Redazione
Studiare e comprendere la teoria marxista del valore è l’auspicio con cui termina quest’articolo, che riproponiamo più avanti, scritto da Antonio Pesenti per Rinascita nel gennaio del 1945.
La guerra e il nazifascismo non avevano piegato l’intelligenza critica dei marxisti italiani, anzi ne avevano rafforzato la capacità penetrativa e sottolineato la responsabilità storica e politica. Già allora, ed oggi con ancora più urgenza, è centrale la conoscenza adeguata della teoria del valore in Marx (e il suo ‘completamento’ in Lenin, come suggerisce lo stesso Pesenti); perché la ferocia ideologica con cui è stata spesso affrontata mostra sia i tentativi di neutralizzarla attraverso la mistificazione o l’ignoranza, sia le crepe nelle quali è possibile organizzare una risposta scientifica e politica all’altezza della posta in gioco. Qual crepa più grande, infatti, e nella quale Pesenti s’infila con grande arguzia, di quella che mostra come l’economia classica che era iniziata con l’obiettivo di spiegare la struttura del sistema e le sue leggi, si sia ridotta, invece, a ‘ricetta’ per i capitalisti? E che questo sia accaduto perché non si è potuta sottrarre in quanto forma di sapere espresso dalla classe dominante al controllo che essa esercita? Proprio la sua ‘astrazione’ e ‘formalizzazione’, la separatezza cioè tra la forma generale e la ricchezza concreta delle articolazioni reali, è quindi funzionale al mantenimento della posizione dominante della borghesia: è questa la ragione – Pesenti la chiama ‘politica’ – che spinge l’economia ufficiale a lasciare la strada intrapresa dai classici. Tautologia formale dunque e, nel concreto, appiattimento sulla casistica. Il marxismo, allora, non rappresenta solo lo strumento d’emancipazione del proletariato; coglie anche il testimone, nella corsa verso la comprensione razionale del mondo, che il grande pensiero della borghesia rivoluzionaria gli lascia (in questo caso sotto la forma dell’economia classica), nel momento in cui quest’ultima cessa di essere rivoluzionaria, non essendo più il motore della storia moderna. Il mondo capitalistico, infatti, si complicava sempre più e non interessava (ai capitalisti) lo sviluppo del sistema, ma i prezzi del mercato e non il valore. La prima sottolineatura da fare, rispetto all’argomentazione messa in campo, è una questione di metodo che va salvaguardata: “Staccare una proposizione dal contesto, portarla in un’epoca in cui i termini hanno cambiato di significato, perché ha cambiato di impostazione e di significato tutta la teoria economica, significa non comprenderla”. Come a dire: una traduzione letterale è spesso una traduzione che tradisce il senso proprio e autentico della proposizione in questione (tanto per la malizia degli avversari quanto per il rischio di pedanteria di altri). E se questa precauzione metodologica valeva nel 1945, essa mantiene intatta anche oggi la sua funzione scientifica. Salvaguardare l’istanza posta da Pesenti significa oggi, ad esempio, tenere nella giusta considerazione l’evoluzione della produzione per come è stata determinata dai processi storici: lavoro produttivo e improduttivo, pur mantenendosi la distinzione categoriale tra i due, hanno visto modificarsi le figure attorno a cui ruotare. L’esempio, sostenuto da Pesenti, del lavoro del cameriere che non entra direttamente nel processo produttivo, deve misurarsi oggi col tentativo sempre più invasivo del modo di produzione capitalista che vuole mettere a valore le aree urbane considerate non più come contenitore di un bacino d’utenza naturale (la popolazione residente) da sottoporre a sfruttamento, ma investire sul potenziale di aree urbane intese come contenitori di soggetti in quantità notevolmente maggiori (turismo, studenti, ecc.). D’altra parte, però, come giustamente ripete Pesenti, la legge del valore domina la società capitalistica nel suo complesso. Salvaguardare l’istanza metodologica che questo articolo contiene, significa anche, dopo aver riconosciuto con Pesenti (e con Marx) che non è il capitale a creare il pluslavoro ma che oggi nella società attuale quel pluslavoro (inevitabilmente esistente) assume la forma particolare di plusvalore, vuol dire analizzare con eguale rigore scientifico i modi d’oggi dell’estrazione di plusvalore. Un oggi che rischia di assumere un valore paradigmatico nel momento in cui la crisi del modo di produzione capitalistico sembra manifestare elementi di novità non secondari ma anche una conferma: essere un effetto della caduta tendenziale del saggio di profitto.
La teoria del valore di Marx
Antonio Pesenti (Da Rinascita, gennaio 1945.) in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012
La teoria del valore di Marx ha avuto la singolare ma spiegabile sorte di essere spietatamente criticata senza essere conosciuta o senza essere compresa, sicché ancora oggi nella maggioranza dei cosiddetti studiosi, compresi celebri filosofi o professori universitari, con assoluta convinzione si ripetono luoghi comuni che con Marx e con il marxismo nulla hanno da vedere.
Eppure la teoria economica marxista è così chiara, così logica, così suggestiva e atta a spiegare tutti i fenomeni del mondo capitalistico che sarebbe proprio necessario che i nostri studiosi facessero la minima fatica di informarsene. Se non altro eviterebbero di dire sciocchezze nuove o di ripetere quelle – per parlare solo dei morti – che anche il Pareto diffondeva.
Ed ecco il primo punto. Si dice: il Marx afferma che il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario in essa contenuto (o meglio comunemente non si dice proprio così perché si direbbe troppo bene) e allora giù a criticare: ma non è vero; non c’è il solo lavoro.
E il capitale? E l’organizzazione? E così via. Staccare una proposizione dal contesto, portarla in un’epoca in cui i termini hanno cambiato di significato, poiché ha cambiato di impostazione e di significato tutta la teoria economica, significa non comprenderla. E così infatti avviene.
Solo meraviglia che ciò avvenga anche per coloro che hanno a lungo meditato (io non ci credo, però!) sui classici Smith e Ricardo. Dovrebbero subito aver notato che per i classici l’economia politica non era una serie di ricette che insegnassero al capitalista le dimensioni dell’impresa ottima, in modo da ottenere il massimo profitto! E neanche una serie di tautologie o la descrizione di luoghi comuni o dei “bisogni umani” o del fatto che il decimo cucchiaio di minestra soddisfa meno del primo.
Tutto ciò è ovvio. Per gli economisti classici l’economia politica doveva studiare la struttura economica del sistema, le leggi fondamentali che lo dominavano, i rapporti tra le varie categorie economiche, che nella sviluppantesi società capitalistica andavano sempre più nettamente differenziandosi, studiare i loro contrasti, le loro leggi di sviluppo, cioè la dinamica del sistema.
Quella era “l’economia del valore” e corrispondeva in pieno alle esigenze pratiche e quindi teoriche della sviluppantesi borghesia industriale nei suoi contrasti con i proprietari fondiari e i residui feudali, che pure avevano nella teoria i loro sostenitori (vedi per esempio il Malthus di fronte a Ricardo).
Da quella la scienza ufficiale passa alla “economia dei prezzi”, sia essa basata sull’utilità marginale o abbia gli aspetti di “economia matematica”, “economia aziendale, o econometrica” ed è naturale che le vecchie parole cambino di significato. Perché questi passaggi? Perché l’economia – che da politica diventa “pura” – si ferma sempre più alla superficie dei fenomeni, esagera il suo carattere intellettualistico e astratto? Noi marxisti sappiamo che ogni teoria ha la sua ragion d’essere, essa rispecchia situazioni e bisogni della società in cui nasce.
La scienza economica ufficiale rispecchia le esigenze della classe dominante. Noi quindi non possiamo rigettare così semplicemente una teoria, dire che essa è “sbagliata”, ma dobbiamo spiegarcela nelle sue origini, nella sua funzione e nella sua utilità pratica.
Perché ciò che è reale è razionale. Ora effettivamente l’economia classica cessa a un certo momento di essere lo strumento più adatto per la classe dominante, perché l’impostazione sua teorica non interessa più, mentre vengono ad interessare i problemi concreti del mercato, i problemi di economia aziendale, il comportamento della “domanda”.
Con l’abolizione delle leggi sul grano, la classe industriale celebra la sua vittoria a cui la teoria ricardiana della rendita aveva dato una potente arma teorica.
Ma nuovi problemi sorgono nella distribuzione del reddito totale, nei rapporti tra le categorie economiche rendita, profitto e salario, nella dinamica di questi rapporti, che Ricardo aveva analizzato particolarmente per i primi due: rendita e profitto.
noi abbiamo che la classe dominante supera in parte politicamente il contrasto tra rendita e profitto, poiché proprietari fondiari diventano industriali e industriali diventano proprietari di terre. Ciò che si perde come fondiario si guadagna e di più – dato il più rapido sviluppo dell’industria – come industriale, mentre sorge più forte il contrasto tra le due categorie del profitto e del salario, cioè tra capitalisti e proletari.
L’economia classica nella sua impostazione teorica, nello studio della dinamica del sistema, non avrebbe potuto fare altro che analizzare questo contrasto, trovarne le leggi di sviluppo. Ma ciò non poteva essere interesse della borghesia dominante, perché – si sa – le leggi di vita di un organismo sono anche le sue leggi di morte e morire dispiace.
Questo poteva e doveva essere interesse della classe che aveva davanti a sé l’avvenire, di quella classe che rappresentava l’antitesi del sistema esistente, che aveva interesse a negarlo, a superarlo, ed ereditarne le parti positive per potenziarle in un nuovo sistema di produzione. Era cioè interesse del proletariato, – del salariato.
E la teoria marxista è l’espressione teorica del proletariato, come la ricardiana lo è della borghesia industriale sviluppantesi. La teoria marxista sviluppando l’economia politica mantiene la stessa impostazione classica e ha come sua base la scoperta del plusvalore.
Ecco quindi la ragione “politica” per cui l’economia ufficiale lascia la via aperta dai classici per tentarne nuove: quelli che ancora seguono la strada dei classici si fermano a metà, ripetendo scolasticamente i vecchi maestri, oppure divenendo, nei neoclassici – degli eclettici, ammalati anche loro di casistica. Lasciando la via vecchia o non percorrendola sino in fondo, l’economia politica entra in un vicolo cieco e non si riesce più a trovare le leggi della dinamica economica, le leggi dello sviluppo economico.
Ecco il perché della “crisi” della scienza economica. Questo interesse negativo non basta certo a spiegare la svolta.
Vi sono altri motivi. Nell’economia classica, sorta in Inghilterra, espressione di una classe industriale che godeva di una posizione monopolistica, dato il più arretrato sviluppo del Continente, il problema del mercato, nel senso di problema della domanda era secondario.
La prima grande crisi di sovrapproduzione è del 1825-26, i Principi del Ricardo sono del 1921. Questa situazione è espressa teoricamente dal Ricardo con le parole: “Io non discuto l’influenza della domanda sul prezzo del grano, o su quello di tutte le altre cose, ma l’offerta segue rapidamente alle calcagna della domanda e presto assume essa la funzione di regolatrice del prezzo” (Lettere di Ricardo a Malthus).
La situazione non è però uguale in altri paesi e viene a mutare anche in Inghilterra. Lo studio della domanda, delle sue reazioni al prezzo, il modo di forzare il mercato, di sfruttarlo per collocare il prodotto, diventa preoccupazione predominante.
Non per nulla è proprio là dove la domanda ha importanza pratica (come nel monopolio, Cournot) che troviamo gli inizi della teoria del prezzo funzione della domanda e solo molto più tardi questa base teorica, col Jevons, si estende in Inghilterra e ha successo dopo l’industrializzazione tedesca. La ricerca dei mercati diventa affannosa con l’estendersi del sistema capitalistico in tutto il globo.
Il mondo capitalistico d’altra parte si complica. Il capitalismo di concorrenza della media industria diventa sempre più uno schema lontano dalla realtà effettiva: le chiare e semplici distinzioni – rendita – salario – profitto – si intrecciano con le numerose reazioni tra capitalisti; tra monopolisti e “indipendenti”.
Il mondo economico diviene sempre più interdipendente. La teoria economica si occupa sempre più dei problemi concreti, di casistica.
Le leggi dello sviluppo del sistema non interessano: interessano i prezzi del mercato (non il valore); come essi si formano concretamente. L’economia politica diventa economia dei prezzi.
La teoria dell’utilità marginale nel suo aspetto inglese o austriaco ha il suo quarto d’ora di celebrità. Il carattere intellettualistico, astratto del ragionamento scientifico che sarà portato al massimo dalla susseguente scuola matematica, domina tutta l’impostazione della nuova scienza, che ragiona a base di postulati e di Teoremi (vedi per l’Italia il Pantaleoni nei suoi Principi).
La scienza assume necessariamente due caratteristiche, che sembrano, ma non sono, contraddittorie. Da una parte l’estrema astrattezza formale, col risultato di esprimere tautologie, – dall’altro la ricerca minuziosa nel concreto, la casistica.
Ne consegue una scienza lontana dalla vita, superficiale nella soluzione dei grandi problemi, che non soddisfa e che ha preclusa la via per comprendere la dinamica del sistema. Per i fini concreti a cui tende, per gli scopi cioè della classe dominante, questa economia politica raggiunge in parte i risultati richiesti, perché la vita economica, considerata statisticamente, è come un circolo e agli effetti superficiali può essere indifferente iniziare l’esame da un punto piuttosto che dall’altro (partire dall’utilità, dal costo o dal prezzo), ma da un punto di vista dinamico non è lo stesso, perché allora non si tratta di circolo, ma piuttosto di una spirale, di una linea di sviluppo.
La scienza in ogni caso non ne guadagna, e senza sottoporre a critica le singole impostazioni, perché qui non ne è il luogo, occorre almeno accennare che considerare l’utilità funzione della quantità, e da questo iniziare la costruzione della scienza economica, – perché tutta, anche l’economia matematica alla fin fine poggia su questa base, – significa partire da metà strada. La quantità infatti non è un dato, ma un prodotto, prodotto dell’attività umana, del lavoro umano.
Queste brevissime e note osservazioni – che spero di poter meglio chiarire in altra sede, – indicano anche perché oggi la teoria del valore di Marx non sia conosciuta e non possa essere compresa, cioè giustamente interpretata, se espressa sommariamente nelle enunciazioni riportate nei corsi di economia che si tengono nelle università e come sia difficile comprenderla a chi sia abituato alla mentalità intellettualistica della scienza ufficiale. Eppure ripigliando il filone dei classici la cosa non è poi molto difficile.
L’economia classica distingueva intanto l’attività economia come attività produttrice di merci e questa limitazione aveva il suo motivo. Che tutto ciò che esiste nella società attuale abbia la sua ragione d’essere e quindi la sua utilità è ovvio, altrimenti non esisterebbe; ma che tutta la società debba materialmente vivere sul flusso dei beni materiali prodotti è pure un’altra affermazione indiscutibile.
Perciò ben facevano i classici a studiare il prodotto, a vedere quello che essi chiamavano prodotto netto e studiare come esso si distribuiva nelle categorie sociali non produttive di merci: ben facevano a parlare di valore e a distinguere il lavoro produttivo di valore da quello che non produceva valore. Smith ha in proposito l’esempio ben chiaro.
“Vi è una specie di lavoro che aggiunge valore all’oggetto su cui si esercita, ve n’è un altro che non fa simile effetto. La prima, come produce un valore, può essere chiamata lavoro produttivo, la seconda lavoro improduttivo; così il lavoro di un manifattore aggiunge in generale al valore dei materiali dei quali fa la sua opera quello del proprio mantenimento e dei profitti del suo padrone.
Il lavoro di un servitore al contrario non aggiunge valore di alcuna cosa. Sebbene il manifattore abbia i suoi salari anticipati dal suo padrone, pure in realtà non gli costa alcuna spesa, il valore di quei salari essendo in generale restituito insieme ad un profitto nel valore aumentato dell’oggetto su cui il suo valore si è esercitato.
Ma il mantenimento di un servitore non è mai restituito. Un uomo diventa ricco con impiegare una moltitudine di manifattori, egli diventa povero con mantenere una moltitudine di servitori” [1] .
Ora nessuno nega che anche il cameriere lavori e che il suo lavoro sia utile e che esso serva a rendere più produttivo il lavoro di un ingegnere, per esempio risparmiandogli tempo e conservandone le forze, ma direttamente esso non entra nel processo produttivo materiale dei beni e deve vivere di questo prodotto. L’economia classica aveva poi affrontato un altro principio di per sé ovvio – che il lavoro è l’origine e la misura del valore.
In questa proposizione vi sono due principi: uno direi filosofico e uno economico. Il primo lo conosceva anche papà Orazio “Nihil magno sine labore dedit vita mortalibus” e già prima di lui la Bibbia nella celebre maledizione.
Senza lavoro umano nulla esisterebbe di quanto oggi serve a sostentarci e ad allietare la nostra esistenza e pare impossibile che molto spesso questo semplicissimo ma basilare principio sia dimenticato. Sia facilitato da strumenti potenti, frutto del lavoro passato, o sia l’umile e poco redditizio lavoro del selvaggio, solo il lavoro crea, rende viva la materia inerte di cui esso si serve.
L’altro principio sembra meno appariscente e lo è meno nella complicatissima società moderna, mentre risultava più chiaro al tempo dei classici, nella epoca di trasformazione della produzione artigiana o della manifatture alla media industria. E il Marx di ciò tiene perfettamente conto, particolarmente nel terzo volume del “Capitale”.
Nell’economia mercantile artigiana è evidente il fatto che il lavoro determina il rapporto di scambio – poiché le poche materie prime e l’istrumento di cui il produttore si serve e di cui è proprietario, sono visibilmente prodotti d’un lavoro passato. Ed è anche comprensibile la specificazione marxista che il rapporto si determini in base al lavoro “socialmente necessario” cioè che non sia il lavoro di un singolo a determinare il rapporto, ma l’insieme dei produttori, nella media sociale (vedremo in altro luogo quanto siano fuori posto le critiche del Pareto).
Ricardo porta infatti nei suoi esempi casi di produzione artigiana. Su questo e in quest’epoca anche il Marshall conviene (vedi Principi, pag. 485 ed Utet 1928) dove il Marshall cerca di attenuare il principio ricardiano del valore – lavoro (come è noto l’interpretazione marshalliana fu controbattuta dal Cannan). E’ chiaro anche che la legge del valore sia quella che determina lo spostamento del lavoro nelle varie occupazioni, e che il valore sia differente dal prezzo, come il livello del mare è diverso dal mare reale, con le sue onde e i suoi risucchi.
Nella società capitalistica di concorrenza e nella società di monopolio il Marx non afferma affatto che i prezzi oscillino, per effetto della domanda e dell’offerta, attorno al valore – lavoro, ma, proprio, come ancora accettano i neoclassici nel caposcuola Mashall, attorno al costo di produzione, purché nel costo sociale di produzione (impresa tipo per il Marshall) si intenda compreso il profitto medio. Nella società monopolistica attuale, poi, nessuno nega che su questo influiscano le diverse condizioni di monopolio più o meno effettivo del mercato e quindi sia necessario tener conto del comportamento reattivo della domanda.
Ciò riguarda “l’economia dei prezzi” per dirla con termini moderni. Ma questo che cosa significa? Significa forse che la legge del valore non esiste, significa forse che il principio che solo il lavoro crea e produce non ha nessuna attuazione? Niente affatto.
Che il Marx riconosca che i prezzi oscillano attorno al costo di produzione, perché nella società capitalistica intervengono i rapporti tra i vari capitalisti, non muta il fatto che la legge del valore domini la società. Anzi e giustamente il Marx si sofferma poco su questo aspetto statico dell’economia, sulla economia dei prezzi (benché la sappia trattare meglio degli altri), perché non scriveva il Capitale per dare delle ricette ai capitalisti ma per analizzare i rapporti economici della società e vedere le leggi dello sviluppo della società.
La legge del valore domina. Domina la società capitalistica nel suo complesso, perché è sempre il lavoro che crea e qualunque siano le leggi che regolano la distribuzione del profitto dei capitali nelle varie imprese è sempre la produzione del lavoro umano che viene distribuita.
Vale per la società intera, non per i singoli rami della produzione, e anche oggi se il trust monopolistico ha dei profitti di monopolio, sfrutta la domanda, cioè il consumatore, ciò significa solo che si costringe milioni di contadini e di piccoli produttori, di operai a lavorare di più, a cedere al capitale finanziario parte del valore che essi hanno prodotto col proprio sudato lavoro. Che altro, se non questo, dimostra la società presente? Ma se per l’”economia dei prezzi” la teoria del valore potrebbe avere una limitata importanza e si potrebbe, – (come conviene agli economisti della classe dominate) – limitandoci alla superficie della realtà sociale, non andare in fondo, partire da mezza strada, partire dalla utilità marginale, dal costo come dato, o fare una graziosa equazione, legando tutti gli elementi che congiuntamente determinano la situazione del mercato, per la dinamica economica, per le leggi dello sviluppo economico, la teoria del valore è indispensabile.
Altrimenti, come succede oggi per la teoria ufficiale, ci si trova davanti il muro del vicolo chiuso. E qui sta il merito più grande del Marx, a cui egli è giunto con la scoperta del plusvalore.
Qui sta il merito insostituibile della teoria marxista del valore. Gli antecedenti per questa scoperta già c’erano, perché, se i classici riconoscevano capace di produrre valore solo il lavoro direttamente produttivo di merci è evidente che tutta la restante parte della società doveva vivere – economicamente – sul flusso dei beni materiali prodotti.
Ed è evidente che questo flusso nuovamente creato doveva essere nelle mani di coloro che, possedendo i mezzi di produzione, dominavano il processo produttivo. Ora che cosa dice appunto il Marx? “Il Capitale non ha inventato il pluslavoro.
Dovunque una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore deve, libero o non libero, aggiungere al tempo di lavoro necessario peri il suo mantenimento, un tempo di lavoro per produrre i mezzi di vita per il proprietario dei mezzi di produzione, sia che questo proprietario si chiami ora il Kaloskagathos ateniese, il teocrate etrusco, il barone normanno, lo schiavista americano, il boiaro valacco o il moderno proprietario di terra o capitalista”: oggi, nella società attuale, quel pluslavoro assume la forma particolare di plusvalore. Nella società primitiva, senza classi, i vecchi e i deboli (quando per mancanza di beni, dovuta alla scarsa produttività del lavoro, non venivano uccisi) dovevano essere mantenuti dal lavoro altrui.
Quando la società divenne una società di classi è chiaro che il lavoro dello schiavo doveva servire a nutrire lo schiavo e il padrone, che poteva così dedicarsi agli ozi e alle cure dello stato, del suo stato. Vi è una condanna in questa affermazione? Per nulla, essa è soltanto una constatazione in cui ogni persona di buon senso e che conosca la storia deve convenire.
Noi non facciamo condanne: ciò che è reale è razionale, anzi senza il lavoro schiavistico, come ben disse l’Engels, non esisterebbero l’arte e la cultura greca. Nessuno può disconoscere che nel Medio Evo il servo della gleba, lavorando tre giorni sul terreno a lui assegnato e tre giorni nella corte padronale, manteneva il suo padrone a fare la guerra, a depredare il vicino e la castellana farsi incensare dai trovatori.
Quando la società moderna divenne una società produttrice di merci, di prodotti cioè destinati alla vendita nel mercato, quando le leggi economiche sono dominate dal valore delle merci, questo lavoro in più della parte necessaria al mantenimento del lavoratore, in più del valore stesso di mercato della merce lavoro, assume l’aspetto, il carattere di plusvalore, che solo il lavoro produce, solo il lavoro può creare, perché solo il lavoro è la forza attiva, propulsiva della società. Ed ecco che questo di più, questo plusvalore viene naturalmente appropriato da coloro che detengono i mezzi di produzione, il capitale, senza il quale non è possibile il moderno processo produttivo.
Fa proprio pena vedere che coloro i quali affermano di essere i sostenitori della personalità e della dignità umana vogliano mettere sullo stesso piano la macchina e l’uomo, come il Pareto, mentre noi, – gretti materialisti – che vogliamo “distruggere la personalità umana” affermiamo che solo l’uomo col suo lavoro può mettere in moto le macchine da lui create e produrre; che solo il lavoro produce valore! Anche nella società attuale, dunque, solo il lavoro produce il flusso dei beni materiali che servono alla vita di tutti gli esseri viventi, di tutta la società; anche nella società attuale divisa in classi, la parte di questo prodotto che supera quella necessaria al mantenimento del lavoratore, va alla classe dominante, che detiene i mezzi di produzione, senza i quali non è possibile la produzione moderna, va primieramente a quella categoria della classe dominante che partecipa direttamente al processo produttivo di merci e da questa viene distribuito agli altri settori capitalistici e ai vari organi che servono per mantenere l’attuale struttura sociale. La classe dominante è quella che detiene i mezzi di produzione, è quella che per questo suo possesso domina il processo di produzione, acquista la forza lavoro, la fa lavorare, la paga quanto essa costa, – cioè quanto è necessario alla vita del lavoratore -, si appropria del resto del prodotto, si appropria del prodotto totale che contiene anche il plusvalore, lo realizza nel mercato.
Da questa proposizione, dal come questa massa di plusvalore si agita nel mercato e viene poi reimpiegata dalla società capitalistica nella riproduzione economica, trae origine lo sviluppo del sistema capitalistico. E il marxismo nelle analisi di queste leggi, appunto perché ha solide basi, ha potuto scoprire tutte quelle leggi della dinamica che la storia ha pienamente confermato, quelle leggi che Lenin ha completato per l’epoca nostra del capitalismo dei monopoli, leggi che sono le leggi di vita e nello stesso tempo di morte del capitalismo.
Questa, così ricca di aspetti e non altra è la teoria marxista del valore, che senza conoscere si critica ancora oggi tanto facilmente. Studiarla e comprenderla, spero sia il suggerimento che sorge da questo mio rapido e insufficiente articolo.
NOTE
[1] ↑ Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza della nazione, Libro 2°, Cap. 3°. Dell’accumulazione del capitale e del lavoro produttivo e improduttivo.
CREDITS
Immagine in evidenza: Marx in Winter
Autore: fhwrdh; 30 novembre 2008
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