Francesco Piccioni (in “Il vicolo cieco del capitale”)
Se dovessimo dare un giudizio sintetico del ruolo dell’amministrazione Usa nell’affrontare la crisi 2007-2012, potremmo tranquillamente dire soltanto: un perfetto comitato d’affari della borghesia.
Questo però non ci permetterebbe di fare un solo passo avanti nella comprensione. Una frase così servirebbe solo a confermare un giudizio secolare dato già da Marx sul suolo dello Stato in generale sotto il dominio della borghesia; un contentino all’ideologia ma nulla di più.
Bisogna dunque vedere concretamente perché la risposta negli Usa è stata rapida, e per un breve periodo anche efficace, mentre in Europa le cose sono andate molto diversamente, al punto che le divisioni politiche/nazionali sono da molti considerate una causa rilevante nella dimensione assunta dalla crisi finanziaria proprio nel Vecchio Continente.
Molte differenze sono di carattere storico e geografico, altre di tipo istituzionale e di modello sociale. La contraddizione di classe spiega molto, ma non tutto, come ha avuto di spiegare molte volte Marx a chi voleva ridurre la complessità a una sola causa (per esempio, le differenze di lingua o addirittura di dialetto).
Partiamo dal patto fondativo dei due tipi di Stato.
Negli Usa vige fin dall’origine un “patto tra proprietari”, mentre in Europa – Gran Bretagna esclusa – la storia ha di fatto imposto come indispensabile, anche prima della prima guerra mondiale e della Rivoluzione Sovietica, un “patto tra produttori”. L’istituzione delle pensioni pubbliche è per esempio opera di Otto Von Bismarck, non proprio il massimo in termini di progressismo.
Il “patto tra produttori” implica che imprenditori (di qualsiasi tipo, dagli industriali agli allevatori, dai finanzieri ai servizi) e lavoratori stabiliscono un compromesso “virtuoso”, ovviamente più vantaggioso per i primi, al fine di far sviluppare il più possibile il proprio paese. In cambio della conseguente pace sociale è costruito un sistema di welfare più o meno articolato e soddisfacente, oggetto di conflitti sociali anche durissimi per estenderne o ridurne la portata, ma che nemmeno il nazifascismo ha mai messo in discussione per intero. Il “patto tra proprietari” non implica invece nessuna partecipazione legittima del lavoro al patto costituzionale fondamentale. La struttura dei diritti riguarda i cittadini in quanto proprietari di beni, mentre al lavoro non è riconosciuto alcun diritto particolare alla contrattazione delle proprie condizioni di vita e di salario. È lo Stato, per esempio, a fissare il livello minimo del salario orario, non la contrattazione tra le parti. La diversa durezza della repressione di scioperi e manifestazioni, al di qua e al di là dell’Atlantico, è figlia di questo diverso assetto costituzionale. In Europa gli operai e i lavoratori in genere sono stati massacrati solo quando la loro lotta arrivava a mettere in discussione il predominio della borghesia, ma non quando restava entro i limiti della sola lotta rivendicativa. Le eccezioni italiane (da Portella della Ginestra alla strage di Bologna) sono anche eccezioni soltanto italiane.
Ci sono ragioni storiche e strutturali per questa differenza costitutiva.
Le nazioni europee sono sempre state “compresse” in confini ritenuti troppo stretti perché sviluppino adeguatamente l’accumulazione dando al contempo ai ceti popolari una qualche partecipazione al benessere.
Gli Stati Uniti sono stati a lungo un paese senza limiti di estensione (“go west!”), anche per la presenza di un continente intero a loro disposizione (Centro e Sudamerica), al di là del territorio formalmente controllato dallo Stato federale.
Di conseguenza, i fenomeni migratori all’interno dell’Europa non hanno mai generato – fino al termine della seconda guerra mondiale – flussi significativi di persone in grado di cambiare la composizione etnica e sociale dei paesi ospitanti. La “decompressione” della popolazione avveniva soprattutto attraverso la guerra nei confronti dei vicini, con acquisizioni o perdite marginali di porzioni di territorio. Ne conseguiva che il “consenso interno” era una necessità fondamentale; per averlo la borghesia doveva esser pronta a “comprarlo”, in termini di concessioni, welfare, un po’ di corruzione o delega a poteri locali (malavitosi o meno).
Gli Stati Uniti, al contrario, hanno costruito un modello capitalistico fondato sull’eccesso di territorio rispetto a flussi migratori continui. La rotazione parossistica tra immigrazione di nuova generazione e “naturalizzati” precedenti ha per quasi due secoli determinato una struttura di classe che – Wasp e niggers a parte, nella parte alta e in quella bassa della scala sociale – ricalcava quasi fedelmente l’anzianità della cittadinanza. I proletari erano spesso quelli appena sbarcati dalle navi, e kapò i figli di quelli che ne erano scesi vent’anni prima. La “conquista del consenso” sociale qui si basa sulla logica delle “opportunità”, non dei diritti. L’America, il “sogno americano”, è solo la possibilità di fare quel che vuoi per scalare le posizioni sociali. Se non ci riesci sei tu il colpevole, non ti lamentare. Questo modello per il consenso, va da sé, funziona – e ha funzionato benissimo – solo fin quando l’accumulazione procede alla grande, senza intoppi. Solo fin quando l’illusione dell’”uno su mille ce la fa” resta credibile perché, in effetti, uno su mille fa un passo avanti, magari persino gigantesco. La crisi economica, in questo modello, è un dramma.
L’individualismo introiettato da ogni “cittadino” è un moltiplicatore di solitudine nel bisogno.
Anche la logica della guerra è molto differente. In Europa, come già detto, è immediatamente ricerca della conquista di territori supplementari; la ricerca dello “spazio vitale” che solo i nazisti teorizzarono apertamente. Col grave problema che il vicino, in genere, poteva contrapporre livelli di potenza (economia, tecnologia, quantità di uomini e mezzi) grosso modo equivalenti. Il che trasformava ogni guerra in un clamoroso bagno di sangue che prostrava anche il vincitore (pensate alla Francia di Napoleone, al termine di venti anni di guerre).
Negli Stati Uniti, risolti con la Guerra di secessione i problemi di “egemonia borghese” (“tra proprietari”, ovvero industriali e finanzieri contro allevatori e coltivatori, non per caso esplosa sulla scelta del rapporto da tenere con il lavoro: schiavitù o lavoro salariato?), la guerra è sempre stata condotta verso paesi lontani, impossibilitati a rispondere portando a loro volta la guerra sul territorio Usa, anche quando si trattava di paesi industrialmente molto forti (la Germania dei due conflitti mondiali del ‘900). Il modello di guerra, ideale e pratico, per gli Usa è sempre stata la guerra asimmetrica; contro paesi più piccoli, lontani, inoffensivi. La “guerra fredda”, invece, necessitata dal confronto/scontro per la prima volta con un sistema altrettanto potente e capace di restituire colpo su colpo, anche sul piano nucleare, ha fatto sviluppare altri tipi d’iniziativa bellica di matrice statunitense: finanziaria, mediatica, culturale, “non governativa”, in gran parte delegata alle frazioni interne dei paesi da combattere.
La differenza più radicale, ai fini del modo rapido di affrontare la crisi, è che gli Stati Uniti sono uno Stato. Mentre l’Europa è una “unione” in progress, con regole da rettificare in corso d’opera, interessi “nazionali” ancora vivissimi e conflittuali, accentuati dall’enfasi sulla “competitività” dei singoli paesi invece che dell’insieme; senza un’unica politica di bilancio (e relative “garanzie” comuni), né politica fiscale, né politica industriale.
Solo in questi giorni si sta vedendo il prevalere chiaro di una “borghesia multinazionale” europea capace di imporre le istituzioni “centrali” in grado di orientare qualsiasi paese dell’Unione. Germania compresa. Non a caso, ancora una volta, in un’Unione creata stolidamente a partire dalla moneta invece che dall’unione politica, questo “potere centrale costituente” è rappresentato da una Banca. La quale, per funzionare almeno un po’, deve essere realmente – non solo formalmente – autonoma da un potere politico che ancora non esiste come “spirito unitario”.
La Federal Reserve e il Dipartimento del tesoro statunitensi sono invece organi molto rodati di un’amministrazione statale fortemente centralizzata. Non c’è sceriffo locale che possa opporsi all’intervento dell’Fbi; così come non c’è politica locale, come dappertutto fondata sul consenso elettorale, che possa contrastare le scelte di Washington. Malumori “leghisti”, anche negli Usa, ce ne sono tanti. Ma a nessuno è stato mai concesso di “entrare nel palazzo” che conta davvero.
Questa diversa configurazione di poteri, su entrambe le sponde dell’Atlantico saldamente in mano a una borghesia “globale” per pratica e strategia, spiega la diversa velocità di reazione e di strumenti messi in campo per arginare gli effetti più pericolosi della crisi.
Il buco dei subprime si apre negli Usa ufficialmente nell’agosto del 2007, ma i segnali erano già forti alcuni mesi prima. Il 3 maggio 2007 Gmac – la finanziaria di General Motors – accusa nel settore immobiliare perdite per un miliardo di dollari. Lo stesso giorno la svizzera Ubs chiude la sua presenza sul mercato subprime negli Usa ed è presentato al Senato un piano di aiuti per i proprietari di case che rischiano il pignoramento.
Di lì in poi è uno smottamento rapido ma tenuto sotto silenzio, tranne che nelle comunicazioni interne tra specialisti. Ad agosto si scatena il panico ma resta “settoriale”. La Bank of China da sola ci perde nove miliardi. Tutti gli analisti, i politici, i dirigenti delle grandi banche, si affannano a spiegare che è tutto sotto controllo, limitato, passeggero. Una parentesi. Ma la Federal Reserve, proprio il 17 agosto, taglia il tasso d’interesse base al 5,75%, aprendo la fase della “politica accomodante” che arriverà ben presto a imporre un tasso d’interesse pari a zero e “quantitative easing” a volontà. È il primo taglio dal 2003 e un mese dopo scenderà dell’1% in un colpo solo (è bene sapere o ricordare che gli aggiustamenti sul tasso d’interesse base oscillano di norma tra lo 0,25 e lo 0,5%).
Ma non è una crisi settoriale. Il 13 dicembre 2007 la Fed coordina un’azione congiunta delle cinque principali banche centrali del mondo per concedere miliardi di dollari di “prestiti” alle banche. È la prima volta nella storia. A voler essere cattivi, le necessità di un “coordinamento generale” dell’economia globale, strappando l’iniziativa agli squali privati, dovrebbe vedere in quest’azione una prova di verità inconfutabile. La Fed concede immediatamente venti miliardi alle banche, la Bce addirittura 500, la banca d’Inghilterra appena dieci.
Comincia a quel punto una serie di fusioni bancarie e assicurative “guidate”, con l’assistenza diretta della Fed. Non mancano i salvataggi veri e propri, come quello che tiene in vita Aig, la prima società assicurativa del mondo.
A gennaio 2008 George W. BUsh firma l’Ecomomic Stimulus Act che stanzia (altri) 100 miliardi di dollari di sgravi fiscali e cinquanta miliardi di incentivi per gli investimenti. Poco dopo l’Inghilterra nazionalizza Northern Rock, una banca privata che aveva ormai la fila dei clienti fuori la porta per ritirare i propri soldi.
Il 7 marzo, mai visto prima, la Fed immette 200 miliardi nelle banche e altre istituzioni (assicurazioni e non solo) per fornire liquidità ai mercati. Solo quattro giorni dopo annuncia un nuovo strumento di emergenza, il Term Securities Lending Facility, che consente lo scambio fra titoli con rating AAA e titoli del Tesoro Usa. Sembra uno scambio alla pari, quanto a “garanzie”, in realtà è un’assunzione di rischio da parte della Fed (quindi dello Stato), perché molti titoli subprime portano ancora il rating AAA soltanto grazie alla triade Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch, ma non hanno più un prezzo certo sui mercati.
Non è finita. Il 16 la Fed annuncia la creazione di una linea di credito privilegiata di cinquanta miliardi (diventeranno settantacinque un mese dopo) per banche e operatori di borsa. Il giorno dopo accetta di garantire (con fondi propri) 30 miliardi di assets di Bearn Stearns, banca privata in grave difficoltà.
A luglio 2008 scatta l’aiuto per Fannie Mae e Freddy Mac, enti semipubblici che detengono 5.000 miliardi di prestiti ipotecari. Alla fine del mese Bush jr promulga l’Housing and Ecomonic Recovery Act, che autorizza il Tesoro a fare acquisti di obbligazioni nel settore immobiliare per tenere alti i prezzi ed evitare altri fallimenti. A settembre Fannie Mae e Freddie Mac sono nazionalizzate. Nella patria della libera impresa e del rifiuto dell’intervento dello Stato nell’economia.
Pochi giorni dopo il governo salva la più grande società di assicurazioni nel mondo, Aig, prima con venti miliardi, subito dopo con altri 85. Mentre le autorità monetarie di tutto il mondo “pompano” 180 miliardi di liquidità Detto in volgare: regalano soldi alle banche, mentre il governo stanzia altri cinquanta miliardi per garantire i fondi comuni del mercato monetario.
Il 15 settembre fallisce improvvisamente Lehmann Brothers, la quarta banca d’affari del mondo. È Il panico globale, crollano borse e banche più o meno grandi a ripetizione; si blocca il flusso del credito perché le banche non si fidano più l’una dell’altra, sapendo ognuna come sta messa.
Il 24 settembre il segretario al Tesoro, Paul Henry Paulson, vara il piano di salvataggio di Wall Street da 700 miliardi (Tarp), accettando a malincuore di porre un limite ai bonus dei manager delle banche che sono salvate con soldi pubblici.
Mentre il 30 settembre i leader europei non riescono a mettersi d’accordo sul varo di un piano da 300 miliardi in aiuti. Ma il 7 ottobre sei banche centrali (più la Cina, che opera senza aderire formalmente) si accordano per abbassare contemporaneamente i tassi d’interesse.
L’elenco fino ai nostri giorni sarebbe probabilmente quasi infinito, ma il significato è chiaro: lo Stato Usa stampa soldi in quantità di fatto illimitata per coprire i buchi aperti dalla finanza privata. È quello che Joseph Stiglitz definisce icasticamente “socialismo per ricchi”. Quello che era vietato fare allo stesso Stato per salvare la popolazione, è assolutamente richiesto per salvare le banche.
Agisce dunque da “comitato d’affari” per la borghesia di origine e “base” statunitense (per quanto labile sia ormai diventato il rapporto tra questa classe dirigente e gli “interessi nazionali del paese”. Resta pur tuttavia yankee “l’asso” calabile in molte situazioni: la superiorità militare). Mentre in Europa – nonostante sforzi di dimensioni paragonabili sul piano finanziario – l’efficacia degli interventi è minata alla base dallo scarso coordinamento, dalle disarmonie tra paesi, dalla volontà “nazionalista” di minimizzare i costi per il proprio paese e scaricarne buona parte sugli altri. E’ in parte la politica tedesca, ovvero quella che ha oggettivamente avuto il centro della scena per oltre quattro anni.
La forzatura della Bce, a settembre, fa iniziare un’altra storia. O, almeno, ci prova.
CREDITS
Immagine in evidenza: Ohio Flags of Honor
Autore: Kevin Smith; 21 giugno 2014
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