Guglielmo Carchedi (in “Il vicolo cieco del capitale”)
Per capire la crisi dell’euro nel contesto della rivalità interimperialista, bisogna prima di tutto capire che cos’è l’Euro e perché è nato. Fin dall’inizio, l’Unione Europea (inizialmente la CEE) fu un progetto per la creazione di un polo economico alternativo agli USA sotto la leadership dei grandi complessi industriali e finanziari tedeschi. Ciò richiedeva la creazione di una moneta unica e forte, cioè in grado di essere un rivale del dollaro. Questa non era una mera questione politica. Era principalmente una questione economica. La posta in gioco era ed è il signoraggio internazionale.
Cos’è il signoraggio? Esso è l’appropriazione di valore da parte della nazione che ha la moneta di scambio e di riserva internazionale, la moneta del paese economicamente dominante. Questo è il caso del dollaro statunitense. In pratica, come avviene ciò? Se le altre nazioni esportano agli USA, esse ricevono dollari che potrebbero usare per comprare merci statunitensi. Tuttavia, una buona parte di questa massa monetaria non è usata in questo modo. Infatti, questi dollari sono usati (a) come riserve internazionali, (b) come moneta circolante all’interno dell’area dei paesi dollarizzati e (c) come mezzo di pagamento nei mercati internazionali.
Già verso la fine del secolo scorso, dal 55% al 70% dei dollari circolava al di fuori degli USA e non erano usati per comprare beni americani. Detto con altre cifre, dal 1971 a oggi (per ben più di quaranta anni) la bilancia commerciale USA è stata sempre negativa. Un valore reale (merci) è scambiato per una rappresentazione di valore (un pezzo di carta senza valore intrinseco) che non è trasformato in valore reale prodotto negli USA perché non è usato per importare merci statunitensi. In tal modo, ogni anno gli USA si appropriano del valore reale prodotto da altri paesi, recentemente per un ammontare di quasi il 6% del loro PIL, una cifra gigantesca.
Come ha reagito l’UE? Con l’introduzione dell’euro. Mi manca il tempo per entrare nei dettagli tecnici. Basti dire che il precursore dell’Euro, l’ECU, che fu introdotto nel 1978, non era una moneta reale come il dollaro o il marco tedesco. Era una moneta virtuale che serviva principalmente come un mezzo per saldare i conti tra le diverse banche centrali europee. Ma anche come moneta virtuale era stata pensata come moneta forte, nel senso che era composta di nove monete nazionali in cui predominava il marco tedesco. Siccome il marco si rivalutava a causa della sua maggiore competitività, anche l’Ecu si rivalutava. Quando l’ECU fu trasformato nell’Euro sulla base di ECU1 = Euro 1, l’Euro nacque come moneta forte e quindi come potenziale rivale del dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale. In breve, il motivo principale dell’introduzione dell’euro fu di sfidare il signoraggio del dollaro.L’euro, dopo la sua nascita come moneta forte, doveva mantenere questa sua posizione di forza. La forza economica della Germania era una condizione. Ma anche gli altri Paesi della zona euro dovevano essere ugualmente competitivi sui mercati internazionali. E qui fu fatto un errore. Si estese l’euro a paesi che erano ben lontani dall’avere il livello di produttività e quindi di competitività internazionale necessari per contribuire a fare dell’Euro una moneta forte. Sono due le ragioni di questo errore. Primo, si volle creare una vasta area dell’euro cosicché sempre più paesi lo dovessero usare come moneta di scambio e di riserva. Secondo, si pensò che i paesi tecnologicamente più deboli, dovendo rinunciare alla svalutazione competitiva, sarebbero stati obbligati ad aumentare la propria produttività e competitività. Tuttavia, questo non è stato il caso principalmente perché si preferì ridurre i salari piuttosto che modernizzare l’apparato produttivo.
E’ su questa base che s’innesta la crisi dell’euro. Che cosa è? E’ la specifica manifestazione della crisi finanziaria nell’eurozona che è iniziata negli USA. Il capitale negli USA, in seguito alla depressione economica, si riversò nelle attività speculative. Più precisamente, furono concessi crediti a mutuatari di cui si sapeva che non sarebbero stati in grado di pagare i loro mutui.
Questi sono i famigerati mutui spazzatura. Sulla base di questi mutui spazzatura fu eretta un’enorme montagna di debiti che sono chiamati derivati perché in ultima istanza essi derivano il loro ‘valore’ dal mutuo sottostante. Le banche che concedono un mutuo godono di un credito nei confronti del mutuatario. Ora, la nozione che il credito sia moneta è accettata quasi unanimemente ma è tuttavia sbagliata. La moneta è un simbolo di valore, il credito è un simbolo di un corrispondente debito. Le banche, godendo di un credito che esse considerano come moneta, possono contrarre un debito sulla base di quel credito, e così via. Sorge così un’enorme montagna di debiti, la cosiddetta bolla speculativa. A un certo punto, quando i mutuatari diventano inadempienti, i derivati si sgonfiano. Le banche europee, avendo nei loro bilanci titoli (derivati) grandemente deprezzati (i titoli spazzatura provenienti dagli USA), devono ridurre il loro attivo e quindi sono a rischio di fallimento. Conseguentemente, gli stati finanziariamente deboli devono ricorrere a sempre maggiori prestiti (emissione di titoli) in euro al fine di (a) salvare il sistema bancario, (b) controbilanciare le minori entrate fiscali e (c) controbilanciare le minori esportazioni. Nella misura in cui la loro situazione finanziaria si deteriora, essi rischiano di diventare insolventi (cioè di non poter pagare gli interessi o il capitale dei titoli emessi) e devono emettere obbligazioni a tassi d’interesse crescenti. Ma ciò deteriora ulteriormente la loro situazione finanziaria. Quando il rischio di default diventa troppo grande, gli investitori non si accontentano più di alti rendimenti ma vendono quei titoli denominati in euro. Più i titoli di quegli stati sono venduti, più diminuisce il loro prezzo, più aumenta il tasso d’interesse che gli stati devono offrire e quindi la difficoltà di pagare interessi e capitale. S’innesca così un circolo vizioso alimentato ad arte dai fondi speculativi che giocano al ribasso sull’euro. A ciò si aggiunge il ruolo delle agenzie di credito.
La crisi dell’euro è il rischio d’inadempienza dei titoli di stato denominati in Euro dei paesi finanziariamente deboli e le possibili conseguenze di tali inadempienze per la struttura della euro zona o per l’euro come moneta internazionale o addirittura per la sua sopravvivenza. Si noti che il trasferimento della crisi finanziaria dalle banche agli stati ha creato la crisi del debito sovrano e quindi dell’euro ma, a causa dello sgonfiamento dei derivati, non ha risolto la crisi bancaria. Il 21 giugno l’agenzia di classificazione Moody’s ha retrocesso quindici banche di tutto il mondo, comprese la Bank of America e Citigroup negli USA e la Credit Suisse. Un altro modo per dimostrare che la crisi del debito sovrano e quindi dell’euro, e quindi l’attacco selvaggio al lavoro, non sono serviti a nulla.
La crisi dell’euro ha cambiato le carte in tavola cambiando le relazioni interimperialiste. Primo, la relazione tra gli USA e l’UE. Un Euro forte (che si rivaluta) da una parte indebolisce il ruolo del dollaro come moneta internazionale minacciandone il signoraggio, dall’altra però non solo facilita le esportazioni USA ma anche allontana l’esplosione della crisi finanziaria nella UE che si estenderebbe anche agli USA. Sotto il peso della crisi, gli USA sono costretti a privilegiare questi interessi contingenti piuttosto che quelli di lungo periodo (mantenimento del signoraggio). Ciò non significa che non vi sia (più) antagonismo tra dollaro ed euro (com’è stato detto molto superficialmente) ma che in questa congiuntura gli USA e l’UE si riscoprono fratelli nemici, naturalmente fino alla prossima fase di scontro. Ciò serve a spiegare perché il presidente degli USA, Barack Obama, chiede insistentemente alla UE di cambiare corso, dalla austerità alla crescita. Da una parte, questa domanda rivela la matrice Keynesiana che crede che per stimolare la crescita basti stimolare la domanda. Dall’altra, l’UE aumenterebbe le proprie esportazioni agli USA aumentando così, nella misura in cui anche le importazioni non aumentano, il signoraggio degli USA.
Secondo, la crisi dell’euro ha fatto emergere un’alternativa all’euro attuale per la Germania. Una frazione della borghesia tedesca vuole difendere l’euro attuale. Oggigiorno, questa è l’ipotesi vincente anche a causa della pressione degli altri stati dell’eurozona che temono la deflagrazione dell’euro. Ma un’altra frazione della borghesia tedesca vuole difendere l’euro ma a condizione che rimanga una moneta forte. In questo caso, la Germania e gli altri paesi finanziariamente più forti (come l’Olanda e la Finlandia) lascerebbero che i paesi deboli falliscano (la Grecia e il Portogallo ma anche la Spagna e l’Italia). I paesi deboli lascerebbero l’UE. L’eurozona si ridimensionerebbe ai soli paesi ‘virtuosi’ e l’euro diventerebbe la moneta di quella zona, un euro ‘nordico’. L’euro nordico diventerebbe l’espressione di economie forti e sarebbe in grado di sfidare il dollaro anche perché anche il dollaro si sta indebolendo, come sottolineato dal recente declassamento dei titoli USA per la prima volta. Lo sganciamento dall’euro debole e il passaggio all’euro forte, riducendo l’area dell’euro, presuppone un nuovo indirizzo strategico della Germania, l’espansione verso la Russia e la Cina, due paesi con immense riserve di materie prime e (relativamente alla Germania) a un livello relativamente basso di sviluppo tecnologico. Queste sono le condizioni ideali per l’appropriazione di valore da parte della Germania e per la costruzione di un euro veramente forte.
Terzo, la crisi dell’euro ha anche posto i paesi deboli di fronte a scelte difficili. Quella che ha colto di più l’attenzione è se uscire o no dall’euro. Qui non voglio esprimermi su questa questione. Piuttosto, vorrei fare chiarezza su un elemento che è uno dei fattori sulla base dei quali tale decisione deve essere presa. L’argomento più menzionato per proporre l’uscita dall’euro è che la moneta unica ha provocato una caduta delle esportazioni nei paesi meno tecnologicamente avanzati in seguito alla mancanza della svalutazione competitiva e che se si potesse ritornare alla possibilità di usare la svalutazione competitiva, esportazioni, produzione, salari e profitti aumenterebbero. L’economia tornerebbe a crescere. Ciò è falso. Esportazioni e produzione aumenterebbero ma ciò non farebbe crescere l’economia perché a fronte di questa maggiore produzione vi sarebbe una perdita di valore verso l’estero.
In essenza, supponiamo che l’Italia ritorni alla lira e la Germania rimanga nell’Euro. Supponiamo che prima della svalutazione un euro valga 1,000 lire, che con un euro si possa comprare una matita tedesca e con 1,000 lire una matita italiana. Prima della svalutazione, la Germania cambia un euro per 1,000 lire e compra una matita italiana. l’Italia, dal canto suo usa quell’euro per comprare una matita tedesca. Supponiamo ora una svalutazione della lira. Dopo la svalutazione, un euro vale 2,000 lire. Ora la Germania cambia un euro per 2,000 lire e compra due matite italiane. Con quelle 2,000 lire l’Italia compra un euro e con quell’euro può comprare solo una matita tedesca. La produzione di una matita in Italia è andata alla Germania senza corrispettivo essenzialmente perché attraverso la svalutazione la matita è stata venduta a un prezzo inferiore. Grazie alla svalutazione, la Germania si è appropriata di una matita italiana. Per di più, la matita (più in generale i mezzi di produzione, sia capitale fisso sia circolante) non può contribuire alla crescita economica dell’Italia e quindi la sua produzione non influisce sulla crescita dell’economia italiana.Dopo la svalutazione, i maggiori salari e profitti dovuti alla maggiore produzione indotta dalla svalutazione hanno lo stesso potere d’acquisto reale (in termini di merci, di valore) dei minori salari e profitti di prima della svalutazione. I salari e i profitti sono aumentati in termini della valuta nazionale ma il loro potere d’acquisto (le merci che essi possono comprare) rimane immutato. Nella misura in cui l’effetto è l’inflazione, una nuova ondata di svalutazioni sarebbe necessaria.
Quindi, è giusto sostenere che l’aumentata domanda esterna indotta dalla svalutazione farebbe aumentare la produzione ma è errato sostenere che tale aumentata produzione fa aumentare la crescita economica. Il riferimento d’obbligo è l’Argentina. Ebbene, l’ex ministro delle finanze argentino, Domingo Cavallo, che introdusse il tasso di cambio paritario tra il peso e il dollaro, non lascia dubbi: “E’ assolutamente sbagliato e fuorviante attribuire la rapida crescita economica dell’Argentina alla svalutazione del 2002”.
La discussione attuale se per l’Italia sia meglio uscire o no dall’euro non va al cuore del problema. Non solo perché il ritorno alla svalutazione competitiva e quindi alla moneta nazionale non servirebbe a far crescere l’economia nazionale. Ma anche e soprattutto perché tale discussione ignora quanto dimostrato da Marx ed evidenziato ampiamente dalla storia del capitalismo, e cioè che le crisi sono inevitabili, che quindi né le politiche neo-liberiste né quelle Keynesiane servono a risolvere la crisi. La differenza tra le due politiche è che quelle keynesiane servono a migliorare le condizioni dei lavoratori mentre quelle neo-liberiste a peggiorarle. Ma entrambe sono impotenti di fronte alla crisi.
Tuttavia, un’analisi delle politiche Keynesiane (condotta in altro luogo) dimostra che i miglioramenti per il lavoro sono di corto periodo. Allora, tali politiche sono importanti solo nel contingente? No, la loro importanza risiede essenzialmente nel loro potenziale politico, nella possibilità che la lotta per i miglioramenti dei lavoratori faccia crescere la coscienza (1) che tutte le volte che queste politiche sono pagate dal capitale esso è indebolito sia economicamente sia politicamente e (2) che il lavoro deve approfittare di questa debolezza per creare le condizioni per liberarsi dal giogo del capitale. Tali politiche hanno veramente senso solo se servono a sedimentare la coscienza antagonista della classe lavoratrice e se servono ad aumentarne la forza.
L’ideologia Keynesiana sostiene a torto che la redistribuzione e gli investimenti a favore del lavoro offrono non solo la possibilità al capitale di uscire dalla crisi ma anche vantaggi per il lavoro, e che quindi vi sia una comunione d’interessi piuttosto che un irriducibile antagonismo tra le due classi. Ma tale ideologia non è il solo pericolo. Ancora più insidiosa è la tesi che, invece di ridurre i salari, una nazione tecnologicamente meno avanzata dovrebbe aumentare l’efficienza e che ciò sarebbe vantaggioso anche per i lavoratori perché una parte del maggiore prodotto potrebbe essere ridistribuita al lavoro.
Sembrerebbe che vi sia una comunione d’interessi, che sia il capitale sia il lavoro debbano applicarsi per aumentare l’efficienza dell’apparato produttivo della loro nazione. Ciò è falso. Non solo perché una maggiore efficienza implica disoccupazione tecnologica ma anche perché, attraverso questa maggiore efficienza, i capitalisti avanzati di un paese sottraggono plusvalore ai capitalisti tecnologicamente meno sviluppati di altri paesi (questo è il caso della Germania e dell’Italia). La crisi è scaricata su questi ultimi i quali, al fine di recuperare il plusvalore perduto, scaricano a loro volta i costi della propria crisi sui propri lavoratori. La classe operaia della nazione che avanza tecnologicamente diventa così complice del peggioramento delle condizioni della classe operaia delle altre nazioni e del rafforzamento del capitale nazionale. I diversi livelli di competitività sono un problema del capitale, non del lavoro. La lotta del lavoro contro il capitale non può che essere tra le classi lavoratrici di tutti i paesi, non può che essere internazionalista.
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Immagine in evidenza: Banca Centrale Europea. Francoforte
Autore: giorgio minga; 26 January 2010
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