’ambito della concertazione che non viene più praticata dal governo, anche se una parte della CONFINDUSTRIA non la disdegnerebbe, come dimostra il rapporto difficile che ha avuto con Marchionne. Contestualmente CGIL CISL UIL hanno difficoltà a ridefinire il proprio ruolo in veste di agenzie per le imprese perché comunque ingombrano un mercato che ha sempre meno bisogno di intermediari, soprattutto se questi sottraggono risorse economiche al profitto.
La strategia che hanno adottato è quella di ridurre il danno di immagine per il loro ruolo e occupare la scena per mantenere un consenso sociale da svendere al governo e alle imprese. Ma cosa dovevamo aspettarci che si ritirassero in buon ordine lasciandoci il campo libero per la nostra iniziativa.
La difesa dell’articolo 18 giocando sulle parole e sulle virgole è un ulteriore grande inganno che non va confuso con la disponibilità dei lavoratori a scendere in piazza in difesa di una condizione contrattuale e di civiltà. La funzione dei vertici della FIOM, che abbaia alla luna ma non esce dal recinto, è quella del contenimento della spinta operaia sfiancando i lavoratori per poi riproporre loro come conquista l’ennesimo arretramento.
Sul piano politico c’è il rischio reale del default della rappresentanza politica con l’indebolimento, se non la scomparsa, degli attuali partiti creando una condizione di pericoloso vuoto capace di mettere in pericolo la residuale forma di democrazia, schiacciata com’è dal governo dei tecnici della troika.
Coscienti di una inevitabile debacle elettorale i partiti ondeggiano tra il salvare il salvabile nella relazione col blocco sociale storico e predisporsi per diventare la rappresentanza politica di un nuovo blocco sociale in fieri, apparentemente tecnocratico, in realtà ferocemente aggrappato ad un nuovo modello di sviluppo, qualunque esso sia, purché garantisca una condizione sociale diversa da quella dei lavoratori dipendenti. È su questo versante che passa il confine di classe nella fase attuale e si aprono spazi di protagonismo politico progettuale che non possiamo ignorare.
La prospettiva è quella di una condizione oggettiva che impone un salto di qualità costringendoci ad uscire dalla riserva indiana in cui è stata costretta l’opposizione sociale in questo paese. La costruzione della soggettività capace di dare forma politica e sindacale alle condizioni oggettive deve diventare il nostro impegno per il prossimo futuro.