di Luciano Gruppi
Il Che fare? – il cui titolo è ripreso da quello del noto romanzo di Cernyscevski, cosi caro a Lenin – è uno degli scritti che accompagnano la formazione del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) e insieme il costituirsi della sua ala rivoluzionaria più conseguente – quella dei bolscevichi. (I bolscevichi poi, raggruppando attorno a sé la maggioranza del partito ed espellendo l’ala destra menscevica, si costituiranno in partito nel 1912, per assumere finalmente la denominazione di Partito comunista russo (bolscevico) nel 1918.).
Il POSDR si era costituito nel 1898 a Minsk, raccogliendo l’eredità dell’Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia (fondata nel 1895), alla cui formazione Lenin aveva dato un contributo determinante. L’Unione proseguiva a sua volta l’opera del gruppo L’emancipazione del lavoro (fondato da Plechanov nel 1893).
La costituzione del POSDR obbedì ad un’esigenza fondamentale: superare l’organizzazione per circoli di diverso carattere e di diversa ispirazione ideologica – anche se in essi l’influenza del marxismo diveniva sempre più forte – che era caratteristica della prima fase del movimento operaio russo, per riuscire a dare alla classe operaia un’organizzazione unitaria nazionale, diretta da un unico centro, guidata da un programma e governata da uno statuto.
Ma proprio lo sforzo di uscire dai limiti del circolo, della organizzazione locale, poneva inevitabilmente a confronto più diretto – sia pur nelle condizioni di una durissima illegalità – orientamenti e concezioni diverse, un differente modo di intendere il partito e la sua funzione, sotto cui stava un diverso modo di interpretare il marxismo.
La fase che prepara il II Congresso del POSDR (Bruxelles-Londra, estate – 19 – 1903) è precisamente contrassegnata dallo scontro di queste diverse posizioni e il Che fare? ne è una perspicua manifestazione.
Al II Congresso si troveranno di fronte due ali della socialdemocrazia russa: quella rivoluzionaria, che trova in Lenin la personalità di maggior rilievo, e quella moderata, che ha il suo esponente in Martov. Non a caso, il primo scontro avverrà su una questione apparentemente organizzativa, statuaria, ma tale in realtà da investire tutta la concezione del partito, il rapporto tra il partito e le masse, tra direzione e spontaneità, unità e democrazia. Ancor più, da investire la questione del rapporto tra iniziativa rivoluzionaria e situazione obiettiva e quindi il problema filosofico del rapporto tra soggetto e oggetto.
Per la corrente di Martov, è da ritenersi socialdemocratico ogni elemento che partecipi in qualche modo alle lotte del partito, che «le aiuti in un modo o in un altro». Per Lenin, ciò non basta: può essere membro del partito solo chi milita attivamente e in modo permanente in una sua organizzazione di base. Alla concezione del partito come movimento, dove il limite tra il partito e la classe è indefinito dove, non è chiara la distinzione tra il partito e le masse, e non precisato il rapporto tra direzione e spontaneità, Lenin contrappone un’altra concezione. «[…] Dico che il partito deve essere una somma (e non una semplice somma aritmetica, ma un complesso) d’organizzazioni[…]» «[…] Desidero, esigo che il partito, come reparto d’avanguardia della classe, sia un qualcosa il massimo del possibile organizzato, che il partito accetti nel suo seno soltanto quegli elementi che ammettono almeno un minimo di organizzazione.» L’organizzazione, l’unità, la disciplina, il legame indissolubile con la classe, ma la distinzione, rispetto alla classe, che è propria dell’avanguardia: questi sono i caratteri della concezione del partito che Lenin va definendo in quegli anni e che confluiranno a formare la concezione leninista del partito1.
Siamo ormai andati oltre al Che fare? e ad esso conviene ritornare, come al momento in cui si delineano i primi tratti essenziali di questa concezione.
Dopo la lotta contro i populisti e i marxisti legali, l’ala più conseguentemente rivoluzionaria del movimento operaio russo si trovava, in quegli anni, di fronte alle posizioni della corrente detta degli economisti. Gli economisti avevano in quel momento un’influenza preponderante nel movimento operaio russo. Essi affermavano: «Lotta per le condizioni economiche, lotta contro il capitale sul terreno dei vitali interessi quotidiani e scioperi come strumento per condurre tale lotta: questo deve essere il programma del movimento operaio».
Vi era qui una interpretazione del tutto meccanica del marxismo: in regime di autocrazia, prima che sia conquistata la democrazia borghese, tocca alla borghesia condurre la lotta politica; il proletariato deve limitarsi alla lotta economica.
Era già presente una posizione che poi tornerà, sia pure in modo meno schematico, nell’ala destra della socialdemocrazia russa di fronte alla rivoluzione borghese del 1905, quando questa affermerà che la egemonia del movimento spetta alla borghesia (poiché si tratta di una rivoluzione borghese). Sarà Lenin a rivendicare l’interesse della classe operaia per la lotta per la democrazia, il significato rivoluzionario di ogni conquista democratica, l’incapacità della borghesia di essere conseguente, nella propria rivoluzione medesima, e l’estrema capacità di coerenza democratica invece del proletariato, per il nesso che questo stabilisce tra la lotta democratica e la lotta per il socialismo. Di qui può derivare la sua capacità egemonica nel corso della stessa rivoluzione democratica borghese.
Per gli economisti valeva il principio: «Agli operai la lotta economica, ai liberali la lotta politica». Era perciò negata alla classe operaia qualsiasi funzione politica autonoma e con ciò anche la necessità di una sua concezione teorica rivoluzionaria.
Era negato l’interesse della classe operaia alla lotta per la democrazia e il compito essenziale che le spetta in questa lotta.
Meccanico era il rapporto che si stabiliva tra lotta economica e lotta politica.
Poiché l’economia è il momento di base e la politica la sovrastruttura, è nella lotta economica che si forma la coscienza politica della classe operaia. Una caricatura del marxismo, come si vede. Sollecitiamo dunque la lotta economica, favoriamo il processo spontaneo del formarsi di una coscienza politica. Gli economisti, ad esser precisi, non negano una politica per il movimento operaio: ma la politica è, per loro, l’espressione degli interessi economico-sindacali del movimento, non una concezione ed un programma che investa il problema del potere, la questione dello Stato.
Il movimento, la rivendicazione immediata, la spontaneità si presentava in primo piano: restava in ombra la direzione, l’elaborazione strategica e tattica unitaria, il programma politico, il partito, la teoria rivoluzionaria.
L’economismo non era che la variante russa – Lenin lo sottolinea fortemente – delle correnti opportunistiche che si erano diffuse in quegli anni nel movimento socialista internazionale e particolarmente nella socialdemocrazia tedesca. Tra il ‘96 e il ‘98, il leader socialdemocratico tedesco Bernstein aveva sottoposto la concezione di Marx ad una revisione teorica che colpiva i principi fondamentali della elaborazione marxiana. Veniva sviluppata una critica alla dialettica e proposto il ritorno al kantismo (in realtà si apriva il movimento operaio all’influenza del positivismo). Si negava la dittatura del proletariato e quindi la necessità dell’egemonia proletaria. Si proponeva una visione evolutiva, deterministico-meccanica della trasformazione della società, tale per cui lo stesso sviluppo delle forze produttive rende inevitabile il socialismo che deve essere il risultato di una successione di riforme, necessariamente evocate da quello stesso sviluppo delle forze produttive.
Veniva smarrito il contenuto di classe delle riforme, la coscienza che esse devono essere il risultato della lotta di classe. Lo Stato si presentava come neutro rispetto alla società e svaniva così la questione del potere. E’ celebre la proposizione del Bernstein: «Il fine è nulla, il movimento è tutto» – che cancella l’obiettivo di classe che si esprime nel fine, le contrapposizioni di classe, ed apre la strada ad una visione meramente tatticistica, amministrativa dell’azione politica (« la politica delle cose»).
Si deve ancora notare che questa proposizione presenta un’interessante analogia con la esaltazione anarco-sindacalista (che pure vuole opporsi all’opportunismo) del movimento come fine a se stesso.
Lenin riprende, nella sua polemica contro gli economisti, le posizioni di Engels sul valore della lotta teorica che sempre deve accompagnare la lotta economica e politica. Per Lenin, come per Engels, i fronti della lotta sono tre: economico-sindacale, politico, ideologico. Egli afferma il valore e la funzione della teoria rivoluzionaria per la formazione di un partito rivoluzionario che non voglia limitarsi a modificare la società presente, ma voglia trasformarla radicalmente e perciò riesca a collegare gli obiettivi immediati con il fine generale di classe, secondo un disegno coerente che solo la teoria può rendere possibile e fondare. Sono le celebri proposizioni che il lettore incontrerà nel testo: «Senza teoria rivoluzionaria non ci può essere movimento rivoluzionario». «… Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente d’avanguardia.» Sono tesi, queste, a cui la nostra riflessione deve ridare tutta la loro freschezza, di fronte a tendenze che le correnti pragmatistiche e neopositivistiche del nostro tempo, ben aderenti al dominio del grande capitale, ereditano dalla socialdemocrazia, per presentare la teoria del partito rivoluzionario, la sua concezione del mondo come un’anticaglia ideologica da riporre nei reparti archeologici. Bisogna affermare invece, partendo da Lenin, che se al partito non conviene una metafisica (ma a chi conviene?), un corpo dottrinario chiuso, occorre però un metodo di indagine, di concezione e di azione, sempre aperto, in continuo progresso, per il suo costante ripiegarsi critico su se stesso. Tale metodo è metodo per l’elaborazione della teoria rivoluzionaria, della teoria dello sviluppo della società e della sua trasformazione rivoluzionaria, è «teoria della rivoluzione proletaria» – per dirla con Labriola. Ma non è soltanto questo, in quanto implica una concezione del mondo.
Infatti, una trasformazione radicale, economica e politica, della società, non può compiersi senza una critica altrettanto radicale della coscienza, delle idee che la governano. Il modo con cui può essere demistificata la falsa universalità delle idee tradizionali, che presiedono alla conservazione e al moderatismo, sta precisamente in quel collegamento della coscienza all’essere sociale, in quel rapporto tra le idee e la loro base di classe, i rapporti di produzione e di scambio, che il marxismo stabilisce. Questo è il nocciolo del metodo marxista che rivela l’origine e il limite di classe delle idee – e consente di demistificarne la falsa universalità. Ma qui, in questo rapporto che si costruisce tra la coscienza e l’essere sociale, sta la fondazione di un metodo di pensiero e il nucleo originario di una concezione del mondo (che spetta svolgere, secondo noi, in tutte le sue implicazioni più strettamente filosofiche, non al partito, ma ai filosofi, in libera discussione).
Bisogna perciò affermare che l’abbandono della concezione serve a chi vuole che i partiti operai si adagino nella prassi alla giornata, nella «politica delle cose», nel movimento, che sarebbe tutto, abbandonando la prospettiva del fine di classe. All’invito che viene dalla socialdemocrazia, dagli indirizzi pragmatisti, neopositivisti e tecnocratici, ad abbandonare la concezione del mondo, si accompagna oggi un invito dello stesso genere da parte di ambienti della sinistra cattolica, mosso con altro animo e con altre intenzioni (più meritevoli di rispetto), in quanto in questi ambienti si teme che il possesso di una concezione del mondo, da parte del partito operaio, renda più difficile l’incontro fra le forze progressive del movimento operaio e del movimento cattolico. Ma, nell’un caso come nell’altro, per le ragioni che abbiamo indicato ci pare che la posizione di Lenin – con tutti gli sviluppi che ha conosciuto e può conoscere – resti valida.
Rinunziare alla teoria significherebbe rinunziare dunque ad investire di una critica organica e coerente tutta la società, nel suo momento economico, politico e culturale; annacquare e gradatamente smarrire l’autonomia politica e la piattaforma rivoluzionaria del movimento operaio.
Il nesso che il marxismo, che Lenin stabilisce tra teoria e prassi collega in modo intrinseco la teoria e il partito. Se una concezione dimostra la sua validità nella prassi, essa deve costruire lo strumento della propria prassi; lo strumento che deve non soltanto interpretare ma cambiare il mondo: il partito. Il partito si presenta perciò come coscienza critica collettiva, e elaboratore della teoria in quanto protagonista della prassi. In esso vive, collettivamente, con una ricchezza che nessun altro istituto può conoscere, la coscienza critica dell’esperienza storica (la teoria, appunto). Il partito è il momento della sintesi critica delle molteplici esperienze del movimento.
Senza il partito, vale a dire senza quel processo per cui le esigenze, i risultati, le rivendicazioni del movimento – che il partito accoglie e suscita – passano per il setaccio del confronto critico, democratico, collettivo, il movimento stesso non può trovare la sua unità, definire i suoi ò obiettivi, disporli secondo una gerarchia di fini, fissarli in strategia, articolarli in tattica. Il movimento, abbandonato alla sua spontaneità, si frantuma, si disperde; si getta nell’avventura della ribellione disperata, o muore nella sfiducia e nell’apatia.
Il Che fare? è appunto la più ferma ed ampia critica che il marxismo abbia rivolto alla spontaneità. E la critica, rivolta allo spontaneismo degli economisti, acquista valore più generale, vale per lo spontaneismo del riformismo opportunista, che vede derivare la trasformazione socialista della società in modo meccanico dallo sviluppo delle forze produttive e da un processo evolutivo indolore; vale come critica alla spontaneità della politica spicciola, ma anche dell’anarcosindacalismo che – dall’altra sponda – privilegia il movimento e nega la funzione del partito.
Lenin afferma l’essenziale funzione della teoria rivoluzionaria, ma ciò non significa che egli stabilisca una meccanica identità tra teoria e programma politico e disconosca la necessaria articolazione tra i due momenti. In scritti di pochi anni posteriori al Che fare?, dirà che anche un prete può essere membro del partito socialdemocratico se ne accetta il programma e opera per la sua attuazione, perché «…un’organizzazione politica non può sottoporre i propri membri a un esame sull’assenza o meno di contraddizioni tra le loro opinioni e il programma del partito». Altrettanto, il modo con cui egli afferma con forza la funzione del partito non intende limitare l’ampiezza e l’articolazione del movimento e perciò dei vari istituti in cui esso si può esprimere (si pensi a come egli sviluppò la concezione dei soviet, l’attenzione che dedicò ai sindacati, alle cooperative e così via). Vi è in Lenin estrema attenzione alla spontaneità del movimento; non un rifiuto della spontaneità, ma dell’abbandonarsi ad essa. E ciò perché il movimento nel suo complesso, vivendo nelle sue diverse articolazioni, può trovare solo in un punto la sua piena consapevolezza e la sua unità: nella capacità di sintesi del partito. E’ proprio del partito, infatti, un carattere programmatico più generale (che investe tutto l’assetto della società e non solo alcuni suoi momenti); più avanzato (solo considerando tutto l’assetto della società ci si può proporre di trasformarla radicalmente). Del partito è proprio quel definirsi teorico che non può essere di nessuna altra organizzazione, senza che essa rinunzi alla sua natura e funzione (per esempio, un sindacato che si definisce per la sua ideologia non potrebbe realizzare la massima unità possibile dei lavoratori nella lotta sul piano economico e rinunzierebbe perciò alla propria natura).
Note
1 Sulla questione statutaria in parola, la posizione di Lenin avrà la maggioranza dei voti e di qui deriverà la denominazione di bolscevichi da bolscinstvo (maggioranza); alla corrente minoritaria di Martov toccherà l’appellativo di menscevichi, da menscinstvo (minoranza).
2 K.Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 305.