da Le ragioni dei comunisti oggi Quaderno di Contropiano, maggio 1994
La ripresa del movimento comunista sia che essa avvenga in tempi brevi o lunghi, non potrà esserci senza fare i conti con la questione del partito. Nella prima parte del documento viene chiarito il ruolo determinante che ha avuto la crisi del PCUS e dei paesi socialisti.
Il passaggio al partito di massa, l’affermazione delle nomenklature politico/economiche, il deperimento innanzitutto delle capacità teoriche e poi del rapporto di massa sono stati determinanti per decretare la chiusura di una fase storica lunga oltre 70 anni.
D’altra parte l’importanza del partito la possiamo vedere in un esempio di segno opposto, ma di dimensioni enormemente più ridotte, cioè nella resistenza di Cuba all’aggressione economica degli USA.
In questo piccolo paese, nonostante la crisi economica profonda causata dalla fine dell’area economica socialista, si mantiene ancora viva una esperienza che va controcorrente.
Questo è possibile perché un partito ancora rivoluzionario, di fronte alla drammatica situazione esistente non ha modificato il proprio ruolo sia rispetto ad una analisi corretta della situazione interna ed internazionale sia rispetto ad un rapporto con la società che si dimostra estremamente solido.
Dunque è possibile resistere a Cuba perché il partito è presente, organizzato ed orientato rispetto alle questioni politiche ed economiche nazionali ed ai nuovi blocchi di interesse a livello mondiale; cosa questa che permette una tattica adeguata che garantisce in questa fase una condizione economica minima per il paese. E’ possibile resistere anche perché il partito è presente in modo capillare con un forte rapporto di massa, poiché non ha mai smesso di rappresentare la società e riesce ancora a dare risposte politiche convincenti verso la gran parte della popolazione. E’ evidente che le condizioni non sono state mai cosi difficili ma a sei anni dalla fine dell’area economica socialista, Cuba ancora vive.
Certo è che la questione della soggettività ha svolto un ruolo fondamentale nella storia del movimento rivoluzionario di questo secolo.
Né, d’altra parte, la resistenza del P.C. cubano potrà superare con la sola propria soggettività le difficoltà enormi ed oggettive che gli si pongono di fronte.
Gli anni che vanno dal ‘89 al ‘91 hanno chiuso definitivamente quella che è stata l’esperienza comunista del XX secolo e si ripropongono tutti i nodi politici affrontati in questo periodo, ed in parte risolti, in un nuovo contesto storico, economico, politico e sociale.
La questione della soggettività, ovvero del partito, è una delle questioni che si ripropone e che “pretende” una risposta chiara ed adeguata ai tempi.
In realtà la critica al modello Leninista è partita ben prima degli eventi dell’89/91 ed è stata quella dell’assenza della democrazia dentro il partito e verso la società.
Sicuramente queste critiche hanno una base di verità in quanto le difficoltà storiche che ha dovuto affrontare l’Unione Sovietica ed il suo Partito Comunista sono state tali che hanno costretto ad una disciplina, a volte anche nell’errore, che non ha permesso lo svilupparsi di una dialettica corretta.
Errori sono stati commessi anche quando le contraddizioni sono state trattate tutte allo stesso modo senza distinguere, teorizzando come ha fatto Mao, le contraddizioni di classe antagoniste con le contraddizioni “in seno al popolo”.
Però ci sembra che alla diagnosi fatta dai “medici” della sinistra occidentale è seguita una cura che invece di guarire il malato lo ha ucciso.
Non è un caso che tutta questa sinistra ha applaudito alle posizioni di Gorbaciov quando questi si è impegnato a modificare il partito.
Anche noi sentivamo il bisogno di un cambiamento radicale di clima e di stile interni ai partiti comunisti dell’URSS e dell’EST, ma il risultato della “cura Gorbaciov” è stato tragico.
Non è rinato un partito comunista che si basava su una teoria e su un radicamento forte nella società ma questo partito si è estinto liberando le forze negative che stanno producendo ad EST la situazione che tutti conosciamo.
Nonostante le apparenze e le posizioni politiche diverse i partiti comunisti occidentali, esclusi alcuni, ed in particolare quello Italiano, hanno percorso la stessa strada del PCUS in questi ultimi 20/30 anni ed hanno fatto la stessa fine.
In Italia mentre il PCI accusava il PCUS di essere antidemocratico, burocratico, ecc., sviluppava le stesse identiche caratteristiche.
La smania di governo resasi evidente dal 1973 con la linea di compromesso storico proposto da Berlinguer, il formarsi dello strato burocratico nel PCI e nella CGIL che ancora oggi resiste (in modo ammirabile) ai colpi del tempo dimostrano la dinamica uguale e parallela che hanno seguito il PCI ed il PCUS degli ultimi decenni.
L’unica differenza è relativa al fatto che mentre il PCUS deteneva il potere in URSS, in Italia il PCI era all’opposizione.
Non ci dobbiamo meravigliare di questo perché tutti e due i processi sono stati il risultato di una condizione oggettiva controrivoluzionaria e di una incapacità soggettiva di tenere testa a questa situazione.
Dunque che fine hanno fatto oggi i nostri critici del modello Leninista di partito? Per rimanere in Italia, più vicini perciò alla nostra esperienza, le strade che hanno intrapreso sono due; una è quella che ha portato al PDS l’altra ha dato vita al partito della Rifondazione Comunista.
Ovviamente non analizziamo le posizioni del PDS, dove si è trasferita la nomenklatura “vincente” del PCI e della CGIL, in quanto questo partito si dichiara non socialdemocratico ma addirittura liberal democratico.
Quello che va invece analizzato bene è la realtà di Rifondazione Comunista perché oltre a chiamarsi ancora comunista questa forza ha messo assieme sia un settore del vecchio PCI che buona parte di quello che è rimasto del movimento degli anni ‘70 nel nostro paese.
In realtà va detto che è difficile analizzare le posizioni politiche e teoriche di questo partito perché questo non le ha definite con molta chiarezza né sembra che questa “chiarezza” sia all’ordine del giorno del dibattito politico, nonostante il secondo congresso svoltosi poco tempo fa.
L’unico punto chiaro è quello della tattica, o strategia, elettorale sulla quale il partito ha deciso, a maggioranza, in modo chiaro.
Dunque dovremo analizzare le posizioni in via indiretta e deduttiva piuttosto che basarci su elementi certi.
La prima questione riguarda il partito come è organizzato.
Dopo la scissione del ‘91 il modello di partito scelto da RC non si è diversificato da quello del PCI nonostante le mutate condizioni politiche.
Infatti è rimasto un partito di massa ed in più si è manifestata la formazione di correnti e sottocorrenti che sono il frutto delle vecchie e nuove distinzioni politiche maturate dentro e fuori il PCI in questi decenni.
Una prima critica che va fatta a questo modello è quella del continuismo rispetto al PCI, peggiorato dal moltiplicarsi delle correnti e delle posizioni che hanno a volte anche una autonomia organizzativa di fatto.
E’ chiaro che per un partito cosi composto è un miracolo il non essersi ancora spaccato su questa o quella scelta elettorale e su questa o quella alleanza politica di fase.
Rifondazione Comunista in altre parole mantiene tutti gli elementi di crisi e di contraddizione che hanno portato alla situazione attuale, aggravandola con la feudalizzazione latente, inoltre riesce a praticare solo il terreno dell’elettoralismo, che la conduce poi inevitabilmente nell’area di influenza del PDS.
Non è difficile prevedere per questo partito un destino simile a quello del PDUP.
Questa però è la critica più immediata ed evidente, forse scontata, che si possa fare, in realtà dietro questo apparente caos esistono posizioni teoriche ben precise che vanno evidenziate e sottoposte ad una critica puntuale.
Diciamo che chi esprime praticamente queste posizioni in modo organico è il filone Ingraiano che si è scoperto una vocazione trasversalista che l’aiuta a condizionare il dibattito politico, teorico e culturale tra i comunisti.
Per cogliere i punti teorici di riferimento dei cosiddetti comunisti democratici, spesso non espressi ed analizzati a fondo, dobbiamo schematizzare mettendo in evidenza alcuni elementi principali.
Il primo è quello dell’analisi internazionale.
Nelle analisi e nei discorsi si coglie come contraddizione principale dello sviluppo capitalista la contraddizione Nord/Sud, ricchi e poveri.
Cioè si da per scontato un capitalismo globalizzato con contraddizioni interne che assumerebbero oggi una caratteristica secondaria rispetto alla rapina fatta verso il Sud del mondo.
In questo Sud stanno rientrando anche i paesi ex socialisti ormai tagliati fuori da ogni ipotesi di sviluppo.
Se analizziamo le posizioni che esprime questo settore politico, attraverso per esempio le iniziative pacifiste o sociali, vediamo come l’asse principale sia quello dell’umanitarismo a livello internazionale e dell’assistenzialismo (volontariato) a livello sociale.
Ovviamente si riconosce il carattere di classe delle contraddizioni ma questo viene poi annegato in una pluralità di soggetti sociali variegati senza andare ad una analisi che ricostruisca in questa fase quel filo rosso che ridà alla classe soggettività ed autonomia.
Queste valutazioni sottintendono un giudizio sullo strapotere del capitalismo in questa fase, sulla capacità del sistema unificato di fatto a livello mondiale, di pianificare il proprio sviluppo e dunque la possibilità del controllo globale dal punto di vista economico, politico e militare.
Ovviamente tutto questo con alcune contraddizioni che hanno di fatto un carattere contingente e secondario.
Una tale valutazione generale ha implicazioni politiche e pratiche molto precise.
Innanzitutto si capiscono in questo contesto i discorsi fatti da Ingrao sull’ “orizzonte del comunismo” cioè di un rinvio a tempo indeterminato del comunismo come risposta ai problemi dell’umanità.
Chiaramente parlare di comunismo significa parlare di tempi storici e non di tempi brevi, ma la definizione dell’orizzonte del comunismo significa, molto più concretamente, impedire una analisi della situazione che colga le contraddizioni di fondo e le collochi non rispetto alla storia ma rispetto alle scelte politiche che vanno fatte oggi. Si rompe cioè un filo di analisi e di progettualità necessario per avere un ruolo non nel futuro ma qui ed ora.
Un’altra conseguenza di questo ragionamento è la fine naturale, in tempi lunghissimi, del capitalismo.
Affermare infatti lo strapotere attuale dell’imperialismo da una parte e mantenere comunque l’orizzonte del comunismo è una contraddizione profonda che si risolve solo con l’estinzione “naturale” del capitalismo di Luxemburghiana memoria o con la “fede” nel comunismo.
Questa posizione peraltro fa entrare in contraddizione questi comunisti non con Stalin ma con Lenin e la rivoluzione del ‘17 in quanto atto soggettivo che non ha atteso l’evoluzione “naturale” del capitalismo ma che invece è stato capace di incidere su tutto il secolo attuale.
Da questa griglia di riferimenti principali discendono una serie di analisi e di scelte politiche concrete che spiegano bene la linea seguita dalla maggioranza di Rifondazione Comunista e dai comunisti democratici che con Bertinotti e gli esponenti dell’ex PDUP si trovano oggi alla guida di RC:
a) si perde la centralità della contraddizione di classe come chiave di lettura delle dinamiche sociali e si prendono a riferimento i movimenti sociali da quello delle donne, ai giovani, all’immigrazione ecc.
Questo “movimentismo” impedisce di comprendere il punto materiale di aggregazione di un blocco sociale che va oltre quelli che sono i movimenti contingenti in una determinata fase.
Sicuramente l’attuale composizione di classe e la crisi strutturale della classe operaia, in Italia e nell’Occidente, modificano i riferimenti storici che abbiamo avuto. Va ridefinito oggettivamente e ricostruito soggettivamente il filo rosso che tiri una sintesi dello scontro di classe che rimane comunque la chiave di lettura centrale anche in momenti storici difficili come questo;
b) si perde il nesso tra teoria e pratica. Cioè la possibilità della trasformazione sociale diviene cosi indeterminata nella logica dell’orizzonte comunista che si opera una scissione con la pratica politica che ha bisogno di un riferimento strategico preciso e non generico;
c) anche il rapporto di massa come progetto organizzato, diviene meno indispensabile e più legato alle congiunture di movimento, siano esse operaie, o giovanili, o femminili, o pacifiste ecc.;
d) in conclusione anche la concezione del partito stesso si modifica poiché sconta come base principale non il collegamento organico con la classe, ma il rapporto con l’istituzione democratica in quanto unico dato materiale concreto ineludibile.
Da qui deriva l’assenza di distinzione tra tattica e strategia, l’assunzione dell’elettoralismo come possibilità concreta di sopravvivenza di un ceto politico “comunista” il quale lo è comunque a prescindere dalle verifiche dello scontro di classe; una sorta di monaci rossi (Cossutta, la Rossanda, Ingrao) che mantengono il monopolio della conoscenza e della rappresentanza comunista.
Questa non ci sembra obiettivamente una risposta adeguata alla necessità di ricostruzione di una soggettività comunista forte ed autonoma, purtroppo va rilevato che a questo monopolio non si è riusciti ad opporre un sistema di giudizi, di pensiero e di azione che rompesse questa egemonia, e ciò è avvenuto nonostante la articolazione e varietà delle posizioni interne al movimento comunista in Italia, perciò va fatta una seria ed approfondita analisi autocritica sul perché questo non è avvenuto.
Certo la crisi attuale non è solo il risultato di concezioni sbagliate e di scelte opportuniste è soprattutto l’effetto di una condizione oggettiva drammatica che ci sovrasta.
Bisogna comunque fare i conti con il problema dell’organizzazione, riprendere il modello che ha permesso in una fase rivoluzionaria come quella avuta fino agli anni ‘50 di vincere, analizzarla e cercare di capire come ricollocarla oggi.
Questa questione va riaffrontata dialettizzandosi alla situazione attuale che ha visto una radicale trasformazione in questi ultimi decenni soprattutto sul piano della composizione di classe nei centri dell’imperialismo, e l’Italia è tra questi.
Questo approccio si scontra con le concezioni Marxiste/Leniniste classiche che in modo dogmatico affrontano da venti anni, senza risolverlo, questo problema.
D’altra parte Lenin stesso nel Che fare? coglieva le differenze sul piano della forma concreta che dovevano esistere tra il partito che agiva nell’autocrazia russa e quelli che si muovevano nell’ambito della democrazia borghese.
Se questo era valido nel ‘17 immaginiamoci quanto lo è in un epoca dove la democrazia borghese ha ottenuto, anche se provvisoriamente, la legittimità della storia.
Dunque pensiamo che quello che va fatto, in una visione di ricostruzione e di dibattito, è quello di individuare alcuni punti teorici su cui si basa il partito Leninista e di collocarli nella realtà attuale.
Ci rendiamo conto che questo è un terreno difficile sul quale gli errori e le inadeguatezze sono inevitabili, ma comunque riteniamo il nostro un contributo in questa direzione.
Vogliamo perciò mettere a fuoco alcuni aspetti che ci sembrano dimostrabili alla luce delle esperienze passate e della situazione oggettiva attuale.
Infatti una questione cosi complessa, se non vogliamo limitarci a ripetere i “classici” del movimento comunista, si può risolvere solo nella dialettica che può nascere dalla costruzione effettiva del partito.
Purtroppo questo passaggio che è all’ordine del giorno dal punto di vista della necessità politica è ancora lontano dal realizzarsi.
Dall’alto o dal basso?
L’evidente burocratizzazione e verticismo che ha caratterizzato in questi ultimi decenni la storia dei partiti comunisti, dell’Est e dell’Ovest, in Europa, si è spesso manifestata come contraddizione tra vertice e base, tra scelte politiche generali e convinzioni dei militanti.
Questa situazione ha portato spesso a teorizzare che bisogna ricostruire il partito dal basso, dai bisogni dei lavoratori ecc. cioé si è manifestata una posizione pienamente giustificata dagli sviluppi dei vari Partiti Comunisti, che ha contraddetto uno dei principi del partito Leninista.
Anche un altro elemento, anch’ esso reale, ha contribuito a modificare la visione del partito. Questa è la crisi della composizione di classe cosi come si è manifestata fino agli anni ‘50/60.
Infatti la visione generale vedeva la costituzione del fronte di classe in una avanguardia composta dalla classe operaia industriale, forte politicamente e numericamente, dal proletariato e dagli alleati naturali composti dalla piccola borghesia urbana, dai contadini, artigiani ecc.
Questo schema era effettivamente reale ed identificava il partito comunista come il partito degli operai, ovvero il “reparto avanzato” della classe.
L’offensiva economica e sociale del capitale in questo ultimo ventennio ha sconvolto questo quadro riducendo il numero e la forza della classe operaia, attuando ristrutturazioni produttive radicali, ha disperso e disgregato i settori proletari intesi come lavoratori salariati, ha ripreso l’egemonia totale sui settori intermedi e la piccola borghesia grazie allo sviluppo economico dei paesi imperialisti.
Questi due elementi sono sicuramente veri e verificati dalla realtà ma non bastano a capovolgere il principio che vuole il partito costruito dall’alto in basso.
Infatti la visione che aveva Lenin non era quella del partito inteso come rappresentanza di interessi, ma era il punto di unione tra una visione strategicamente rivoluzionaria e la classe che poteva avere invece una funzione rivoluzionaria concreta.
Lenin diceva che bisognava costruire il partito dall’alto perché la coscienza politica può essere attinta solo dalla conoscenza generale dei rapporti tra tutte le classi.
Non può bastare la conoscenza empirica, unilaterale della classe operaia, del proletariato per avere coscienza della propria funzione rivoluzionaria.
Questo principio non è oggi rimesso in discussione, anzi viene confermato dalla crisi attuale del movimento comunista e dalla scomposizione dei settori di classe.
La disarticolazione, la divisione, il prevalere dei punti di vista specifici (Sovietico, Cinese, Eurocomunista ecc.) rispetto ad una visione globale, dei rapporti tra le classi, a livello mondiale aggiungiamo noi, hanno permesso e favorito la crisi.
Dunque l’aver abbandonato la costruzione “dall’alto”, nell’accezione detta, del movimento comunista ha permesso di verificare, in negativo purtroppo, la correttezza del pensiero Leninista.
Detto questo però si rischia di affermare una cosa giusta che però perde immediatamente valore se non trova una applicazione concreta, se non si getta nel dibattito politico che viene fatto qui ed ora, se non si dialettizza direttamente con la realtà. Se il punto di partenza è dunque la conoscenza generale del rapporto tra le classi ci sembra che la ricostruzione di un punto di vista comunista adeguato ai tempi debba partire inevitabilmente dall’analisi e dalla ridefinizione di un quadro generale.
Cioè è necessario affrontare le questioni globali sottoponendole ad una rivisitazione che tenga presente le condizioni storiche profondamente mutate.
Questo non certo per il piacere della teoria, ma perché questa divenga nuovamente uno strumento di indicazione sulle scelte politiche e pratiche da fare.
Dunque non si tratta tanto di cercare conferme dei capisaldi del pensiero di Marx e di Lenin ma di capire come questi agiscono oggi, ed in questo senso crediamo che sia fondamentale partire dalle questioni relative alla situazione internazionale ed all’imperialismo.
Questo ora è ancora più vero di quanto lo fosse stato all’epoca di Lenin.
Imperialismo globale o contraddizioni interimperialiste, l’articolazione dello scontro di classe a livello internazionale, i processi di scomposizione e di ricomposizione di classe rispetto alla riorganizzazione economica ed allo sviluppo tecnologico queste ed altre questioni a questo livello vanno rimesse al centro della riflessione e del dibattito teorico che ha oggi un ruolo centrale per la rigenerazione del movimento comunista.
Sinceramente non ci sembra che oggi in Italia sia al centro della discussione questo tipo di questione.
In particolare RC che si definisce appunto comunista rimuove completamente questo nodo centrale.
Esiste di fatto una separazione tra l’analisi sulle questioni internazionali, vista come pura ricerca economica, sociologica o politica, e la pratica politica e sociale che si attua.
Ricostruire, qualcuno dice rifondare, significa invece partire appunto “dall’alto” per arrivare fino alla pratica politica che non ha nessun valore se non è collegata alla “conoscenza dei rapporti generali tra le classi”.
Come dice Mao bisogna andare dal generale al particolare, senza rompere l’unità tra questi due punti; dunque “dall’alto in basso” non è la riaffermazione di un principio teorico ma è, per noi, una indicazione di lavoro molto precisa, adeguata alla situazione attuale, che non è possibile rimuovere.
Partito e rapporto di massa
In tempi di politicismo e di elettoralismo parlare di rapporti di massa in termini di concezione, di analisi e di progettualità significa, molto probabilmente, parlare al vento.
Va detto che questa questione per la sinistra di classe e per i comunisti italiani in questi ultimi 20/30 anni ha significato molto poco sia per la variante dell’opportunismo di destra sia per quella della sinistra più o meno radicale.
Invece questo è stato uno degli assi portanti che hanno accompagnato la crescita e lo sviluppo del movimento comunista.
Se è vero che la coscienza generale viene da una analisi scientifica che prescinde dall’essere concreto della classe è anche vero che il rapporto di massa determina la possibilità di far divenire pratica una visione generale.
Ovvero la costruzione, questa volta dal basso, degli strumenti di organizzazione dei settori di classe è fondamentale per verificare la teoria nella pratica.
Il rapporto di massa è quello che determina e sancisce l’effettiva rappresentanza di classe.
Pensare che possa esistere una organizzazione comunista senza che questa abbia individuato concretamente il modo in cui organizzare e rappresentare i lavoratori significa poggiare di nuovo il mondo sulla testa dopo che Marx l’aveva rimesso sui piedi.
In ogni processo rivoluzionario di questo secolo il rapporto di massa è stato un elemento centrale e decisivo nello scontro.
Infatti è stato l’elemento che ha permesso di costruire quell’esercito permanente, come afferma Lenin, che ha cementato nei fatti, concretamente, il rapporto tra il partito e la classe.
Negli ultimi decenni abbiamo potuto vedere come assieme al deperimento ed alla trasformazione degli strumenti storici del rapporto di massa, vedi il sindacato, si è manifestata una crisi generale politica dei settori popolari che oggi sono spinti addirittura a guardare a destra.
Anche in questo caso non si tratta di ripetere i concetti che stanno sui classici ma di capire cosa ha rappresentato il rapporto di massa storicamente per i partiti comunisti e cosa può significare oggi, di nuovo.
Durante la rivoluzione del ‘l7 per Lenin gli strumenti per la costruzione del rapporto di massa erano naturalmente i sindacati ed i soviet, ovviamente con ruoli e funzioni diverse.
Lenin inoltre ha sempre affermato la necessità, valutandone attentamente l’opportunità specifica, di partecipare alle elezioni.
Sui sindacati è stato sempre molto chiaro nel senso che i comunisti devono partecipare alla vita dei sindacati anche dei più reazionari.
Il punto teorico su cui Lenin basava queste scelte concrete era la necessità di non rompere mai l’unità tra i settori più avanzati, gli operai comunisti, il partito ed i settori più arretrati, i quali si organizzavano e si riconoscevano su livelli più corporativi (i sindacati) e istituzionali (le elezioni).
Partendo dal dato centrale del rapporto di massa come elemento di rafforzamento del partito, collegamento appunto dei settori avanzati con quelli arretrati, Lenin collocava delle proposte concrete in un contesto storico determinato.
Gli elementi che caratterizzavano questo contesto erano quelli di una condizione oggettivamente rivoluzionaria, le contraddizioni sui luoghi di lavoro e nella società in generale erano dirompenti con una classe operaia combattiva, in ascesa come peso numerico e politico grazie allo sviluppo industriale che la Russia allora conosceva.
Non c’era bisogno allora di convincere i lavoratori della necessità della rivoluzione, bisognava soprattutto capire come farla e dare loro degli strumenti di organizzazione che in quel contesto assumevano un carattere rivoluzionario.
I sindacati, anche quelli reazionari, il Parlamento, le scadenze elettorali ed i Soviet, successivamente, sono stati gli strumenti che hanno permesso in una fase estremamente dinamica sul piano politico l’aumento dell’influenza dei Bolscevichi su tutti i settori sociali e dunque della loro forza organizzata decisiva per poter sfruttare, nel senso della rivoluzione socialista, le condizioni obiettive favorevoli alla trasformazione sociale e politica dello stato zarista.
Anche in Cina gli strumenti del rapporto di massa hanno avuto un ruolo determinante nella rivoluzione, ma i modi concreti con cui questo è avvenuto non sono stati eguali all’esperienza Sovietica.
Qui le condizioni erano completamente diverse, infatti dopo i tentativi insurrezionali della metà degli anni ‘20 si era capito che l’ipotesi Russa non era riproducibile.
Non solo ma la condizione storica, sociale, economica della Cina poneva come interlocutori principali i contadini, cioè un settore piccolo borghese, di fronte ad una classe operaia da terzo mondo, diremmo oggi, oltre che sconfitta politicamente.
Allora la scelta di portare lo scontro nelle campagne e di fare dell’esercito popolare lo strumento di organizzazione del rapporto di massa è stata quella che ha permesso di determinare una rivoluzione importantissima di fronte a condizioni sociali a prima vista assolutamente sfavorevoli per una trasformazione socialista.
La chiave di volta è stata la funzione dell’esercito popolare che non ha avuto solo un compito militare ma soprattutto politico e sociale.
Non era certo pensabile di organizzare tra i contadini il sindacato, vista la natura piccolo borghese di questo settore sociale, né i Soviet costituiti in Russia, intesi come punto avanzato, rivoluzionario dell’insurrezione che in Cina aveva ormai assunto le caratteristiche della guerra di lunga durata.
Queste funzioni venivano assolte dall’esercito popolare organizzando la vita sul territorio, garantendo servizi e la risoluzione dei problemi concreti di masse enormi di contadini.
Il “Servire il Popolo” di Mao Tze Tung ha esattamente questo significato concreto e non quello quasi “religioso” sostenuto dai gruppi Marxisti-Leninisti degli anni ‘70.
In questo senso altre rivoluzioni potrebbero essere analizzate, da quella Vietnamita a quella Cubana, per capire la specificità storica culturale e materiale su cui si è rafforzato il rapporto di massa dei partiti comunisti.
E’ chiaro che quello che è stato valido per la Russia e per la Cina oggi, per noi, come modello concreto, non ha alcuna validità.
Rimane però il punto centrale della necessità del rapporto di massa e del collegamento tra chi vede, seppure in tempi non brevi, la necessità della trasformazione sociale e chi vive le contraddizioni concrete, cioè del rapporto tra il settore avanzato e quello arretrato della classe.
Questi elementi seppure in un contesto storico e sociale completamente diverso rimangono validi a tutt’oggi, il problema vero è come farli rivivere.
Il primo elemento che va inquadrato è quello della condizione generale, storica, in cui vive questa necessità.
Non siamo evidentemente in una fase rivoluzionaria ma, come abbiamo detto in un’altra parte del documento, in una situazione di post-sconfitta, di arretramento e di resistenza ma anche di accumulo delle contraddizioni.
Allora è evidente che il problema che esiste è quello della resistenza, del mantenimento dell’identità di classe per settori sociali più vasti possibili.
Dunque quella che va definita è una strategia di resistenza e di ricostruzione dall’interno dei settori di classe, ben diversa ad esempio da quella del ‘17 Sovietico dove la situazione invece era di attacco, di sviluppo spontaneo del movimento; una linea di ricostruzione che deve tenere conto della sconfitta ma che deve ragionare sulle nuove contraddizioni sociali che si profilano all’orizzonte dello sviluppo capitalista.
In questo senso l’altro dato che va analizzato e compreso a fondo è quello della composizione di classe in Italia sia come prodotto storico che come dinamica reale. Il PCI, la CGIL e le organizzazioni politiche e sociali dei decenni scorsi avevano tutte come riferimento la società industrializzata, quello che negli anni ‘70 chiamavamo l’operaio-massa e nei decenni precedenti era il proletariato industriale, risultato sociale del sistema produttivo basato sulla grande industria.
C’era continuità, anche sulla forma e non solo nei rapporti di produzione, tra l’operaio che aveva fatto la rivoluzione d’ottobre e quello che si era conquistato un peso politico sociale ed una diversa condizione economica nei paesi capitalistici sviluppati nel 2° dopoguerra.
Quella struttura della classe è completamente saltata, non esiste più e va ancora modificandosi in base allo sviluppo tecnologico dei mezzi di produzione.
La classe operaia tradizionale perde peso, quantitativamente, politicamente e relativamente alla produzione.
E’ vero che questo tipo di operaio si riproduce in altri paesi posti alla periferia delle aree imperialiste (all’Est ed al Sud per l’Europa, in Messico per gli USA, in Asia e Cina per il Giappone) ma rispetto alla nostra situazione nazionale si ha una trasformazione radicale in quanto i settori operai “classici” che rimangono, vivono condizioni, tempi e sistemi di lavoro e di relazioni industriali pesanti ma si ricollocano socialmente verso quella che può essere definita l’aristocrazia operaia legata agli alti livelli tecnologici di produzione.
Questo non significa affatto che le caratteristiche proletarie della società vengono ridotte come afferma la teoria, smentita ora dai fatti, della società dei 2/3, anzi aumentano i processi di proletarizzazione, di precarizzazione del rapporto di lavoro e dunque di subordinazione del lavoro salariato, di disoccupazione strutturale.
Con questa composizione di classe diversa da quella passata e non giunta ancora ad una sua definizione e maturazione bisogna fare i conti per ricostruire il rapporto di massa e per individuare i modelli concreti di organizzazione.
In questo contesto ad esempio va visto lo scontro politico tra chi ha scelto di operare fuori dalle confederazioni storiche impegnandosi in un processo di riorganizzazione e chi sta ancora dentro CGIL-CISL-UIL.
Infatti stare dentro i sindacati ufficiali in Italia, nelle sue specifiche e storiche condizioni, non serve né a tenere un rapporto con i settori arretrati della classe attraverso strumenti stabili, in quanto l’apparato burocratico impedisce questo, né a far divenire questi sindacati una cassa di risonanza delle posizioni “rivoluzionarie” in quanto la condizione generale non spinge certo verso questa realtà.
Piuttosto la situazione attuale, con tutti i rivolgimenti che ci sono stati in questi ultimi anni, spinge a ragionare su modelli e riferimenti nuovi e autonomi rispetto a quelli determinati dalla storia del movimento operaio di questi ultimi decenni.
Dunque occorre capire bene come riorganizzare il sindacalismo di classe in questo nuovo e dinamico quadro produttivo e capire se la ricostruzione del sindacato fuori dalle organizzazioni storiche può rompere i limiti quantitativi e, sostanzialmente di avanguardia (anche se non politica ma sociale) che essa ancora ha.
Bisogna egualmente riflettere e sperimentare forme di organizzazione che riguardano ad esempio i disoccupati, oppure il disagio sociale metropolitano che coinvolge milioni di persone e che spesso dà vita a dei movimenti che non vengono ricollegati politicamente ad una situazione generale e dunque destinati a ripiegare su se stessi e ad essere o sconfitti o riassorbiti.
Qui non si tratta di entrare nello specifico ma bensì capire che compito dei comunisti è quello di costruire, partendo dalle condizioni specifiche e concrete, un rapporto di massa adeguato alla realtà e fuori da ogni schematismo che ci riporta verso ragionamenti, forse più sicuri e tranquillizzanti, ma purtroppo inutili.
Partito di massa o Partito militante?
La trasformazione radicale delle tendenze oggettive della situazione ripropongono il problema della forma-partito.
L’affermazione del movimento comunista del secondo dopoguerra, la partecipazione di milioni di persone alla vita dei partiti comunisti, all’Est come all’Ovest, ha trasformato quello che era il modello leninista del partito in un partito di massa.
Sicuramente la spinta alla partecipazione di milioni di persone era vera e spontanea ed andava trovata in quel nuovo contesto una risposta che, però, non tenesse conto solo della adesione dei settori operai e proletari “intermedi” ma anche dei principi basilari della costituzione di un partito comunista.
Dunque il partito di massa è divenuto, soprattutto in Europa, un partito istituzionale ed elettoralista dove il ceto politico ha sostituito i “rivoluzionari di professione” e dove il rapporto con le istituzioni ha sostituito la rappresentanza effettiva della classe come base materiale.
Questa è stata anche la dinamica dei partiti socialisti della II Internazionale a cavallo dell’inizio del secolo che, divenuti soggetti prevalentemente istituzionali, di fronte agli stravolgimenti sociali, politici e militari iniziati con la prima guerra mondiale sono scomparsi politicamente ed hanno lasciato la strada libera, incapaci di affrontare una situazione drammatica, prima al militarismo e poi ai vari fascismi europei.
Fare un parallelo troppo stretto tra questi due periodi storici è azzardato, però ci sembra che di nuovo siamo all’inizio di una fase in cui l’instabilità economica, sociale, politica ed anche militare, come ci dicono le vicende della ex Jugoslavia e di tante altre parti del mondo, diviene la protagonista principale.
Rispetto a questa tendenza, che si manifesta in Italia con ipotesi secessioniste o con brusche virate a destra fino alla rinascita politica dei fascisti, i comunisti non sono stati in grado di riprendere questo tipo di riflessione, fondamentale per dare forza e credibilità alla ripresa di un progetto comunista.
Alcune valutazioni di merito su questo aspetto le abbiamo fatte nella parte del documento relativa al partito.
Anche le riflessioni fatte sulla costruzione dall’alto e sul rapporto di massa, oltre che le considerazioni generali sulla fase, ci spingono a dire che va rivalutata l’esigenza di dare ad ogni ipotesi politica ed organizzativa un carattere militante. Solo cosi crediamo che la ricerca teorica, l’agire pratico ed una prospettiva politica possano avere di nuovo credibilità.
Anche in questo caso ribadiamo che non si tratta di trasferire in modo piatto quello che ha scritto Lenin o Stalin per attestare la genuinità delle nostre posizioni.
Si tratta invece di comprendere ed operare per costruire una militanza adeguata ai tempi che sappia essere avanguardia organizzata nella fase e nelle condizioni concrete attuali.
L’ipoteca del neocomunismo
I movimenti politici e sociali degli anni ‘60 e ‘70, hanno prodotto una generazione politica che condiziona attualmente lo scenario del dibattito politico e dell’elaborazione della sinistra. L’origine sociale (medio-alto borghese) e la deformazione ideologica di questa generazione, ha anche dato vita ad un vero e proprio ceto politico che si ricicla e autoriproduce sistematicamente e che occupa di volta in volta i punti decisivi del panorama politico della sinistra.
Se vogliamo datare la nascita del neocomunismo in Italia, non possiamo non fare riferimento all’espulsione della Rossanda, Pintor, Castellina, Magri ecc. dal PCI e alla nascita de “Il Manifesto”.
La nascita di questo giornale e di un gruppo politico ad esso legato, è stato il primo tentativo organico di superare la tradizione togliattiana e terzointernazionalista dentro il PCI e di superarne a “sinistra” l’impostazione tradizionale. Tra questo gruppo ed Ingrao esiste ormai da anni un sodalizio politico e teorico tuttora egemone su gran parte della sinistra “critica” verso il PCI berlingueriano prima e il PDS di Occhetto poi.
Ma quale è la natura politica e teorica de Il Manifesto? Uno dei suoi fondatori, Rina Gagliardi, ha provato a offrirne una sintesi realistica: “Il Manifesto fu, certo, un gruppo profondamente maoista. Credo di poter dire, anzi, che fu l’unica forza politico-intellettuale della sinistra italiana, nuova e vecchia, ad assumere il maoismo come connotato discriminante della propria fisionomia, non solo per aver attentamente seguito la Cina, la rivoluzione culturale del ‘66-‘69 e le vicende degli anni successivi, ma per aver recepito, nella propria autonoma elaborazione, il corpus più significativo del patrimonio di Mao […]. Risolutamente antistalinista, distante anni luce dagli infantilismi dogmatici dei «cinesi» organizzati in gruppi, Il Manifesto non propone certo il maoismo come nuovo edificio dottrinario né la Cina come modello da importare. Non è neppure, d’altronde, un gruppo leninista: rivendica con forza le proprie radici (e matrici) comuniste occidentali, predilige su tutte la tradizione gramsciana (il Gramsci dei consigli) e, se rivendica un’ortodossia, è quella del ritorno a Marx, un Marx da rileggere senza «ismi»”. (Rina Gagliardi: Inserto sul ‘68 de Il Manifesto, Aprile 1988).
Dunque il gruppo politico e d’opinione più influente nella cultura della sinistra non socialdemocratica è maoista ma antistalinista, marxista ma non leninista, comunista ma nella accezione occidentale, gramsciano della prima ora e non nella interpretazione ufficiale fornita dal PCI (più centrata sul Gramsci dei “Quaderni dal carcere” che su quello degli “Scritti Politici”).
La carta di identità de Il Manifesto presentata da Rina Gagliardi ci consente di mettere a fuoco meglio le ragioni di tanti sbandamenti, abbagli e insufficienze di fronte alla realtà, alle sue contraddizioni, alle sue conseguenze.
Gli avvenimenti del 1989, le contraddizioni e i contraccolpi che hanno prodotto, la stessa crisi verticale della sinistra italiana e le sue trasformazioni (tra cui la nascita della polarizzazione tra PDS e Rifondazione Comunista), sono stati analizzati, esaminati e dibattuti da moltissimi compagni, giovani e meno giovani, attraverso il punto di vista de Il Manifesto.
Gli editoriali di Karol, Rossanda, Pintor, Parlato, Gagliardi, le sistematiche interviste a Ingrao e Bertinotti (interviste puntuali, omnicomprensive, ossessive che hanno sempre riempito e delimitato lo “spazio critico” al PDS e alla CGIL) sono state le lenti attraverso cui gran parte dei soggetti che si richiamano al marxismo, al comunismo, al cambiamento, hanno dovuto leggere e comprendere quello che accadeva.
Nessuno, ovviamente, vuole o può mettere in discussione la legittimità de Il Manifesto nello svolgere il proprio lavoro, il problema drammatico é che se questo diventa il punto di vista egemone su quella parte della sinistra che ha respinto il trasformismo occhettiano, il rischio è grosso, troppo grosso per essere ancora sottovalutato.
La contraddittorietà storica e politica de Il Manifesto rappresenta però solo un aspetto, importante ma parziale, nella formazione di una certa cultura politica nella sinistra italiana e di ceto politico che ne è intimamente legato.
Questo ceto politico ha riempito tutti i punti vitali della cultura politica e sindacale (centri studi, sindacati confederali, giornali, apparati dei partiti di sinistra), ha un impianto teorico fortemente speculativo – cioè incapace di elaborare autonomamente – ed un atteggiamento politico conseguente. E’ un ceto politico ancora dominante nei luoghi decisivi del dibattito, utilizza questa rendita di posizione prevenendo ogni rottura o nuova tendenza di classe nella sinistra; articola, elabora e spesso riesce ad imporre proposte “congiunturali” che non durano più di una stagione ma utilissime a frenare ed impedire ipotesi diverse e più “radicali” in senso antiriformista. Rappresenta, in sostanza, la variabile “di sinistra” della discontinuità occhettiana cioè il neocomunismo.
Per questo ceto politico neocomunista, la priorità delle contraddizioni risiede nell’ambito della sovrastruttura (le ideologie, la cultura, i partiti, il nuovo ecc.) e la politica diventa sempre più un apparato separato dalla realtà cioè “politicismo”.
Se è vero che anche a sinistra la “politica” viene sempre più rappresentata da questo ceto politico e sempre meno da movimenti reali ed autonomi della società, dobbiamo ammettere che ci troviamo di fronte ad un problema decisivo per le prospettive di un punto di vista e di un progetto comunista in Italia. Esso infatti, esprime una viscerale avversione verso ogni nuova forma di organizzazione politica, sindacale, sociale della sinistra di classe non solo per le radici teoriche e la natura sociale ma anche perché deve difendere il suo “ruolo materiale” nella società. La storia di una certa sinistra sindacale dentro la CGIL o di una vera e propria “casta” di parlamentari, sta dentro questo quadro.
Ma il problema sono i danni anche sul piano teorico che produce l’egemonia di questo ceto politico neocomunista. Infatti le questioni connesse ai meccanismi istituzionali, alla cultura, ai comportamenti, hanno assunto un peso sempre più crescente nell’elaborazione e nel dibattito marxista in Italia. La sovrastruttura è passata in primo piano e la liquidazione dell’analisi sulla composizione, le esigenze e l’autonomia di classe in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia, ha via via imposto la dominanza di movimenti e culture interclassiste nella definizione di un progetto di trasformazione sociale del paese e dei rapporti internazionali.
In tutti gli anni ‘80, i socialdemocratici ed i neocomunisti hanno dato centralità ai movimenti pacifisti, ecologisti, femministi ritenendo che essi, e non più “il lavoro”, potessero rappresentare la base sociale di un nuovo blocco di trasformazione.
Nei riferimenti e nelle interlocuzioni sociali, si è parlato sempre più di “società civile” dilatando a dismisura e brutalizzando l’analisi marxista e gramsciana della stessa. L’indistinta società civile che vuole gli onesti al governo, aborrisce la violenza, odia la mafia, non nutre timore per una società multirazziale, difende i propri diritti civili e sociali in qualità di consumatori di beni e servizi, è diventata cosi l’interlocutore fumoso e sfuggente di politiche di cambiamento fondate più sulle riforme istituzionali che sul conflitto sociale.
Il PDS fonda su questo la sua strategia, ma i neocomunisti non vanno molto distante da questo asse di riferimento se non nelle enunciazioni verbali. Infatti le scelte concrete si rivelano sempre pronte a “coprire a sinistra” ieri il riformismo ed oggi la svolta moderata della sinistra riformista.
Il “politicismo” impregna dunque e profondamente la cultura neocomunista nel nostro paese, una ripresa del marxismo rivoluzionario dovrà aprirsi un varco nel dibattito e nell’analisi avendo coscienza reale di questo macigno.
Ma ci sono fattori più rilevanti che rendono però necessaria la ripresa di una impostazione rivoluzionaria del marxismo, sono infatti le contraddizioni reali a fornire materiale concreto per tale ripresa.
L’euforia e le volgarità del post ‘89, grazie alla guerra del Golfo e agli avvenimenti successivi, hanno costretto anche i centri studi borghesi ad analizzare con più rigore la realtà. Qualcuno si era affrettato a ritenere chiusa la partita nel 1989, altri avevano atteso l’Agosto russo del ‘91, ma i processi reali hanno sbalzato un po’ tutti dal torpore, dalla subalternità ed anche da vecchie rendite di posizione.
Una situazione internazionale ed interna di profonda crisi economica e politica, i pericoli di nuove guerre e le crescenti tensioni interimperialistiche, rendono attuale ed urgente la ripresa di una analisi marxista e leninista delle contraddizioni che determinano tale situazione, delle forze sociali reali che dentro essa possono svolgere un ruolo trasformatore e del ruolo attivo e non residuale che in questa realtà possono svolgere i comunisti.
E’ necessario però “far saltare il tappo” che egemonizza e distorce la formazione di una generazione politica adeguata a tale situazione, una generazione politica che, in sostanza, non vuole morire ingraiana nè ritrovarsi ancora alla testa quel ceto politico che da venti anni rappresenta un formidabile ipoteca sulla riorganizzazione e l’elaborazione politica dei comunisti nel nostro paese.