Massimiliano Piccolo in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012
Se esiste un canone, un paradigma, in base al quale si può comprendere il motivo che ha reso grandi alcuni personaggi, leggere gli scritti di Hobsbawm ci aiuta a possederlo. Davanti ai cumuli di parole confusamente (e ideologicamente per chi pensa alla realtà come a un eterno presente immodificabile) usate contro il progresso – o meglio- contro l’oggettività di un processo in cui alcune tappe della storia dell’umanità hanno rappresentato delle vette (piacerebbe chiamarle punti di non ritorno), Hobsbawm appare, invece, il compagno fedele e serio, rigoroso e mai dogmatico della ricerca di punti nuovi e d’avanzamento.
In quest’inizio d’autunno, Hobsbawm ha smesso di cercare nuovi punti tra le pieghe della realtà. Non troveremo più suoi scritti sul passato (ma anche sul futuro; chi l’ha letto sa quanto fosse interessato alla comprensione profonda dei processi in essere e, quindi, all’intelligibilità di ciò che può o deve avvenire) ma ha lasciato in eredità un metodo e una passione che non potranno che sopravvivergli. Di questo metodo e di questa passione continuerà a discutere la comunità scientifica degli storici; come anche della sua chiarezza dovrà farsi carico chi, a vario titolo, è impegnato nell’insegnamento.
E per i comunisti, per i marxisti? Di cosa farsi carico?
Se possibile, il peso è ancora più grande: metodo e passione e chiarezza. La congiunzione e mai la disgiunzione, come sempre dovrebbe essere quando si predica di queste cose, s’impone come regola-madre. Seguiamola, finché ci riesce, anche noi.
Dunque, seppur entro certi limiti e dopo aver indagato a fondo il passato nelle sue tendenze e nei suoi problemi, dobbiamo sfidare l’imprevedibilità del futuro: questo ci raccomanda Hobsbawm. Per questa ragione, partendo dai fatti esemplari della guerra nel Golfo, ha scrutato il nuovo rapporto che si stava definendo tra le guerre degli Stati e le guerre private gestite dai privati [1]. Nuovo rapporto che Hobsbawm, non cedendo mai alla tentazione modaiola di una globalizzazione senza aggettivi – come vedremo meglio più avanti – non ha letto alla luce di una presunta estinzione degli stati-nazione. E ancora: di famiglia ebraica, ha sempre negato a Israele – e al sionismo – ogni fondazione storica, ricordando sempre il contrasto di quest’ultimo con l’ortodossia religiosa ebraica. Rileggere quelle pagine oggi, tenendo gli occhi ben aperti su quanto sta avvenendo in Medio Oriente, fa capire quanto ciò che rende grande un personaggio sia il parlare, lo scrivere e il fare che è capace di compiere un passo avanti per l’intero genere. Questo ci piacerebbe fosse un punto di non ritorno.
Volle, pur tuttavia, essere essenzialmente uno storico dell’Ottocento: cioè degli anni che avevano raccolto i frutti del secolo delle rivoluzioni borghesi [2], che non ne segnavano solo l’apogeo ma ne dispiegavano pure le contraddizioni, la lotta incessante e ineliminabile per il superamento.
Il trionfo della borghesia 1848-1875 [3] assume, infatti, una periodizzazione che rimanda a questa polarità: la borghesia, dopo l’Ottantanove ha ormai trionfato contro aristocrazia e l’ancien regime ma, dalle contraddizioni che essa stessa apre al proprio interno non genera solo la cosiddetta primavera dei popoli ma a Parigi, tra febbraio e giugno del ‘48, è squarciato – come scriveva Marx [4] – il velo della Repubblica borghese. Il capitalismo ha così partorito il proprio mostro, la propria negazione. Nell’introduzione alla stessa opera, Hobsbawm ricorda che prima del 1860 era raro, nel dizionario economico e politico mondiale, il vocabolo “capitalismo” e che, nel 1867, uscì Das Kapital di Marx: «il trionfo su scala generale del capitalismo» fu, infatti, il tema dominante della storia nei decenni successivi al ‘48. Vale pure la pena riportare la citazione di Alexis de Tocqueville, tratta da un intervento alla Camera dei Deputati (sempre nel ‘48) e con cui Hobsbawm apre il primo capitolo: “Stiamo dormendo su un vulcano – disse – […]. Non vedete che la terra ha ripreso a tremare? Soffia un vento di rivoluzione, la tempesta cova all’orizzonte” [5].
Quasi contemporaneamente, il trentenne Marx e il ventottenne Engels formulavano quei principi della rivoluzione proletaria che la tedesca Lega dei Comunisti aveva loro incaricato di redigere. Tocqueville metteva in guardia i suoi colleghi dalla rivoluzione per impedirla, Marx ed Engels la auspicavano e ne descrivevano le linee fondamentali: il tutto nel giro di pochi mesi.
Così, 150 anni dopo la prima pubblicazione anonima e col titolo tedesco di Manifesto del Partito Comunista, la casa editrice Verso, con sede a Londra e New York, affida a Hobsbawm il compito di scrivere l’introduzione alla nuova edizione [6]. Marx, lì si legge, è stato il primo, grande studioso della globalizzazione, perché il capitale deve diffondere il suo modo di produzione per riprodursi. E in questa sua tendenza espansiva deve continuare a trasformarsi incessantemente, perché la crisi è immanente alla produzione capitalista. Bene, annotava lo storico inglese, Marx lo aveva scritto nel 1848: pagine dunque pienamente attuali di fronte alla crisi che sta sconvolgendo il Modo di Produzione Capitalistico contemporaneo. Ma per l’appunto – come scrivevamo prima – globalizzazione capitalistica e non senza aggettivi, come anche intelligibilità del futuro tratta dalla conoscenza scientifica dei processi in essere e non, invece, profezia. Ancora: pochi mesi fa, intervenendo pubblicamente, descrive il processo sul quale oggettivamente sembra incanalato il movimento storico, individuandolo nella pianificazione.
I paradossi della storia, della vita, non si possono fuggire del tutto e, per quanto Hobsbawm abbia voluto essere uno storico dell’Ottocento, ciò che l’ha reso più famoso (per quella strana congiuntura descritta dagli antropologi – come ha ricordato nella sua autobiografia [7] – di essere stato rispetto al secolo un “osservatore partecipe”) è stato lo studio sul Novecento [8]. Essere partecipe, nel Novecento, significava letteralmente prendere parte: e prese quella giusta senza mai tornare indietro. Anche la famosa categoria storiografica del secolo breve, per ammissione dello stesso Hobsbawm, fu parte di questa sfida sul futuro. Alla radice c’era il convincimento che la grande guerra e la rivoluzione bolscevica fossero le due forme attorno alle quali si era strutturato, in un intervallo di tempo ben preciso e in uno spazio geografico determinato, il conflitto capitale-lavoro, come contraddizione fondante del modo di produzione capitalista ma, per l’appunto, all’interno di un processo che, come ogni cosa della storia, non è mai eterno: non si è, cioè, costretti a morire sotto il capitalismo. Di più: neanche quest’ultimo, in realtà, esiste come un’unità indifferenziata, soggetto com’è anch’esso a continue trasformazioni. D’altra parte, confidando nelle onde lunghe dell’economista Kondrat’ev, valutò che la nuova fase dell’economia mondiale, iniziata nel 1973, fosse destinata a far finire ciò che era iniziato in maniera evidentemente nuova nel 1914. Il collasso dell’Unione Sovietica gli sembrò la conferma empirica. Un collasso che rendeva, agli occhi acuti di Hobsbawm, più difficile anche la ripresa stessa del modo di produzione capitalista dalla sua crisi mostrando, così, una sostanza delle cose ben diversa da quella cantata in salmi e preghiere dagli apologeti del libero mercato. Al secolo breve segue, infatti, una lunga (e non ancora ultimata) emersione.
Nutriva sicuramente simpatia per la scuola francese delle “Annales” ma credeva in una storia in cambiamento: strutture sì, ma non permanenti. La passione per la storia, infatti, gli derivava dalla lettura e dalla comprensione di Marx. In occasione del simposio “Il ruolo di Karl Marx nello sviluppo del pensiero scientifico contemporaneo” tenutosi, a Parigi, nel 1963, Hobsbawm, si chiedeva, infatti, quale fosse il debito degli storici nei confronti di Marx [9]. La gran parte di ciò che ancora oggi si considera un influsso marxista nella storiografia – scriveva – è, invece, frutto della volgarizzazione del marxismo stesso; d’altra parte, avvertiva, le opere in cui Marx aveva lavorato con più approssimazione allo storico, come il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, interessarono gli storici di professione tardivamente. Il valore principale che Marx ha per gli storici – gli appariva dunque – quello fondato direttamente sulle affermazioni riguardanti la storia e non quello desunto da riflessioni generali sulla società: il marxismo, infatti, non è certo l’unica teoria struttural-funzionalista della società (così come non è l’unica ad aver posto l’accento sulla base economica), ma è l’unica capace di spiegare come e perché le società cambino e si trasformino per le contraddizioni interne di una dimensione necessaria. In occasione del centenario di Marx ricorda, inoltre, un episodio autobiografico: “Quando ero studente a Cambridge negli anni trenta, molti fra i ragazzi più in gamba avevano aderito al partito comunista. Ma dato che quello fu un periodo particolarmente brillante nella storia di una prestigiosissima università, vennero in gran parte e profondamente influenzati dai grandi nomi che ci fecero da docenti. Fra gli studenti comunisti – ricorda – circolava una battuta: i filosofi comunisti erano in realtà dei wittegensteiniani, gli economisti comunisti erano dei keynesiani, i comunisti che studiavano letteratura erano dei seguaci di F. R. Leavis. E gli storici? Erano marxisti!” [10]. Anche Althusser, d’altra parte, ammoniva sul fatto che essere marxisti e comunisti non sempre coincideva [11]. Per noi, con buona pace della sinistra opportunista contemporanea, le distinzioni (comunisti e/o keynesiani) rimangono d’obbligo.
Essere comunista e marxista, per lui nato ad Alessandria d’Egitto e vissuto e formatosi nella Mitteleuropa degli anni Venti e Trenta, non fu mai invece una moda intellettuale o una scelta opportunista.
Dicevamo che da oggi non potrà più cercare punti nuovi e d’avanzamento; ma chi vorrà potrà utilizzare quella bussola che coraggiosamente ha custodito e instillato qua e là nei suoi libri.
Il novecento, il secolo del suffragio universale e della decolonizzazione, della rivoluzione bolscevica e della sconfitta del nazifascismo non può essere ridotto all’orrore. Non sono state solo macerie; anzi. Perché altrimenti della stessa morte morirebbero anche l’Ottantanove o il Novantuno rappresentando la ratifica di un fallimento; mentre la lunga emersione dal secolo breve ci sta parlando di ben altri fallimenti. Ripartiamo da una sconfitta ma anche da un grande secolo, non da macerie. E grazie ai suoi libri lo possiamo capire meglio.
NOTE
[1] ↑ Cfr.: E. J. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, Laterza, RomaBari, 1999.
[2] ↑ Cfr.: E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il Saggiatore, Milano 1963.
[3] ↑ Cfr.: E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848-1875, Laterza, Roma-Bari, 1998.
[4] ↑ Cfr.: K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori riuniti, Roma, 1992.
[5] ↑ E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848-1875, op. cit., p. 11.
[6] ↑ The Communist Manifesto, A modern Edition, Verso, 1998.
[7] ↑ Cfr.: E. J. Hobsbawm, Anni interessanti, BUR, Milano, 2004.
[8] ↑ E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995.
[9] ↑ Cfr.: E. J. Hobsbawm, De Historia, Rizzoli, Milano, 1997, pp. 170-188.
[11] ↑ Cfr.: L. Althusser, I marxisti non parlano mai al vento, Mimesis, Milano, 2005.
CREDITS
Immagine in evidenza: Eric Hobsbawm at Hay-on-Wye 2011
Autore: Rob Ward; 31 maggio 2011
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