Alessandro Mazzone (in “Il vicolo cieco del capitale”)
1.
Di fronte alla annunciata aggressione, caparbia e tracotante, incurante della volontà di pace manifestata da milioni di uomini e donne in tutto il mondo, che si attua in questi giorni, la domanda «a chi, e a che serve studiare l’imperialismo moderno» può apparire perfino provocatoria. Eppure, conoscere l’imperialismo è molto più che identificare gli aggressori; è molto più, anche, del necessario orientamento politico nel mondo di oggi; molto più che identificare forze, movimenti, anzi anche ceti, grandi istituzioni (come le Nazioni Unite, o la Chiesa) che la superpotenza imperiale mostra voler battere, e umiliare. Conoscere l’imperialismo significa porre la domanda sull’epoca nostra, e su noi stessi. E conoscere l’imperialismo moderno è cercar di intendere la natura delle forze in gioco, ma di tutte le «forze», economiche, politiche, morali, culturali, e in tutto il mondo. Impresa sterminata, si dirà, Ebbene: cerchiamo di prenderne le misure.
Moderno è l’imperialismo in quanto è oggi dato, a oligarchie economico-politiche ristrettissime, di influire direttamente e indirettamente, con mezzi economici e finanziari prima ancora che politico-militari, sulla vita economica, politica, socioculturale di tutta l’umanità – e ciò, nonostante, e anzi, attraverso le immense differenze nelle forme di vita, il permanere di costumi nazionali e locali, l’esistenza di oltre 180 Stati più o meno strutturati e autonomi. Ciò avviene – per la gran parte degli interessati – in forme indirette, e spesso poco visibili, o per un grado di sovranità popolare rimasto in alcuni Paesi, o semplicemente perché inaccettabili al di là dello schermo stolidificante della comunicazione-spettacolo, o, ancor più semplicemente, perché al di fuori e al di sopra degli orizzonti di sopravvivenza di grandi masse emarginate e diseredate.
Ma ciò avviene. E avviene in modi nuovi, ma in misura molto più grande che non cento anni or sono, in quella prima interconnessione e integrazione dell’agire e del subire su scala mondiale che fu la spartizione del globo in sfere d’influenza dei grandi gruppi capitalistici di allora e, pertanto – allora! – la spartizione territoriale in colonie e semicolonie delle grandi Potenze. La misura è maggiore, oggi, già rispetto alla quantità degli interessati (in cifre assolute e relative, rispetto alla popolazione complessiva di allora e di oggi). Ma molto più la misura dell’azione imperialistica sulla vita degli uomini è cresciuta in ampiezza e profondità, se si guarda – com’è giusto – la penetrazione dello scambio mercantile (e del profitto) e alla sussunzione sotto di esso della attività quotidiana – lavoro, domicilio, spostamenti, rapporti familiari – di centinaia di milioni di uomini; se si guarda ai processi di polarizzazione sociale in atto in Paesi e continenti, con masse crescenti di esclusi, sradicati e diseredati, e strati minoritari di «inclusi» destinati a entrar nel cielo del mercato «globale», come attori (spesso subalterni, borghesia compradora), personale fungente, o consumatori (cfr. Giacché sull’Indonesia); se si guarda alla possibilità di agire sul destino economico di Paesi e popoli interi mediante manovre finanziarie (crisi nell’Asia del SE, nell’Asia orientale; Russia 1998, etc.) Fenomeno, e strumento del dominio oligarchico in atto, è anche l’antirealtà mediatica sistematicamente e quotidianamente diffusa, e mediante lei, l’omologazione culturale di masse di uomini in ogni continente. [1]
2.
Se guardiamo ai processi economici di base, e che sono tendenze secolari, cioè:
- l’estensione della produzione come produzione mercantile, ossia l’accumulazione del capitale, che coinvolge poi anche l’agricoltura e inserisce nel processo capitalistico quella che era stata, fino al XX secolo, la stragrande maggioranza, contadina, della popolazione;
- la concentrazione della produzione, i trust e gli oligopoli, la formazione del capitale finanziario, l’esportazione di capitali verso Paesi «nuovi»;
- la tendenza alla spartizione delle risorse, della forza lavoro, dei mercati, ovunque si trovino, in ambiti d’influenza dei grandi gruppi capitalistici, con l’appoggio dei «loro» Stati (e questa spartizione è perciò fin dall’inizio economica e politica, con le colonie territoriali «moderne» inglesi e poi francesi nel XIX secolo, e fino alla spartizione del mondo tra le Potenze tra ‘800 e il ‘900, Potenze che non sono più Stati nazionali ma imperiali, centri di organizzazione del dominio imperiale sul proprio popolo e su altri)
Se, insomma, anche solo ci richiamiamo a memoria, a volo d’uccello, la storia degli ultimi due secoli, è impossibile non ricordare le parole del Manifesto del 1848 sul carattere «eminentemente rivoluzionario» della borghesia, che modifica costantemente le forze produttive e i rapporti sociali, e tende a imporre «a tutte le nazioni» forme di vita a sua immagine e somiglianza. Ma nello stesso tempo, ognuno avrà ravvisato, nel breve richiamo di «fenomeni economici di base» fatto qui sopra, alcuni dei tratti fondamentali indicati nello scritto di Lenin del 1916 sull’imperialismo, e l’inevitabile, specifica connessione di processo economico e politico che si ebbe, non appena la «oligarchia finanziaria», i «grandi gruppi», giunsero a trasformare a loro immagine e somiglianza Stati e forme di reggimento sociale e politico, conservando con maggiore stabilità forme istituzionali acquisite in pregressi equilibri di classe, nell’Occidente anglosassone (e francese, e scandinavo, in qualche altro Paese medio-piccolo) – ovvero con drammatiche rotture controrivoluzionarie, in particolare là dove la competizione imperialistica parve, nelle rispettive oligarchie, esigere una preventiva omologazione e inquadramento nelle classi subalterne mediante il terrorismo e la dittatura aperta.
Ma prima della grande vittoria di classe contro la democrazia e il socialismo, che fu la preparazione, lo scatenamento, e la conduzione statual-terroristica della guerra del 1914-18, l’integrazione diretta e indiretta della gran parte del globo nel processo di espansione del capitalismo era già avvenuta. Per la stragrande maggioranza, i popoli delle «periferie» coloniali e semicoloniali, quell’integrazione avvenne in forma di dipendenza, sudditanza e terrore (anche per vicariato di oligarchie locali, come in America Latina). Eppure, la «spartizione del mondo fra le grandi Potenze» a fine ‘800/inizio ‘900 fu dimensione politica e militare in cui si realizzava, in forma imperialistica appunto, una prima, tendenziale unificazione del genere umano. Forma antagonistica – e atrocemente antagonistica, come trascurarlo! –. Ma antagonismo, come contraddizione, implica opposizione, unità – non più irrelata diversità (o saltuario contatto di mercanti e venturata trasmissione di eredità culturali – com’era stato per millenni). Quest’unità veniva istaurandosi, grazie «al capitalismo» genericamente, ma in forza di quegli specifici processi capitalistici di cui l’imperialismo e la spartizione del mondo erano inseparabili momenti e condizioni – in una parola, l’unificazione, antagonistica, avveniva come capitalistizzazione della produzione associata di uomini, in forme dirette e indirette, e per lo più dominio, di ogni parte del mondo. E quell’unificazione, per il rapporto, che teneva in sé, di potenze statali armate e acquisizione di «zone d’influenza» dei grandi capitali, era gravida di guerra; insieme, per il rapporto di dominio, che teneva in sé, rispetto alle classi subalterne delle varie metropoli e rispetto ai popoli colonizzati direttamente o indirettamente, doveva implicare una grande politica di divisione del potenziale conflittuale dei subalterni e dominati, il cui modello massimo e vincente fu l’Impero Britannico [2]. Le forme di supersfruttamento, neonato, lavoro forzato nelle colonie (non solo inglesi!), «impensabili» or’è un secolo in Europa [3], sembrano costituire, nei modi allora adeguati, antecedenti non del tutto superati di quel che chiamano oggi «segmentazione» della classe operaia mondiale.
3.
Si apre qui un grande campo di ricerca e di azione. Nel povero schematismo, che vorrebbe ritrovare nelle rivalità interimperialistiche attuali la figura che esse assunsero all’epoca della II Internazionale morente, e di Lenin, seppur mutando i «personaggi» del dramma scompare proprio l’essenziale – ossia la storia dell’imperialismo (o se volete, dell’irreversibile sviluppo capitalistico e capitalistizzazione del mondo, a cominciare dalle risorse umane e naturali che il capitale viene incorporando nel suo processo); e scompare con quella storia, non da ultimo, anche la storia del movimento operaio in ciascun Paese, cioè non dei contrasti obiettivi e inevitabili che lo sfruttamento capitalistico e il dominio, estendendosi, generano, ma proprio della misura e dei modi in cui la presa di coscienza di quei contrasti, da obiettivamente possibile, divenne effettiva consapevolezza e azione solidale [4]. Addirittura «fuori campo» (e non per caso), quasi un intervento esterno o fortuito, appare poi, in quello schematismo, la storia dei comunisti – ossia del tentativo di costruire un’alternativa a quella capitalistizzazione, all’imperialismo e all’asservimento violento che esso porta in sé – alternativa che verso la metà del ‘900, tra la vittoria antifascista e Bandung, poté apparire irreversibile, e foriera di nuovi sviluppi.
E tuttavia sembra evidente che oggi, dopo la fine di quell’alternativa, occorre distinguere almeno due aspetti entro lo «imperialismo moderno». L’imperialismo come politica, e l’imperialismo come modo di gestione consapevole del capitale (finanziario).
Il primo andrà studiato innanzitutto in quanto lotta di classe «dall’alto», o in altre parole, come gestione del conflitto nei confronti della classe operaia e dei dominati in genere. Il suo carattere primo è la segmentazione (internazionale, regionale, anche «neocorporativa») della classe operaia vera e propria. E’ questa stessa segmentazione che rende praticabile il terrore e lo sterminio «invisibili»: terrore e sterminio attuati nelle periferie ma «invisibili» nelle metropoli e che restano «cosa lontana» per quella minoranza della popolazione che, agiata e capace d’informazione effettiva [5], sola «conta» per la riproduzione del sistema politico. La segmentazione offre, immediatamente, occasioni di profitto straordinario alle multinazionali grandi e piccole. Ma essa si combina con il mantenimento e l’approfondimento della separatezza [6], da un lato, e dall’altro, la condizione in cui la grande maggioranza degli Stati, membri formalmente uguali delle Nazioni Unite, non solo hanno sovranità sostanzialmente limitata, ma spesso mancano dell’attributo primo della sovranità politica, cioè dei mezzi e forme di elaborazione e attuazione di una volontà politica unitaria.
In questo modo, la segmentazione si perpetua e approfondisce, da un lato; dall’altro, offre con ciò stesso sempre nuove occasioni d’intervento economico, politico, se del caso, militare, per mantenerla e sfruttarla. Il mito della autoregolazione sociale globale grazie al «mercato» è, naturalmente, materiale di sciocchezza offerta alla «riflessione» del disprezzato volgo. Si pone tuttavia la questione di vedere in quale misura operazioni condotte in totale anomia dal punto di vista del diritto internazionale, come quella recente contro l’Iraq, non gettino anche luce sul carattere, non dolo della c.d. «comunità internazionale» e delle sue gerarchie interne [7], ma anche dei poteri costituiti nei massimi Paesi imperialisti: sull’uso della violenza estrema, militare, per «regolare» – in funzione di interessi di gruppi privati (integrati anche a livello del personale con i dirigenti politici) – quello per cui manca ogni altro tipo di regolazione [8].
Il punto di vista della gestione del capitale finanziario, cioè l’economia dell’imperialismo moderno strictu sensu, non si esaurisce nell’esame dell’andamento delle grandezze macroeconomiche. Per il capitale finanziario, tanto «denaro» che «lavoro» sono ingredienti in ogni istante [9]. La disponibilità di questi «ingredienti» (la loro «fluidità» e «flessibilità»), più la conquista di condizioni di redditività degli investimenti a monte e a valle (materie prime e sbocchi), sono le principali variabili che occorre «governare».
E’ evidente che i due aspetti qui schizzati non sono separati nella realtà, anzi si collegano e intrecciano nelle motivazioni delle decisioni, ogni giorno. Tuttavia ne risulta una considerazione, a mio avviso importante. Per l’analisi dei processi in corso, questi due aspetti sono primari, anteriori alla determinazione politica delle costellazioni e rivalità interimperialistiche. Per la natura della cosa, questa determinazione può avere luogo solo in actu, come mediazione, più o meno lungimirante o miope, di tutti i fattori in gioco; e può essere percepita dall’esterno solo attraverso la comunicazione mediatica e il suo schermo deformante. Ma a prescindere da questo, anche se per ipotesi tornassero i tempi dei «grandi» giornali d’opinione, l’analisi dei processi dell’imperialismo moderno esige altri metodi, e altre fonti d’informazione, che quelli disponibili alla pubblicistica e alle sue polemiche.
4.
Alla capitalistizzazione della vita sociale, oggi in corso in forma imperialistica «globale», non si son mai potuti chiedere riguardi per tradizioni e culture – con disperazione dei romantici pristini e tardi – non più di quanto si possano chiedere riguardi, oggi, per la sorte degli affamati in un mondo di abbondanza, o per quella delle popolazioni investite dalle sue guerre.
Ma quei «riguardi», si sa, si possono imporre. Si tratta, essenzialmente, di rapporti di forza tra le classi. E proprio perciò, essi sono di due tipi. Da una parte, tradizioni, istituzioni, forme di vita e di consapevolezza democratiche dei lavoratori e di un popolo in genere, che costituiscono però modalità e condizioni del dominio oligarchico (cioè del governo della produzione sociale complessiva da parte di quella ormai formata oligarchia, la «borghesia [che] diventa sempre più reazionaria» [Lenin, op. cit.]). L’egemonia, in una parola, implica un compromesso, che si realizza in figure politico-istituzionali, ma che ha un fondamento nella storia delle nazioni e Stati, da una parte, e dall’altra, nella storia dello sviluppo capitalistico generale, ossia ormai nella fase della capitalistizzazione via via raggiunta a livello mondiale. Qui L’egemonia diventa appunto «blocco storico»: nella storia d’Italia degli ultimi due secoli ne abbiamo almeno due esempi, entrambi dinamici: il vecchio «blocco storico» borghese e moderato forgiato nel Risorgimento, e, successivamente, quello uscito dalla vittoria antifascista e dal compromesso di classe, iscritto nel 1947 nella Costituzione repubblicana. Di tal genere sono i «riguardi» che la classe sfruttatrice al potere prende, e non può non prendere, alle condizioni in cui è possibile la riproduzione sociale complessiva in forme consone alla sua riproduzione, e diventa possibile, dunque, anche l’esercizio del potere. «Riguardi», compromessi e relative formule politico-istituzionali compaiono qui come determinati dalle peculiarità della storia nazionale. Ma è storia – e problema – di oggi la nuova e diversa gerarchia degli Stati, tanto funzionale che conflittuale, nel processo di capitalistizzazione mondiale.
Da un altro punto di vista, però, i rapporti di forza tra le classi, e perciò i «riguardi» e compromessi politici, sociali e anche culturali, nei vari Paesi e territori, sono determinati bensì dal processo di capitalistizzazione della vita associata globalmente considerato, e di poi anche dai contrasti interimperialistici, dalle figure della «spartizione» del mondo in sfere d’influenza capitalistiche via via attuate: ma queste figure sono a loro volta anche figure dello sviluppo della produttività del lavoro associato come tale, che si sviluppa [10] ed è promossa nelle forme del processo del capitale. Lo «sviluppo ineguale» non si manifesta tutto nelle statistiche economiche! L’esistenza di un saper-fare accumulato, condiviso in gruppi coesi, aperti alla critica scientifica (e alla conseguente innovazione) risale certo, ogni volta, a tradizioni e modalità di esercizio dell’educazione-selezione propria di ciascun Paese moderno, e spesso cresciute nei secoli [11].
Ma in generale: se la tendenza di ogni capitale a utilizzare le innovazioni e dunque le scoperte scientifiche è iscritta nel Modo di produzione come forma generale di moto, la produzione di coscienze scientifiche (non importa qui ancora se «naturalistiche» o «umanistiche») è questione, non del puro modo di produzione, ma del concreto esercizio dell’egemonia, locale e internazionale. Sotto questo profilo, la produzione di conoscenze scientifiche viene a costituire un aspetto della indagine storica della Formazione economico-sociale moderna, capitalistica, e del suo divenire gradualmente «mondo» in tutti i sensi, cioè il mondo della civiltà moderna, con la sua peculiare forma di scienza, i suoi tipi umani possibili, la sua tendenziale e antagonistica unificazione del globo, eccetera. Questo «diventar mondo» della civiltà capitalistica (o moderna), con la sua integrazione, innanzitutto mercantile, della produzione e riproduzione di uomini e delle loro specifiche capacità e abilità lavorative, ormai su scala mondiale, andrà detta «mondializzazione» [12]. Il suo contenuto, infatti, è il (tendenziale) diventar «mondo», cioè totalità integrata, delle attività in cui si producono, non già «cose», ma merci, ossia – tramite queste – il rapporto di capitale e il suo processo, in quanto forma di moto della riproduzione di uomini, mediante merci e come produttori di enti, fisici e non, che entrano nella produzione di capitale o valorizzazione. In quanto questa totalità di attività è (tendenzialmente) integrata, essa può dirsi «Riproduzione Sociale Complessiva» [RSC]. Essa si sviluppa sotto i nostri occhi in estensione e profondità, come la capitalistizzazione diretta e indiretta delle attività umane [13].
Man mano che la RSC si realizza come tale, però, emerge non solo il contrasto di classe «puro» – dominio padronale dell’esercizio del lavoro; poi «offerta» di lavoro e, oggi, «flessibilità totale», ecc. – ma anche il contrasto di classe generale. Oggi, l’automazione del controllo implica riduzione complessiva del tempo di lavoro necessario, cioè possibilità reale non già di «tempo libero», ma di condizioni adeguate allo sviluppo della persona umana [14]. Nello stesso tempo, la vertenza per le trentacinque ore, p. es., può essere proposta solo in condizioni socioeconomiche e storiche peculiari, in Paesi «sviluppati», cioè in metropoli; e questo dà leva alla controparte per ricattare i lavoratori metropolitani («globalizzazione» cosiddetta), ma anche quelli delle periferie interne ed esterne, posto l’immenso esercito industriale di riserva progressivamente «acquisito» per via neocoloniale, o per via di riconversione capitalistica nell’Est europeo, ecc.
Se «imperialismo moderno» può essere analizzato e poi inteso come figura in cui si attua la mondializzazione inerente alla forma di moto, il Modo di produzione capitalistico nella sua dinamica epocale, esso non contiene solo le «contraddizioni» (conflitti e loro superamento processuale) proprie del Modo di produzione in generale, ma anche le figure derivate e sussunte della universalizzazione della Riproduzione Sociale Complessiva in forma capitalistica. Questo vuol dire innanzitutto:
- che la Riproduzione Sociale Complessiva [RSC] è l’oggetto effettivo;
- che la Formazione economico-sociale attuale è il luogo delle «funzioni e conflitti» propri del Modo di produzione, ma in modo peculiare, con carattere in linea di principio irreversibile, e per tanto «nuovo ogni giorno»;
- che i conflitti sono pensabili nella loro unità obiettiva come inerenti alla figura attuale della RSC, senza che questo significhi loro unità cosciente, né nella teoria finora prodotta, o consapevolezza teorica esistente, né nella pratica di massa; ma nello stesso tempo, che
- quest’unità cosciente può essere guadagnata – almeno nel senso che l’unità obiettiva della figura (essa stessa in fieri), non le si oppone. Se non ci fosse unità obiettiva, e la figura fosse «pluralistica» in sé e per sé, una coscienza unitaria potrebbe venire solo dall’esterno, cioè sarebbe esteriore («volontaristica»), non possibile inerente al processo.
L’unità obiettiva della figura è posta (in divenire) dal c.d. «mercato mondiale».
Ma l’espressione «mercato mondiale» è qui del tutto inadeguata a esprimere la cosa [15]. Parlare invece di «mondializzazione» nel suo aspetto primario, mercantile, può avere senso, se si concentra l’attenzione su:
- l’estensione in corso del proletariato (comprese le sue figure camuffate, salariato con partita IVA ecc., e naturalmente, figure di supersfruttamento nella «periferia»);
- l’estensione nello scambio: compravendita di merci prodotte capitalisticamente, cioè portatrici di plusvalore, dunque del profitto come modalità «reale» della produzione-circolazione [16];
- l’estensione mondializzazione (con nuove forme di contrasto) del mercato del denaro, come uno dei due «ingredienti» (con il «lavoro») della gestione del capitale finanziario (v. supra).
Questi tre processi sono diuturni. Pertanto, essi modificano ogni giorno gli equilibri di «potenza economica» tra i diversi «raggruppamenti» di forze produttive in forma capitalistica – le diverse borghesie (e loro frazioni). Ma il modo della loro azione è soggetto a determinazioni reali, pregresse e sussunte (cfr. il signoraggio come attributo del dollaro, p. es.).
Trascurare quei tre processi significa rinunciare a limine a intendere l’imperialismo moderno. Essi, concettualmente, sono anteriori a ogni determinazione delle diverse borghesie (e dei loro Stati), storicamente formate, quindi anche delle rivalità interimperialistiche nella loro forma presente, non riducibile a quelle passate.
Ma è impossibile dedurre da quei processi, anche seguiti nel loro moto empiricamente constatabile, e acutamente analizzati, il moto della Formazione economico-sociale e i suoi contrasti. Questa, anzi, è la forma moderna dell’economicismo, in cui riemerge la vecchia superstizione che «l’economia» determini il resto come si presenta fenomenicamente, e non invece com’è mediata nelle configurazioni via via storiche, i «raggruppamenti» di forze produttive sociali, ossia le borghesie e i loro Stati ecc., i «blocchi storici» con i peculiari rapporti delle classi subalterne, in quanto determinatideterminanti nella Riproduzione Sociale Complessiva. – In questa il processo di produzione, che è riproduzione e autoriproduzione, opera incanalato e modellato in forme istituzionali (Banche centrali, sovranità monetarie e loro limiti; sedi industriali e direzionali di complessi produttivi, loro rapporto con la gestione statale ecc.; concentrazione di abilità, tradizioni e modalità di formazione delle stesse; forme politiche di ‘governo’ delle classi subalterne interne ed esterne (estere); c.d. ‘complesso miltare-industriale’ – da che esiste la produzione di massa di armamenti; e oggi, tecnica e organizzazione della riduzione sistematica di cittadinanza politica, sociale, culturale delle masse («masse» sono appunto cosi atomizzati, individui non cittadini, illusoriamente ab-soluti da ogni legame, dunque amorfi), tuttavia con controspinta di fronte a fenomeni di rottura (guerra e movimento contro la guerra, p. es.).
Riassumendo. E’ la Riproduzione Sociale Complessiva che costituisce l’oggetto, perché è l’ambito totale dell’azione. Ed è essa che possiamo e dobbiamo indagare in tutte le sue forme. Il suo contenuto è la produzione e riproduzione di uomini – nelle figure storiche in cui questa produzione e riproduzione ha luogo.
6.
A chi serve, dunque, conoscere l’imperialismo moderno, nella sua continuità e nella sua differenza rispetto a figure precedenti dello sviluppo generale del capitalismo?
La prima, ovvia risposta è: serve a noi – in quanto tendiamo a ricostituire una consapevolezza strategica. Questo scopo, però, definisce già «noi» come comunisti: poiché la consapevolezza è strategica se si fonda nella conoscenza del processo obiettivo, non solo, ma anche nel riconoscimento di una possibilità obiettiva di modificare il corso. Questo non vuol dire, ovviamente, che in ogni indagine scientifica dell’economia attuale, anche rigorosa, e anche condotta mediante categorie marxiane, sia di per sé «comunista» [17]. E’ lo stesso si dirà per altre indagini ugualmente indispensabili, storiche, sociologiche, di forme di cultura, ecc. – Il «noi» comunista non è determinato da volontà di rivoluzione, né da adesione a certe idealità umane giuste, ma in primo luogo dalla conosciuta e riconosciuta corrispondenza di queste idealità alla possibilità obiettiva di mutare il corso delle cose. Cioè, come si era soliti dire, dalla conoscenza teorica e pratica delle «contraddizioni del capitalismo». E però, quest’espressione è stata abusata fino a perder di senso: ogni contrasto, lacerazione, discrasia nella vita degli uomini, cioè «nella società» in genere, poteva essere riportata alle «contraddizioni del capitalismo», non appena l’espressione «capitalismo» fosse ricondotta alla ovvietà che quella in cui viviamo è una società in cui domina il capitale, e sembrasse perciò che l’analisi dovesse consistere nel collegare contrasti, lacerazioni ecc., a quella vaga indeterminata rappresentazione [18].
Inoltre, l’espressione «contraddizione del capitalismo» è ambigua di per sé. Essa oblitera la distinzione essenziale tra modo di produzione capitalistico come forma di moto generale, che abbraccia tutta l’età presente, tende per sua intrinseca natura a espandersi («mercato mondiale»), a sussumere in sé le pregresse forme di vita associata, ad abbracciare tendenzialmente ogni rapporto («capitalistizzazione» delle attività umane in genere) [19], e, d’altra parte, le figure e quindi le fasi del processo. In una parola: contraddizioni «del» capitalismo è un’espressione fuorviante perché mette in ombra proprio il processo sociale, storico. Vanno studiate e intese le configurazioni reali, storiche, cioè i «capitalismi» e – poi – gli «imperialismi», o se si vuole, le figure successive dell’epoca imperialistica, fino a quella presente. «Il» capitalismo in genere non ha esistenza.
Ancora. Parlare genericamente di «contraddizioni» (per es. «tra capitale e lavoro») mette in ombra la doppia dimensione di funzione e conflitto nell’unico processo di capitale, e quindi l’irreversibilità del processo, in cui tanto la funzionalità che la conflittualità si riproducono sì, ma in forme via via nuove e specifiche.
Si dimentica spesso che in questo modo va perduta la nozione stessa di «socialismo» in quanto possibilità reale (e non «fatalità» da un lato, né mera idealità dall’altro). «Possibilità reale», infatti, è quella che contrasti determinati, a un livello determinato di uno svolgimento o processo, aprono e/o chiudono. Indagare e conoscere questa possibilità reale è compito scientifico, certo – ma non solo scientifico! Infatti, le contraddizioni specifiche, via via emergenti, e sole concrete perché inerenti alla una, unitaria processualità del corpo sociale che riproduce se stesso, implicano perciò stesso la possibilità obiettiva di presa di coscienza, precisamente perché si tratta di una processualità unitaria, che è in ogni istante processo di uomini (e di cose, certo, ma agite e/o create da uomini, ossia in genere: dal lavoro umano).Questa presa di coscienza non è statuibile a priori, non avviene «meccanicamente» (cioè secondo necessita «naturale»), importa ogni volta una serie di mediazioni – ovviamente. Ma è, come possibilità, anch’essa obiettiva, appunto possibilità reale [20].
La possibilità reale non è ancora possibilità concreta – certo. Ma l’azione perché lo diventi, e viceversa, l’azione per bloccarla sul nascere, sono oggetto immediato della lotta di classe nel presente. Va smantellata, tra l’altro, la favola dell’80%-20%, proprio perché essa contiene un elemento di verità, quello della segmentazione e separatezza imposta dall’avversario di classe. Questa verità diventa ideologica, e tutte le ideologie contengono un elemento di verità, insieme con un elemento di potere di classe. Così «noi» («occidentali») saremo quel quinto dell’umanità che gode dell’80 (o più) per cento delle risorse, ecc. I quintili statistici servono così a obliterare i contrasti sociali, interni ed «esterni» (!) al c.d. «Occidente».
Proprio qui, invece, vi è un campo di ricerca e di azione che si sta aprendo [21]. Abbiamo finora, è vero, ricerche di azioni specifiche, non ancora una concezione totale del nostro mondo, della Riproduzione Sociale Complessiva nelle forme dell’imperialismo capitalistico attuale. Il percorso avviato sarà lungo e non piano. Il campo di ricerca e di azione è immenso – come si diceva all’inizio. Soggettivamente, a quanto pare le forze sono scarse.
Ma la misura del campo di ricerca e di azione è oggettiva. Esso, infatti, rettamente inteso, riguarda l’oggi complessivo della lotta di classe, le forme e i modi di tutta la vita associata, la produzione di uomini, la loro adeguatezza al possibile reale, il «tipo di società» obiettivamente divenuto possibile, proprio grazie allo sviluppo capitalistico secolare, alla sua integrazione antagonistica e sterministica del genere umano, tanto progredito nel «secolo non breve» dell’imperialismo, delle sue guerre e delle sue fasi successive – che però è anche il secolo in cui le risorse disponibili sono diventate più che adeguate a nutrire, vestire, educare tutti gli uomini nati sulla Terra.
L’avversario sa che, ormai, mantenere isole di benessere in un oceano di miseria significa violenza crescente. L’avversario sa che anche la coscienza morale in rivolta contro la «guerra infinita», il mostruoso sterminio del c.d. «Terzo mondo», la «esclusione» nelle metropoli, contro la distruzione sistematica della cittadinanza non solo politica ma sociale, culturale, umana – questa coscienza ancora soltanto morale può diventare coscienza politica, andare al di là della mobilitazione di massa che si è avuta contro l’aggressione all’Iraq, porre la questione dell’oligarchia al «governo» (!) economico, politico, militare, della sua pseudo-legittimazione «democratica», del suo potere esercitato nell’anomia e nella violenza. A bloccare questo passaggio dal morale al politico servono tutti i mezzi atti a mantenere la contraddizione immanente alla coscienza morale, il suo sapersi nel «giusto», che dovrebbe essere e non è, quindi insieme il sapersi nell’impotenza. Ma la partita è aperta. Conoscere l’imperialismo moderno non serve solo ai comunisti. La domanda sullo imperialismo moderno è per tutti, obiettivamente, la domanda sull’epoca nostra, su noi stessi. – Quanto ai comunisti, se sapranno «fare il loro lavoro», intendere teoricamente e praticamente l’imperialismo moderno, non adagiarsi nella ripetizione di formule, non nel settarismo politico o «impossibilista» [22], essi potranno forse ritrovarsi in una situazione analoga a quella del 1848, di solidarietà con tutti i partiti e movimenti di progresso attuale, obiettivo, e di distinzione tra loro soltanto per la visione più lunga, prospettica, di un mutamento dei rapporti sociali come possibilità reale, che dunque può, non deve necessariamente, ma può diventare possibilità concreta [23], e realtà effettuale nella vita degli uomini.
NOTE
[1] ↑ La quale meglio si dirà uniformazione della deculturazione, nel passaggio da forme di vita antecedenti e alle corrispondenti figure di coscienza e di azione, a miti, e a mode continuamente variate. Il passaggio a forme nuove di vita sociale, per lo più non autonomamente elaborate (si pensi alle grandi masse di ex-contadini autosussistenti migrate nelle favelas brasiliane, nigeriane ecc.) è, naturalmente, il fenomeno sostanziale, che ha luogo ora, mutatis mutandis, anche per le nuove classi subalterne dell’Europa orientale. I miti (per es. quello dell’abbondanza e libertà «Occidentali») sbarrano, non semplicemente surrogano, l’insorgere di forme di consapevolezza e di azione adeguate a forme nuove di attività vitale e produttiva e, quindi, di nuova cittadinanza sociale e culturale prima ancora che politica (politicamente, e in particolare in Paesi come il nostro, si ha una vera e propria produzione sistematica di masse subalterne, materiali per ogni avventura, incapaci di farsi popolo).
[2] ↑ Al «supplemento di salario in forme di colonie» di cui parlava già F.Engels, si aggiungeva il reclutamento di massa, nella «madrepatria», di quadri medi e infimi per l’amministrazione dell’impero.
[3] ↑ Ma attuate dai nazisti sui popoli «inferiori» nell’Est
[5] ↑ Non pienamente manipolata nella antirealtà mediatica, cfr. Nota 1.
[6] ↑ Eventualmente con lo spezzettamento di compagini statuali preesistenti, V. Jugoslavia, Cecoslovacchia e URSS; e ancora, con le derive etnicistiche, con il separatismo «strisciante» come in Italia, ecc. -. Anche il declino del movimento di liberazione dei popoli arabi dopo la fine del c.d. «nasserismo», la loro rinnovata balcanizzazione, sono probabilmente da considerar in quest’ottica – come la deliberata balcanizzazione dell’Africa subsahariana verso il 1960, premessa del neocolonialismo.
[7] ↑ Sarà da vedere perché la dubbia categoria di «costituzione materiale», cara da tempo alla pubblicistica di destra in Italia, non sia invece usata riguardo al diritto pubblico internazionale, per descriverne l’attuale condizione.
[8] ↑ Quest’aspetto, meglio che le vicende più o meno note del team dell’attuale Presidente USA in grossi imbrogli finanziari, sembra interessante per esaminare alcuni caratteri emergenti del potere di Stato nella fase attuale dell’imperialismo. Infatti, la regolazione manu militari di affari privati tra gruppi non formali è tradizionalmente considerata caratteristica delle mafie. Non mancano paralleli contemporanei (in Italia, forse anche in Russia), né, in verità, antecedenti sinistri (la consegna – Machtubergabe – del potere in Germania alla banda criminale raccolta intorno a Hitler).
[9] ↑ Cfr. K. MARX, Capitale III, cap. 21.
[10] ↑ Questo sviluppo incondizionato della forza produttiva sociale del lavoro, assoggettato però alla valorizzazione, costituisce secondo Marx la contraddizione della «produzione capitalistica», che si manifesta come «limite» del capitale – cfr. Capitale III, cap. 15.
[11] ↑ Si pensi alla Grandes Ecoles creata in Francia dalla Rivoluzione, o alla «research Universities» negli USA, al MTI, ecc., o – per converso – a quel matrimonio di abilità e capacità che ora si sciala e disperde nell’Italia pedemontana.
[12] ↑ Non «globalizzazione»: questo è piuttosto il termine terroristico usato per imporre soluzioni adatte al capitale di rapporti di lavoro, e in generale, di classe. Cfr. infra.
[13] ↑ La capitalistizzazione indiretta non è sempre immediatamente visibile. Ma anche il buon padre, che conduce conversazione con il figlio, contribuisce pro tanto a formare un essere (modernamente) civile – dunque un lavoratore capace, che sarà lavoratore effettivo (concreto) nel rapporto di capitale, come salariato, o in funzioni che del rapporto di capitale permettono la riproduzione, e garantiscono la funzionalità (p. es. come impiegato pubblico, come insegnante, ecc.).
[14] ↑ Giuridicamente, nel senso indicato nella Costituzione italiana, art. 3.
[15] ↑ Ne vediamo, infatti, l’uso nello spauracchio «globalizzazione», addotto in tutte le salse per scopi parziali.
[16] ↑ Questa «realtà» del profitto è sviluppata da Marx in Capitale III, capp. 1° e 2°
[17] ↑ Così, cento anni or sono, né Hobson né Hilferding, fonti dirette dello Imperialismo di Lenin, non furono «comunisti».
[18] ↑ Non è questo il luogo per discorrere di tanta filosofia di «sinistra» del ‘900. Per altro, questo riferimento a una rappresentazione generica delle «contraddizioni del capitalismo», anche dove la parola «capitalismo» non è adoperata, si ritrova in molta letteratura di livello medio (G. Simenon, p. es.) in cui appaiono ambienti piccolo-borghesi nella loro povera perseveranza a inseguire il decoro e la ricchezza, e nel loro squallore morale; nella letteratura di maggior rango (per es. V. Woolf, Céline, E. Morante…), dove l’analisi più penetrante, l’ambiguità è subito evidente: rivolta (che può diventare di destra estrema), disdegno, affermazione di una sfera di valori riservati a pochi, o viceversa mitizzazione tardo-romantica di una qualche«originarietà» – forme diverse di un rifiuto della «società» presente che non giunge mai alla domanda sulle leggi di moto e la possibilità obiettiva di modificarne il corso.
[19] ↑ Così oggi della cultura, sanità, formazione ecc.
[20] ↑ Le teorie delle «relazioni umane», poi della «gestione delle risorse umane» ecc., sviluppate e praticate nella seconda metà del ‘900, mostrano come l’avversario di classe ha «imparato la lezione» e operato per contrastare la possibilità reale dell’emergere di coscienza della contraddizione via via emergente e concreta – dapprima sul terreno immediato del potere nella produzione. Più ampia consapevolezza e pratica di ciò l’avversario ha mostrato e praticato nella gestione complessiva della conflittualità immanente al rapporto e processo di classe moderno, capitalistico, cioè del «governo» delle classi subalterne tendente a escludere in nuce il formarsi di coscienza di classe, e quindi di capacità di porre la questione della Riproduzione Sociale Complessiva all’altezza della fase presente di lei, cioè appunto dell’imperialismo moderno.
[21] ↑ V. p. es. l’analisi-inchiesta del CESTES pubblicata nel volume La coscienza di Cipputi, Mediaprint, Roma 2002. Anche gli studi di Werner SEPPMAN, tra l’altro sulla «Attualità della questione di classe» [Aktualiat der Klassenfrage, nella rivista «Z», n. 53, marzo 2003] vanno nella stessa direzione.
[22] ↑ L’espressione è di E. J. Hobsbawm, nel volume I rivoluzionari, ed. it. Einaudi, Torino 1975, p. 132
[23] ↑ Oppure anche, sempre rileggendo il Manifesto del 1848, sboccare in «comune rovina [Untrgang] delle classi di lotta» – questa volta eventualmente anche come disastro ecologico, provocato o non evitato, dalla vita sul pianeta.
CREDITS
Immagine in evidenza: Plotone di carri Howitzer, Afghanistan.
Autore: David Axe; 14 giugno 2007
Licenza: Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0)
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