Redazione Contropiano (in Contropiano anno 21 n°1 – maggio 2012)
Come marxisti dobbiamo valutare attentamente quali sono gli effettivi margini di autonomia all’interno dei materiali processi storici che determinano una logica, una razionalità e, quindi, una necessità. È in questo senso che interpretiamo la dialettica tra razionalità e realtà. Per cui se “il capitalismo sta alla guerra come le nuvole stanno alla pioggia”, bisogna porre attenzione a quali variabili della storia possono determinare le ‘precipitazioni’ della guerra, dal momento che non tutte le nuvole sono allo stesso modo cariche di pioggia.
Da subito, riflettendo su Epicuro e Democrito, Marx aveva mostrato il legame stretto tra possibilità e necessità. Un serio approccio scientifico ci mette in guardia dunque, dal cercare di scoprire presunti segreti del profondo e c’indirizza, invece, verso la formulazione di tesi da sottoporre a verifica.
La crisi del Modo di Produzione Capitalistico non ci ha colto di sorpresa; è stata prevista perché prevedibile essendo (per noi) il frutto della logica dello sviluppo stesso del capitalismo. Crisi che affonda le sue radici nella metà degli anni Settanta e che diventa evidente con la crisi finanziaria ma non derivando da questa.
Il piano inclinato del capitale lo abbiamo, più volte, definito: che il capitalismo non si fondi sull’equilibrio ma sulla contraddizione insanabile tra capitale e lavoro è patrimonio talmente consolidato che lo stesso pensiero borghese della classe dominante si è attrezzato (da tempo) per fare introiettare all’avversario di classe le parole d’ordine che gli servono per combattere la sua battaglia anche sul piano della teoria. D’altra parte, la sola inclinazione del piano non determina il necessario crollo del capitale.
Che tutto questo non potesse che avere chiari riflessi anche nella politica del nostro paese era chiaro. Già nell’autunno di due anni fa, i crescenti contrasti nella maggioranza del governo Berlusconi non potevano considerarsi solo il sintomo di contrasti politici interni all’esecutivo ma, soprattutto, l’evidente manifestazione di una profonda crisi di prospettive della borghesia italiana.
Le contraddizioni interne, l’ingerenza sistematica dell’Unione Europea sulle scelte dei singoli stati e la crisi economica internazionale, ci portarono a definire Berlusconi una Tigre di carta. Fu una chiave di lettura in netta controtendenza rispetto a chi voleva fare dell’antiberlusconismo il cemento di un’opposizione sempre più annacquata nei suoi contenuti e sempre meno aderente a una seria e rigorosa analisi di classe dei processi economici e delle prospettive politiche.
Allo stesso modo (cioè grazie all’applicazione della famosa cassetta degli attrezzi) siamo riusciti a scorgere, tra le maglie ingarbugliate del nuovo mondo che nasceva dopo l’89, la diversa fisionomia che l’Europa provava a ritagliarsi su misura. La sconfitta dell’URSS aveva, infatti, comportato il venir meno di un equilibrio forse ormai sclerotizzato (ma potenzialmente progressivo) e anche l’insorgere di vari conflitti, localistici prima e, poi, sempre più generali. In questa nuova mappatura politica, il vecchio continente ha visto allentare la novecentesca ipoteca statunitense che gravava su di esso e come nuovo polo imperialistico ha cercato di fronteggiare i primi effetti conclamati della crisi sia sul piano politico sia su quello economico. Oggi che L’Europa dell’Unione da una parte accelera la sua costruzione politica – reprimendo qualunque opzione alternativa – e dall’altra impone i propri voleri controriformistici all’interno di una ben precisa gerarchia interna, appare chiaro quanto sia stato dannoso, per i comunisti e per i lavoratori, gettare il bambino con l’acqua sporca.
Lo scenario di oggi, riguardo al Mediterraneo, conferma inoltre che la crisi economica ha reso cruciale il controllo politico ed economico di un’area vasta, ricca di risorse, militarmente e commercialmente strategica, in cui non c’è spazio né per le richieste di democrazia, né per quelle di giustizia sociale che si oppongono ai desiderata del FMI.
La storia ci deve aiutare. Intorno al 1930 le menti più aperte cominciarono ad avvertire e denunciare il prossimo, ineluttabile ritorno della catastrofe mondiale. Questo avvertimento fu possibile non solo come bagaglio d’esperienza ereditato dalla Grande guerra; il carattere imperialistico della guerra, la sua genesi nelle fasi di evoluzione o ristrutturazione del Modo di Produzione Capitalista, infatti, non rendevano la prima guerra mondiale un fatto a sé stante.
Chi è cresciuto, formandosi negli anni della coesistenza pacifica, ha dovuto fare i conti con la contraddizione tra l’impressione di un’Europa sempre al riparo dai conflitti militari e l’esplosione di questi in contemporanea con la caduta del muro di Berlino e la crisi dell’Urss.
Ricapitolare, anche schematicamente, i conflitti del XXI secolo (dalle guerre asimmetriche all’escalation successiva) è utile, oggi più che mai.
Panama 1989
A Panama viene inaugurato il primo intervento di guerra asimmetrica. Il 20 dicembre 1989 un corpo di soldati americani occupò la capitale panamense, dopo un violento bombardamento aereo dei quartieri poveri della città. Dopo alcuni giorni di scontri, Noriega, che si era rifugiato nella rappresentanza diplomatica del Vaticano, si arrese e fu sostituito da Endara, uomo degli Usa.
L’“Operazione Giusta Causa” venne minimizzata nei suoi “effetti collaterali”: in realtà, secondo fonti della Chiesa cattolica, è probabile che i morti panamensi siano stati un migliaio, soprattutto civili mentre solo 24 furono i soldati americani caduti durante l’invasione. L’attacco a Panama, la complicità di tutti i paesi occidentali (inclusa l’Italia di Andreotti) e la flebilissima reazione dell’Urss di Gorbaciov furono il segnale che i rapporti di forza internazionali stavano cambiando e che gli Usa potevano ormai godere della piena agibilità negli interventi militari all’estero.
Due anni dopo toccò all’Iraq diventare il bersaglio della prima guerra in grande stile – anche se fortemente asimmetrica – della nuova fase storica.
Iraq 1991
Il 25 luglio 1990, il presidente iracheno Saddam Hussein riceve l’ambasciatrice americana a Bagdad, April Gaspie, e accenna alla possibilità di una invasione del Kuwait che avverrà il 17 agosto del 1991. Secondo la versione fornita dal Governo di Baghdad la diplomatica americana avrebbe garantito la neutralità degli USA di fronte a un simile evento. Glaspie dirà poi che Saddam Hussein aveva mal interpretato le sue parole ma molti osservatori non ritengono poi così strano che gli USA fossero disposti a favorire quello che, fino a quel momento, era stato uno dei loro maggiori alleati nella regione contro la Repubblica islamica dell’Iran. In ogni modo, sia che Saddam Hussein abbia volutamente forzato le parole dell’ambasciatrice americana, sia che questa abbia erroneamente interpretato la volontà del suo Governo, sia infine che quelle parole siano state effettivamente pronunciate, il risultato fu di attirare il leader iracheno in una trappola e dare così agli USA l’opportunità di intervenire con una operazione su vasta scala contro un ex alleato che stava diventando troppo ingombrante e per mettere stabilmente una loro presenza militare in una regione strategica come il Golfo. Anche in questo caso le reazioni dell’Urss di Gorbaciov – ormai avviata alla dissoluzione – furono insignificanti e spianarono ampiamente la strada al massiccio intervento militare Usa.
L’Italia parteciperà attivamente ai bombardamenti contro l’Iraq. La figuraccia rimediata da alcuni piloti italiani che furono tra i pochi ad essere abbattuti dalla contraerea irachena, non assolve l’Italia dall’aver partecipato a questa aggressione concepita e gestita dagli Stati Uniti.
Somalia 1992-1993
Nel dicembre del 1992, il presidente degli Stati Uniti uscente, George Bush padre, inviò 30mila soldati in Somalia nel quadro della operazione “Restore Hope” formalmente delle Nazioni Unite in Somalia. Il paese si trovava in piena guerra civile da un anno, dopo che era stato rovesciata la dittatura militare di Siad Barre (prima legato all’Urss poi entrato nell’orbita statunitense grazie alle operazioni dell’Italia craxiana).
Questi tentò di rientrare nel paese ma le milizie di Mohammad Farrah Aidid lo costrinsero a ritirarsi prima in Kenya e poi in Nigeria dove morì nel 1995. Le prime truppe statunitensi della Unified Task Force (UNITAF) sbarcarono a Mogadiscio all’inizio del dicembre 1992. Alcune settimane dopo arrivarono contingenti di altri 21paesi tra cui quelle italiane che si macchiarono di alcuni crimini contro la popolazione somala. Nel maggio del 1993, quattro mesi dopo essere diventato il nuovo presidente americano, Bill Clinton ritenne che le truppe avessero ormai portato a termine il loro compito e così annunciò il ritiro di gran parte dei militari ma sempre nel 1993 lo stesso Clinton lanciò una nuova missione militare in Somalia.
Inviò i Rangers e altre unità speciali per catturare il signore della guerra Adid. Ma il 3 ottobre 1993, durante una missione per catturare Aidid, due elicotteri Black Hawk furono abbattuti e nella battaglia che ne seguì con i miliziani furono uccisi 18 soldati americani (dei corpi speciali dei Rangers) e altri 73 furono feriti. Oltre 200 civili somali persero la vita e altri 700 furono feriti. L’incidente spinse il presidente Clinton a cercare una soluzione politica e non più militare per la crisi somala.
Anche l’Onu ritirò il mandato di cattura nei confronti di Aydid e riprese le trattative.
Jugoslavia 1992-1999
Nei Balcani si è giocata una partita fondamentale e propedeutica per le relazioni internazionali del XXI Secolo. La disgregazione della Repubblica Jugoslava ha molti colpevoli. In questo caso a giocare sporco e in anticipo sugli Stati Uniti sarà la Germania di Helmut Khol che riconosce, alla fine del 1991, la secessione di Slovenia e Croazia mettendo di fronte al fatto compiuto sia l’Unione Europea che gli Usa. La guerra che divamperà prima tra la secessionista Croazia, la Serbia e le comunità serbe nella Krajina, poi tra la secessionista Bosnia, la Serbia e la comunità serba in Bosnia, poi di nuovo in Croazia con l’operazione Tempesta sostenuta dai consiglieri militari Usa e che porterà all’espulsione dei serbi dalla Krajina, ancora con la secessione della Macedonia ed infine con quella del Kosovo. Quest’ultima – come in Bosnia – vedrà il protagonismo diretto della Nato con feroci e sanguinosi bombardamenti sulla Serbia. Gli Usa guideranno l’escalation ma tutti i paesi dell’Unione Europea (Germania, Francia, Italia) decideranno di partecipare attivamente ai bombardamenti e alle operazioni militari per non lasciare tutta l’iniziativa agli Stati Uniti. Per l’Italia guidata da D’Alema a capo di un governo di centro-sinistra, con alcuni ministri e sottosegretari del PdCI, quella in Jugoslavia resta una delle pagine più vergognose della storia del movimento comunista in Italia. La guerra del 1999 contro la Jugoslavia rimane, a nostro avviso, paradigmatica della nuova fase storica caratterizzata da una tendenziale competizione globale tra i vari poli imperialisti che va a sostituire la concertazione – con gli Usa in posizione predominante – sulla quale si erano rette le relazioni trilaterali tra i paesi a capitalismo avanzato. Le valutazioni della Rete dei Comunisti sulla guerra in Jugoslavia meritano di essere riproposte così come furono espresse nel 1999 in un documento pubblico.
“Questa guerra non è stata innescata da motivi “umanitari”. Su questo almeno non è ammissibile alcun dubbio. Piuttosto è urgente comprendere e mobilitarsi sulle cause reali della guerra scatenata dalla NATO sul territorio della Jugoslavia.
1. Gli Stati Uniti hanno dimostrato con i fatti più che con le parole, che non intendono rinunciare al controllo dell’Europa nella sua dimensione più ampia ovvero quella che include tutta la regione centrale ed orientale. La NATO, come sostiene esplicitamente Brzezinski, è lo strumento di tale controllo.
Le modifiche in senso offensivo delle sue funzioni sono una necessità inscindibile del nesso tra esigenze degli Stati Uniti e ruolo “globale” della nuova NATO.
2. In secondo luogo la realizzazione dell’Unione Europea e dell’unione monetaria hanno introdotto nella relazioni internazionali un fattore oggettivo (per ora) di competizione con l’egemonia mondiale dell’economia statunitense. Con essa non sono più compatibili una nuova valuta alternativa al dollaro ed un polo europeo forte. Questo fattore – secondo alcuni uomini dell’establishment USA come l’economista Martin Feldstein o come l’ex cancelliere tedesco Khol – avrebbe portato alla guerra all’interno dell’Europa (e già ci siamo) e tra Europa e Stati Uniti.
3. In terzo luogo è diventata una priorità per gli Stati Uniti quella di recidere ogni residuo di influenza della Russia sulle repubbliche dell’ex URSS e dell’Europa Orientale. In queste regioni, gli interessi economici sul petrolio, il gas, le direttrici degli oleodotti che vengono dall’area del Caspio, si connettono strategicamente con gli interessi geopolitici di controllo dei punti vitali di tutta l’area : i Balcani, storicamente, ne rappresentano uno determinante.
La Jugoslavia è diventata così il terreno di sperimentazione dei nuovi rapporti di forza nelle relazioni internazionali di questo fine secolo. La solidità dell’Alleanza Atlantica appare del tutto congiunturale e la costruzione/demonizzazione del nemico (serbo in questo caso) è funzionale a tale congiuntura.
4. La realtà dei processi in atto da almeno due decenni, rivela a questa umanità che l’epoca della concertazione internazionale è in via di superamento e che le contraddizioni del modo di produzione capitalistico – accentuate e non più mediate proprio dalla globalizzazione imperialista – si stanno avviando verso le rotture drammatiche che il XX Secolo ha già conosciuto. In tal senso appare quasi profetico il realismo con cui Hobsbawn afferma che il “XX Secolo – il “secolo breve” – si chiude così come era cominciato”. E’ curioso quanto grave, che sia proprio la sinistra a non comprenderlo.
Anzi, per paradosso sono proprio i governi della sinistra europea ad aver trascinato l’Europa nel conflitto e ad alimentare le ambizioni alla costituzione di un polo imperialista europeo, senza valutare le conseguenze nei rapporti con il polo imperialista statunitense. Gli Stati Uniti hanno voluto e portato la guerra alle “porte dell’ Europa” con il preciso scopo di indebolire il suo principale competitore.
5. Se dunque ci sorprende relativamente che il governo D’Alema si sia calzato l’elmetto e abbia trascinato l’Italia nella guerra contro la Federazione Jugoslava, ci sorprende più negativamente la totale sottovalutazione di questa “mutazione genetica” della struttura dell’Unione Europea e dell’Italia (in struttura imperialista) espressa ad esempio dalla relazione di Fausto Bertinotti al congresso del PRC.
Di più, non c’è solo sottovalutazione ma una valutazione inadeguata delle conseguenze dell’integrazione dell’Italia nel polo imperialista europeo. Da questo deriva una ambiguità non più credibile nelle relazioni con le forze del centro-sinistra nel quale il ruolo di Cossutta e dei Comunisti Italiani rivela un opportunismo ogni giorno più screditato e reso inefficace dai fatti. Confondere o ridurre ancora l’imperialismo all’immagine dei bombardieri o degli “yankees” e non valutarlo come uno stadio dell’economia ampiamente raggiunto anche dai paesi dell’Unione Europea, significa lasciare la sinistra del tutto impreparata ad affrontare questa guerra in Jugoslavia e le altre che verranno”.
2001 Afghanistan
Come la Rete dei Comunisti o le pubblicazioni di Contropiano hanno più volte segnalato, sin dal 1993 – con l’Urss definitivamente fuori gioco – era iniziata la grande marcia di avvicinamento degli USA al controllo dell’Eurasia. Per dare un ritmo sostenuto a questa marcia, alla fine del 1997, il Congresso USA aveva discusso il “Silk Road Strategy Act” (Documento strategico per la “Via della Seta”). Il primo obiettivo del documento era quello di recidere le relazioni tra le repubbliche asiatiche della ex URSS e la Russia. Il secondo era quello di riannodare il filo del dialogo con l’Iran approfittando di eventuali divisioni tra “riformisti” e “conservatori” come suggerito in un articolo di Foreign Affairs del maggio/giugno 1997 scritto a sei mani proprio da Brzezinski insieme a Scowcroft e Murphy e da un documento curato nel 1998 dal viceministro della Difesa dell’amministrazione Bush, il falco Wolfowitz. Il terzo era quello di installare basi militari permanenti negli snodi strategici della regione. A tale scopo doveva essere utilizzata l’estensione della NATO ai paesi dell’Est (inclusi Georgia e Azerbaijan). Ma nel versante orientale non esisteva fino all’ottobre 2001 nulla di paragonabile alla NATO, ragione per cui gli Stati Uniti hanno ritenuto di dover operare direttamente sul campo e dotarsi delle strutture necessarie: “La densità dell’infrastruttura fissa e mobile degli Stati Uniti è minore che in altre regioni cruciali. Ciò rende importante assicurare agli Stati Uniti ulteriori accessi alle regione e sviluppare sistemi capaci di effettuare operazioni impegnative a grandi distanze con un minimo supporto basato sul teatro di operazioni” ammetteva la “Military Review”, una importante pubblicazione strategica americana. Il progetto di costruzione di basi militari statunitensi in Afganistan, Uzbekistan e Pakistan, corrisponde pienamente ai disegni strategici USA in Asia Centrale. Anche qui, una volta diradato il polverone della guerra e dell’emergenza, resteranno così come è accaduto nel Golfo e nei Balcani, delle basi militari permanenti degli Stati Uniti.
L’amministrazione USA, prendendo a pretesto gli attentati di Al Qaida alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, decise dunque di dare una “spallata” per entrare decisamente in campo nella regione. L’Afganistan è stata la prima sperimentazione diretta degli USA per arrivare ad inserirsi in modo permanente nel “cuore” dell’Eurasia. L’ ammissione dell’allora segretario alla Difesa Rumsfeld sull’obiettivo della costruzione di una base militare in Afganistan conferma tale chiave di lettura. Anche alla fine della guerra del Golfo, una volta diradata la polvere della guerra, sono rimaste nell’area – dove prima non c’erano – tre grandi basi militari: in Arabia Saudita, in Kuwait e in Oman, così come Camp Bondsteel in Kossovo. E proprio la base di Camp Bondsteel nei Balcani e quella di Camp Rhino in Afganistan vorrebbero rappresentare le due “fortezze” estreme per il controllo del Grande Corridoio nr. 8, un corridoio che corre da Est a Ovest seguendo la “Via della Seta”. È evidente come gli Stati Uniti se intendono cercare di mantenere la loro egemonia mondiale non possono che intervenire stabilmente nella regione eurasiatica. In questa area tutti i rischi indicati con largo anticipo dal Rapporto Wolfowitz nel 1992 e poi nel 1997 da Brzezinski ne “La Grande Scacchiera”, si stavano presentando tutti: emersione di potenze rivali in competizione con gli USA, perdurante assenza dallo scacchiere eurasiatico, fallimento del progetto di tagliare fuori dalle rotte strategiche Russia, Iran e Cina. Anche in questa guerra l’Italia ha partecipato e partecipa attivamente con i propri soldati all’occupazione e al massacro della popolazione e dei ribelli afgani nel quadro della missione Nato. Su questa guerra, la Rete dei Comunisti ha prodotto un quaderno di Contropiano che mantiene una straordinaria attualità di analisi: “La Belle Epoque è finita”.
Iraq 2003
La guerra scatenata dagli USA contro l’Iraq non si sottrae all’impressione di essere in realtà un segnale destinato a pesare nelle relazioni tra Stati Uniti ed Europa. Germania e Francia si schiereranno infatti contro l’intervento militare in Iraq, cosa che non avevano fatto in Jugoslavia né in Afghanistan. Dal dopoguerra a oggi, gli USA sono ricorsi sistematicamente al fattore militare nelle relazioni internazionali ogni volta che hanno ritenuto minacciata la loro leadership mondiale da parte dei “nemici” ma anche da parte degli “alleati”.
Lo scenario che ha visto dividersi tra loro le potenze “alleate” nei cinquanta anni di guerra fredda e coordinate nella concertazione “trilaterale”, indica chiaramente come si stia esaurendo sia il ciclo storico del dopoguerra sia la fase della globalizzazione neoliberista. Una serie di fattori storici, economici, politici realizzatisi a cavallo tra il XX e il XXI Secolo, hanno contribuito a mutare sensibilmente le relazioni internazionali. Gli USA non volevano la nascita dell’Euro come valuta capace di pesare nell’economia mondiale. Nei decenni trascorsi gli Stati Uniti hanno sostenuto ampiamente l’idea di un mercato unico europeo in quanto compatibile con i propri interessi, ma oggi temono l’unità monetaria e politica europea perché questo – obiettivamente – riduce il peso dell’egemonia americana sul mondo. Tantomeno possono tollerare uno sganciamento dell’Europa sul piano della difesa militare, uno sganciamento che non metterebbe solo in crisi la NATO ma anche la supremazia strategica e tecnologica degli stessi Stati Uniti.
Fino ad oggi la centralità del dollaro nel controllo dei flussi finanziari è stato il carattere prevalente del sistema che ha retto l’economia mondiale dagli accordi di Bretton Woods in poi. Questa centralità è ora destinata a finire e a cedere spazio a un sistema sicuramente (o almeno) bipolare, dove gli Stati Uniti e l’Europa dovranno trovare un nuovo punto di equilibrio o di conflitto attraverso la competizione.
In una intervista a “US News and World Report”, l’ex Segretario di Stato americano Albright aveva sostenuto che “i nuovi raggruppamenti economici (e monetari) sono, per il prossimo secolo, l’equivalente delle alleanze militari del passato” . Dunque, se è vera l’analisi di Madeleine Albright, Stati Uniti ed Europa non fanno più parte della stessa alleanza militare. E quanto sta accadendo nella NATO e nella competizione tra il progetto di un Esercito europeo e la forza di reazione NATO proposta da USA e Gran Bretagna nel vertice di Praga, conferma che la divaricazione strategica tra Stati Uniti ed Europa è destinata a crescere, anche nella gestione della stabilità e degli interessi materiali in una regione vitale come il Medio Oriente.
In tal senso, il “Nuovo Secolo Americano” decretato da Wolfowitz, Rumsfeld e c. non può che cercare di nascere sulle macerie e il sangue dei propri competitori strategici.
La guerra nel Caucaso, 2008
Nella drammatica guerra riapertasi il 2008 nel Caucaso tra le Georgia (legata agli Usa e alla Nato) e le piccole repubbliche secessioniste dell’Osssezia e dell’Abkhazia (legate alla Russia) è apparso evidente come la posta in gioco non siano più solo gli oleodotti e le rotte delle risorse energetiche tra Asia ed Europa. I tracciati delle pipelines che portano gas e petrolio dall’est verso il cuore dell’Europa, ne sono stati il motivo scatenante, ma, nel tempo, a queste contraddizioni si sono accumulati i nuovi squilibri e riequilibri nei rapporti di forza a livello mondiale. In tal senso, il multilateralismo, invocato come soluzione di tali squilibri, si sta rivelando più conflittuale di quanto lo fosse stato il bipolarismo USA-URSS prima e l’unilateralismo USA poi. Sono in molti a chiedersi le ragioni per cui un fantoccio USA come il presidente della Georgia abbia ritenuto di poter scatenare una offensiva militare contro la piccola Ossetia del sud legata alla Russia ed in cui erano presenti centinaia di soldati russi in funzione di peacekeeper sulla base di un accordo internazionale. La Georgia è un vassallo totalmente dipendente dagli USA. Da essi ( e da Israele, come è emerso) dipende economicamente, politicamente, militarmente. Dunque gli USA non potevano non sapere le intenzioni di Saakashvili. L’avventurismo militare di Saakashvili, indotto e coperto dalle complicità USA (ma anche di parte dell’Unione Europea) ha aperto così una nuova fase dello scontro globale tra gli Stati Uniti verso Russia e Cina.
Ed erano non pochi in questi anni ad indicare come il terreno di questo scontro non potevano che essere i territori cerniera tra Europa ed Asia centrale. Uno degli obiettivi strategici degli USA dopo la dissoluzione dell’URSS, era quello di impedire che potesse nuovamente emergere una “potenza rivale”. A tale scopo hanno allargato la NATO a est fino ai confini della Russia e avviato un’offensiva a vasta scala in tutto lo scenario eurasiatico fatta anche di accordi militari come il GUUAM (Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbijan, Moldavia) e interventi bellici come in Afghanistan, in funzione apertamente antirussa e anticinese.Di fronte al fallimento del GUUAM per la defezione di alcuni stati e la controffensiva russa nell’area, gli USA hanno giocato direttamente la carta dell’ingresso nella NATO di Ucraina e Georgia ma si erano trovati di fronte alla riluttanza e all’opposizione delle potenze europee aderenti alla NATO. In questo guerra, i governi europei si sono rivelati più lungimiranti della Casa Bianca, perchè se la Georgia fosse entrata nella NATO, le truppe e gli aerei dell’alleanza sarebbero dovute intervenire in Georgia al fianco di un presidente avventurista in quella che è stata la più pericolosa guerra di questa fase della storia del XXI Secolo.
Libia 2011
In Libia, invece, poco più di cent’anni dopo, si deve parlare di democrazia o di nuovo colonialismo? Questione centrale nel nostro discorso; anche perché è l’ultima guerra che possiamo ancora raccontare e che può confermare la tendenza. Avanziamo subito una risposta che al tempo stesso è un’ipotesi: democrazia e colonialismo.
Comprendiamo meglio, cioè, la dialettica del reale se sostituiamo la congiunzione alla disgiunzione. La nozione di democrazia, così spesso evocata, sfugge a una determinazione precisa. Riemerge, dunque, l’antico quesito della definizione: che cosa è democrazia? Appare evidente che il patrimonio di storia delle idee che possediamo ci fornisce diversi modelli di democrazia (e anche modi diversi di attuazione dei medesimi modelli); eppure è altrettanto evidente che nel nostro mondo (all’interno, cioè, di quella parte di mondo in cui è nata la rivoluzione atlantica o occidentale) si è affermata in posizione dominante una ben precisa idea di democrazia.
Quest’idea di democrazia che si è via via affermata come dominante è quella della gloriosa rivoluzione inglese o quella borghese e liberale di una parte della Rivoluzione dell’89 e mai, s’intenda, quella popolare dei Diggers e dei Levellers inglesi o, in Francia, dei Giacobini prima e del Manifesto di Bebeuf e Buonarroti dopo. La nozione dominante di democrazia, proprio perché borghese e liberale, non è mai stata antitetica al colonialismo. Anzi: non era, al contrario, il giacobino Robespierre (sul quale si può pure dir tutto ma non che non fosse un sincero rivoluzionario) a sostenere, proprio contro chi difendeva quell’idea di democrazia, che non si dovesse far la guerra proprio per non distrarre le masse popolari dalla difesa della Rivoluzione? Molto spesso, quindi, le ideologie ereditate da questa parziale nozione di democrazia, cui si accennava prima e che dominano ancora oggi le nostre società, hanno rappresentato un puntello della missione civilizzatrice che ha legittimato gli appetiti coloniali.
Quando, ad esempio, nel 1920 la Società delle Nazioni attribuiva alla Gran Bretagna un Mandato sull’Iraq, lo faceva in nome dei principi espressi nei Quattordici punti del presidente statunitense Wilson. Diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla sovranità ne erano le parole chiave: allora come oggi. E l’Italia liberale, con tutta la conseguente responsabilità che ne deriva (come anche col fascismo che altri, poi, copiarono), fu apripista di questo nuovo corso del colonialismo europeo con l’intervento in Libia del 1911. Voluto dalla borghesia industriale e finanziaria, l’impegno bellico era ideologicamente sostenuto anche presentandosi come lotta di liberazione dai dominatori turchi; allo stesso modo di quando, mentre la Grande guerra era ancora in corso e l’armata britannica occupava Baghdad (mettendo fine a quattro secoli di dominazione ottomana) il generale Maude, a marzo del 1917, poteva proclamare: “Le nostre operazioni militari hanno come obiettivo di vincere il nemico e scacciarlo da questi territori. Per portare a buon fine questo compito, sono stato investito di autorità assoluta e suprema su tutte le regioni in cui operano le forze britanniche, ma i nostri eserciti non sono venuti nelle vostre città e nelle vostre campagne come conquistatori o come nemici ma come liberatori”. A gennaio del 1918 sono poi enunciati i Quattordici punti di Wilson e, l’8 novembre dello stesso anno, in una Dichiarazione franco-britannica si può leggere: “Lo scopo che perseguono la Francia e la Gran Bretagna con il loro impegno in Oriente nella guerra, nefasto risultato delle ambizioni tedesche, è la liberazione completa e definitiva dei popoli da tanto tempo oppressi dai turchi e l’istituzione di governi nazionali e di amministrazioni locali che poggino la propria autorità sull’iniziativa e la libera scelta delle popolazioni autoctone […]. Lungi dal voler imporre una forma particolare di istituzione su questi territori, esse non hanno altro scopo che assicurare, con il loro appoggio e la loro effettiva assistenza, il normale funzionamento dei governi e delle amministrazioni che i loro abitanti avranno adottato di loro volontà”.
Peccato che sotto gli auspici di Churcill nel 1921 i britannici insediarono lì la monarchia hashemita, concepita sul modello europeo di stato-nazione, facendo diventare lo stato iracheno una monarchia araba costituzionale e che, il movimento nazionalista dei Giovani turchi di Mustafà Kemal (Atatürk), con il vessillo ideologico della modernizzazione e della occidentalizzazione, s’impone nella stessa Turchia dopo la sconfitta dell’Impero ottomano.
La Libia, colonia italiana fino al 1943, ottenne l’indipendenza dopo la conquista degli alleati costituendosi in uno Stato federale monarchico (Tripolitania, Cirenaica, Fezza) sotto la guida filoccidentale di re Idris. Eppure, il crollo dei grandi imperi coloniali europei fu uno degli eventi più rilevanti del dopoguerra: nel giro di alcuni decenni, dal 1945 alla fine degli anni Sessanta, l’Europa perse la propria posizione privilegiata di centro del mondo che si era garantita in quattro secoli. Un quarto della popolazione mondiale acquista un’indipendenza effettiva e contribuisce in maniera significativa a far mutare l’intero sistema dei rapporti internazionali. Ed è in questo contesto, nel quale le dinamiche di difesa degli interessi nazionali degli stati giocano un ruolo fondamentale e indipendente dalla loro soggettività anticapitalista, che si colloca il colpo di stato con cui, nel 1969, Gheddafi depone re Idris perché subalterno alle politiche economiche delle potenze occidentali. La Libia, infatti, rivestiva un ruolo strategico sia dal punto di vista militare che economico dopo la scoperta, negli anni Cinquanta, d’ingenti giacimenti petroliferi. Gheddafi, allora, proclama la repubblica e nazionalizza le compagnie petrolifere.
Tutto questo, forse, ci dice poco sulla realtà interna della Libia di oggi, ma ci dice tanto (tutto?) sulla natura dell’intervento militare europeo a sostegno di un fronte di ‘ribelli’ che nelle piazze ha ripescato la bandiera della monarchia di re Idris.
Il popolo libico, così, messo alle strette dalla realtà è stato costretto a schierarsi una parte con Gheddafi e una parte con quelli di Bengasi. Le sue legittime aspirazioni alla democratizzazione e alla redistribuzione della ricchezza derivante dalle risorse del paese, al momento non trovano spazio nella polarizzazione seguita alla guerra civile né, tantomeno, nelle priorità degli interessi strategici delle potenze occidentali impegnate nell’intervento militare in Libia. Il settore prevalente nel CNT non voleva una rivoluzione, voleva solo sostituire il potere di Gheddafi con il proprio ed ha trovato nelle petromonarchie del Golfo, nelle potenze europee e negli Stati Uniti, ma anche in certi correnti di consenso “democratico” in occidente, la leva giusta per scalzare dal potere Gheddafi, sostituirlo e dare vita ad una nuova spartizione della ricchezza derivante dal gas e dal petrolio della Libia. Per fare questo hanno approfittato della congiuntura favorevole derivata dalle rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (queste sì possiamo ritenerle tali), hanno mandato avanti i giovani, hanno tentato un colpo di stato e di fronte al suo fallimento hanno scatenato una guerra civile, forti del fatto che quest’ultima aveva maggiore possibilità di “internazionalizzare” la crisi interna libica e favorire l’intervento di agenti esterni. Per questo abbiamo affermato che quella in Libia non era una rivolta popolare, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, ma era una guerra civile via via resa sempre più funzionale agli interessi strategici delle multinazionali europee, statunitensi e delle petromarchie del Golfo (Qatar, Arabia Saudita). Interessi che possono coincidere o divaricarsi rapidamente dentro il Grande Gioco della competizione globale sulle risorse energetiche oggi in una fase resa acutissima dalla crisi internazionale.
Conclusioni
Questi esempi ci servono per capire come non ci si possa limitare a fotografare il passato e l’esistente ma si deve cercare di individuare le tendenze per collocare dentro, ed eventualmente contro di esse, la propria azione politica. Oggi le contraddizioni che portano alla guerra sono evidenti e agiscono concretamente. Non si tratta solo delle guerra asimmetriche a cui abbiamo assistito in questi anni ma di una escalation della competizione a tutti i livelli – incluso quello militare – tra le varie potenze. Se cogliamo dunque la tendenza in corso, non possiamo che partire dal dato della perdita di egemonia degli USA nei rapporti di forza internazionali, un’egemonia che aveva caratterizzato tutto il dopoguerra e il dopo ‘guerra fredda’.
Sul piano economico e culturale gli USA stanno perdendo quote crescenti di egemonia e stanno lottando con tutti i mezzi (anche e soprattutto quello della guerra e dell’economia di guerra) per cercare di mantenerla.
Se questa tendenza è vera, stiamo assistendo a un cambiamento epocale: il passaggio dalla concertazione tra le grandi potenze (assicurato e dominato dagli USA come primus inter pares) alla competizione globale tra le grandi potenze. La guerra nel Caucaso è rivelatrice di questa nuova fase che vede entrare in crisi le istituzioni della concertazione internazionale tra le grandi potenze.
“La guerra – scriveva von Clausewitz – è la continuazione della politica”. Anche chi ha provato a ribaltare questa impostazione non è uscito dalla relazione tra i due termini: che il primato sia della politica, allora, ma per far questo la lotta per un diverso modello di sviluppo rimane prioritaria.