Sergio Cararo (in “Il vicolo cieco del capitale”)
“Mi preoccupa il fatto che quando l’Unione Europea agisce come soggetto unico negli affari mondiali molto spesso, e sarei tentato di dire, sempre, agisce in opposizione agli Stati Uniti. Sarebbe un errore, un errore capace di portare gradualmente a una frattura tra le due sponde dell’Atlantico in un mondo sempre pieno di problemi”.
Le parole esplicite di un uomo influente come Henry Kissinger, in un’intervista al settimanale Panorama nel giugno del 2001, ricordano molto da vicino quello di un altro influente uomo dell’establishment statunitense come Martin Feldstein, un economista che era stato il capo dello staff economico di Bush padre ed era poi stato assunto come consigliere anche nell’amministrazione presidenziale di Bush figlio.
Nel 1997, Feldstein pubblicò un famoso saggio sulla rivista Foreign Affairs che fece tremare le vene ai polsi ai leader europei. La sua tesi, confermata in un’intervista al Sole 24 Ore, era che l’introduzione dell’Euro avrebbe portato “alla discordia e alla guerra all’interno dell’Europa” e “alla guerra tra Europa e Stati Uniti”, ragione per cui egli aveva richiesto un cambiamento della politica estera degli USA verso l’Europa (Sole 24 Ore, novembre 1997).
È doveroso infine sottolineare come anche l’ex cancelliere tedesco Khol, un anno prima di Feldstein (intervenendo a una conferenza all’università di Lovanio nel 1996), avesse dichiarato che “L’integrazione economica europea è una questione di pace o di guerra nel XXI Secolo”, un’affermazione che in tempi più recenti lo stesso Helmut Khol ha ribadito in un’intervista al Corriere della Sera.
Queste tre considerazioni avvengono a cavallo tra la fine degli anni Novanta e il primo anno del XXI Secolo, il periodo in cui nell’economia internazionale si afferma una nuova moneta internazionale diversa e per molti aspetti alternativa dal dollaro: l’euro. Un periodo in cui si devono segnalare eventi politici e storici laceranti come la guerra in Jugoslavia nel 1998-1999 – dunque nell’immediata periferia del cuore dell’Europa – e l’avvio della guerra permanente che sarà poi dichiarata ufficialmente dopo gli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti.
Sembra passato un secolo eppure sono fatti e dichiarazioni avvenuti nell’arco di un solo quindicennio. Il passaggio della crisi in corso, maturato negli Stati Uniti alle fine del 2007, si è in realtà rovesciato come una slavina sull’economia dell’Eurozona ricorrendo a tutti i mezzi di una guerra valutaria tra le due sponde dell’Atlantico (o meglio dagli Usa contro l’Eurozona) e di una guerra permanente sul piano militare che ha alternato momenti di concertazione con momenti di aperta divaricazione tra Stati Uniti e Unione Europea nella gestione dei teatri di crisi e poi della crisi economica stessa. E’ ormai quasi impossibile tenere separate le due dimensioni. E’ una dinamica del processo storico che ha messo in seria crisi la principale camera di compensazione delle relazioni tra i due blocchi: la Nato.
Per dirla con Brzezinski: “Per gli Stati Uniti, la NATO non è solo il meccanismo principale che consente loro d’intervenire nelle questioni europee, ma anche la base per la presenza militare – politicamente decisiva – nell’Europa occidentale”. Compito della NATO è dunque quello di operare affinché l’Unione Europea resti sul piano militare e politico un polo imperialista di secondo rango.
Ma le tendenze in corso spingono in un’altra direzione. La costruzione dell’Unione Europea, la sua unificazione monetaria, l’avvento dell’Euro come moneta per le transazioni internazionali, la costituzione di un complesso militare-industriale europeo e la riorganizzazione dei poteri decisionali dell’Unione (vedi i nuovi Trattati europei approvati negli ultimi due anni e quelli in cantiere), hanno dato il segno delle ambizioni dell’Unione Europea a guida franco-tedesca a giocare un ruolo di “potenza globale” nelle relazioni internazionali verso i paesi emergenti ed anche in quelle con il vecchio tutore statunitense.
Nei prossimi mesi verificheremo se a queste ambizioni corrisponderà la capacità effettiva di realizzarle sia sul piano economico sia sul piano politico e geopolitico. Indicativo ad esempio è il recente giro di colloqui tra i ministri della difesa dei principali stati dell’Unione Europea sul progetto per dotarsi di sistemi missilistici e aerei senza pilota a tecnologia avanzata. Il tema è stato al centro del colloquio tra i due ministri della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian e quello tedesco Thomas de Maizière. Poi il francese ha incontrato a Parigi il suo omologo italiano, l’ammiraglio Di Paola e il 2 luglio a Londra incontrerà il britannico Hammond. L’Europa, dicono i francotedeschi, non produce ancora insieme droni, o missili antimissile, né aerei invisibili o altre superarmi postmoderne. “I negoziati sui droni saranno il primo banco di prova. Aviazioni europee hanno in servizio droni made in USA, britannici e francesi stanno sviluppando insieme un drone, ma la Eads a guida tedesca fa loro concorrenza con il suo drone Talarion. Alla fine ogni prodotto nazionale costerà troppo e arriverà troppo tardi. Il tempo stringe, per rincorrere il livello tecnico dei droni-killer antiterrorismo americani o israeliani, e per non farsi sorpassare da Mosca, Pechino, New Delhi. E magari per avere un domani caccia supersonici senza pilota” (La Repubblica, 15 giugno 2012). In realtà su questo non si parte da zero poiché è stato già avviato da quattro anni il pro- gramma europeo “Neuron” guidato dalla francese Dassault, programma denominato LOGIDUC-3 per lo sviluppo e la realizzazione in tre step (AVE- D Petit Duc, Ave-C Moyen Duc e AVE Grand Duc) di un dimostratore di tecnologia Stealth (invisibile ai radar). L’obiettivo è la realizzazione di una serie di dimostratori tecnologici di UCAV stealth per esplorare gli aspetti operativi sia di un nuovo velivolo non pilotato da combattimento, sull’esempio dell’X- 45C e dell’X-47B americani, sia di un nuovo bombardiere stealth, da realizzare in un arco temporale compreso tra il 2020 e il 2025 (Industria Difesa 2008).
Dovremmo poi sottolineare la corsa dell’Unione Europea (sicuramente di Germania e Italia) alla autosufficienza energetica attraverso i corridoi North Stream e South Stream in cooperazione con la Russia. Il secondo corridoio è in aperta competizione con il Nabucco fortemente voluto dagli Stati Uniti per tagliare fuori Russia e Iran dai corridoi energetici. Dal settembre 2011, Francia e Germania sono diventata ufficialmente partner del South Stream a spese delle quote dell’ENI scese 20% perché il 15% per uno sono state acquisite dalla tedesca Basf e dalla francese Edf. Per ammissione stessa dei soci: “questo renderà il corridoio più europeo e assumibile come obiettivo dalla UE”.
Questa digressione sugli aspetti politici e geopolitici della crescente divaricazione d’interessi strategici tra Stati Uniti e Unione Europea, non sostituisce ma completa un’analisi delle tendenze con cui i due poli affronteranno questo passaggio della crisi. E’ importante, infatti, non limitarsi a fotografare l’esistente ma a cogliere le dinamiche e le loro possibili variabili.
A nostro avviso commettono un errore coloro che si adagiano sulla fotografia di un’Unione Europea litigiosa e frammentata al suo interno o che continuano a leggere il processo di formazione del polo imperialista europeo come mera sommatoria delle politiche dei vari stati nazionali membri dell’Unione Europea.
In realtà le classi dominanti europee, soprattutto quelle franco-tedesche, hanno messo in moto e stanno gestendo con discreta capacità di risultato un processo di centralizzazione e gerarchizzazione crescente sul piano dei poteri decisionali e dei loro interessi strategici comuni. Il polo europeo configura una nuova forma stato sopranazionale che concentra tutti gli aspetti decisivi e lascia ai singoli stati la gestione degli aspetti secondari e particolari. Affrontare la competizione globale con gli Stati Uniti e i BRICS non è, infatti, un pranzo di gala e la guerra valutaria contro l’euro ne è una dimostrazione. Come mai, infatti, una crisi che nasce proprio dentro il sistema bancario privato e per di più statunitense, solo nell’Unione Europea si è manifestata come crisi del debito pubblico degli Stati? E’chiaro che in quest’operazione i mercati finanziari hanno risposto a input propri ma anche a input di carattere politico, e questi input vengono sia dall’economia statunitense sia dai suoi apparati politici (e la Fed deve essere considerata come tale). Non si tratta del complotto anglo-sassone o giudaico-massonico sul quale la letteratura della destra e dei fascisti cerca ancora di campare di rendita e di seminare confusione (ha fatto benissimo Carchedi in questo convegno e negli anni scorsi a rimettere nella giusta carreggiata la questione del signoraggio del dollaro sul quale c’è una manipolazione della destra che alimenta una straordinaria e pericolosa confusione).
L’introduzione dell’euro, infatti, segna una rottura importante del signoraggio internazionale del dollaro sul quale si è retta buona parte dell’egemonia statunitense nel dopoguerra e alla quale gli Usa sono ricorsi spesso e stanno cercano di ricorrere nuovamente per scaricare la loro crisi sul resto del mondo. Lo fanno alimentando la liquidità, stampando e iniettando miliardi di dollari nell’economia interna e internazionale e cercando di scaricare all’esterno i costi della crisi. Il problema è se questa “consuetudine” funzionerà ancora. Anche nell’ultimo vertice del G20 a Los Cabos, l’amministrazione Usa ha insistito affinché l’Eurozona riducesse le politiche di rigore ma soprattutto le misure deflazioniste. Se gli Usa hanno bisogno di scaricare la loro inflazione all’estero, il fatto che l’Europa faccia barriera con la deflazione diventa un serio problema.
C’è poi un capitolo interessante che attiene alla competizione globale tra le multinazionali, in qualche modo strutturate nell’Eurozona, rispetto a quelle statunitensi.
Infatti, nel 2004, due anni dopo che l’euro è diventato una moneta circolante a livello internazionale, le multinazionali hanno prima agganciato quelle statunitensi e sei anni dopo (nel 2010) le hanno superate. La moneta unica ha abbattuto del 5% i costi industriali dovuti al cambio tra valute. Il mercato interno e la moneta unica sono stati estremamente vantaggiosi per le multinazionali europee.
Anno | Multinazionali europee | Multinazionali statunitensi |
---|---|---|
2002 | +3,8 | +4,0 |
2007 | +9,0 | +8,7 |
2008 | -6,2 | +5,8 |
La tendenza manifestatasi alla fine dello scorso decennio, è confermata dai dati sulle vendite all’estero delle multinazionali. Nel 2010, infatti, le multinazionali europee hanno realizzato il 78% delle vendite al di fuori del paese d’origine (di cui il 47,5% al di fuori dell’Unione Europea), quelle statunitensi il 52% e quelle giapponesi il 53%. E’ chiaro che tenendo conto che l’Unione Europea si configura ormai come un mercato interno e non internazionale, l’aggancio è ancora da raggiungere ma occorre tenere conto che non tutti i paesi Ue aderiscono anche all’Eurozona e che la tendenza è comunque in crescita mentre quella statunitense ristagna da qualche tempo. Inoltre, le multinazionali europee nei paesi emergenti hanno il 23% delle loro consociate, quelle statunitensi 17,8 e quelle giapponesi il 17,9. In Cina le consociate di multinazionali europee e statunitensi si equivalgono (22%) ma sono superate da quelle giapponesi (29%), anche in India consociate europee e statunitensi si equivalgono (Sole 24 Ore del 5 luglio 2011).
La classifica mondiale delle prime cento multinazionali rivela il cambiamento di fisionomia negli ultimi venti anni (usando come indicatore il fatturato.)Quelle statunitensi erano ventisei nel 1990 sono scese a diciannove nel 2008. Quelle britanniche erano tredici nel 1990 e sono salite a quindici nel 2008. Quelle dell’Eurozona erano trentasei nel 1990 sono diventate trentasette nel 2008. Quelle giapponesi erano dodici e sono scese a dieci. Quattro paesi emergenti come Corea, Cina, Malaysia, Messico non ne avevano nessuna nel 1990 e adesso ne hanno sette. Occorre tenere conto che gli scambi all’interno delle varie filiere delle multinazionali, rappresentano un terzo degli scambi commerciali mondiali e la metà di quelli all’interno dei paesi industrializzati che aderiscono all’OCSE.
In conclusione ci sembra di poter affermare che la tabella di marcia dell’Unione Europea stia utilizzando la crisi come fattore costituente per portare a conclusione il suo processo di centralizzazione politica, di costruzione di una borghesia “europea” e di una divisione del lavoro nell’eurozona che delinea una rigida gerarchizzazione tra i vari paesi aderenti. Questo processo era iniziato con un’altra crisi, quella del Sistema Monetario Europeo nel 1992 che colpì soprattutto la sterlina e la lira ma che diede un impulso decisivo all’applicazione del Trattato di Maastricht firmato nello stesso anno. Sbagliava chi in questi anni ha sottovalutato la natura imperialista dell’Unione Europea, sbaglia di nuovo chi pensa di poterla riportare alla dimensione di un “capitalismo dal volto umano”.
NOTE
[1] ↑ Intervento al Forum “Il vicolo cieco del capitale” promosso dalla Rete dei Comunisti. Napoli, 30 giugno 2012.
CREDITS
Immagine in evidenza: L’incoronazione imperiale di Carlo Magno.
Autore: Friedrich Kaulbach; 1861
Licenza: Public domain
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