dagli Scritti politici III Volume di Antonio Gramsci 1925
Mentre si inizia il primo corso di una scuola di Partito, non possiamo fare a meno di pensare ai numerosi tentativi che in questo campo sono stati fatti, in seno al movimento operaio italiano, e alla singolare sorte che essi hanno avuto. Lasciamo da parte i tentativi compiuti in una direzione che non è la nostra, nella direzione delle «Università» proletarie senza colore di partito, accademie oratorie prive di ogni interno principio di coesione unitaria nei suoi migliori, veicolo spesso della influenza sulla classe operaia di sforzo e di ideologie antiproletarie. Essi hanno avuto il destino che loro conveniva, di succedersi e intrecciarsi senza lasciare nessuna traccia profonda. Ma nemmeno sui tentativi fatti nel campo nostro e sulle nostre direttive si può dire molto di diverso. Essi ebbero anzitutto sempre carattere sporadico, e inoltre non portarono mai a risultati soddisfacenti. Ricordiamo ad esempio nel 1919- 1920. La scuola allora iniziata a Torino tra un grande fervore di entusiasmo e in condizioni assai favorevoli non durò nemmeno tutto il tempo necessario a svolgere il programma tracciato all’inizio. Essa ebbe, nonostante ciò, una ripercussione assai favorevole nel movimento nostro, non però quello che se ne attendevano i promotori e gli allievi. Degli altri tentativi, nessuno a quanto noi conosciamo, ebbe il successo e la ripercussione di quello. Non si uscì mai dal gruppo limitato, dal piccolo circolo, dallo sforzo di pochi isolati. Non si riuscì a combattere e superare l’aridità e l’infecondità dei ristretti movimenti «culturali» borghesi.
Motivo fondamentale di questi insuccessi l’assenza di un legame tra le «scuole» progettate o iniziate e un movimento di carattere oggettivo. L’unico caso in cui questo legame esiste, è quello della scuola dell’Ordine Nuovo di cui sopra abbiamo parlato. In questo caso però, il movimento di carattere oggettivo, – il movimento torinese di fabbrica e di partito, – è di tal mole che soverchia e quasi annulla di fronte a sé il tentativo di creare una scuola nella quale siano affinate le capacità tecniche dei militanti. Una scuola adeguata alla importanza di quel movimento avrebbe richiesto, non l’attività di pochi, ma lo sforzo sistematico e ordinato di un partito intiero.
Considerata a questo modo la cattiva sorte toccata fino ad ora ai tentativi di creare delle scuole per i militanti del proletariato, – considerata cioè in relazione con la sua causa fondamentale, – essa appare non tanto come un male, ma come segno di inattaccabilità del movimento operaio da parte di quello che sarebbe, per esso, effettivamente un male. Male sarebbe se il movimento operaio diventasse campo di preda o strumento di esperienza per la sufficienza di male accorti pedagoghi, se esso perdesse i suoi caratteri di appassionata milizia per assumere quelli di studio oggettivo e di «cultura» disinteressata. Né uno «studio oggettivo», né una «cultura disinteressata» possono aver luogo nelle nostre file, nulla quindi che assomigli a ciò che viene considerato come oggetto normale di insegnamento secondo la concezione umanistica, borghese, della scuola.
Siamo una organizzazione di lotte, e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta la organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad esse la nostra azione di ogni giorno. Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto.
Fino a qual punto questa coscienza oggi esiste nel nostro Partito, è diffusa nelle sue file, è penetrata nei compagni che ricoprono funzioni di direzione e nei semplici militanti che devono portare quotidianamente a contatto con le masse le parole del Partito, rendere efficaci i suoi ordini, realizzare le sue direttive? Non ancora, crediamo noi, nella misura necessaria a renderci adatti a compiere in pieno il nostro lavoro di guida del proletariato. Non ancora in misura adeguata al nostro sviluppo numerico, alle nostre risorse organizzative, alle possibilità politiche che la situazione ci offre. La scuola di Partito deve proporsi di colmare il vuoto che esiste tra quello che dovrebbe essere e quello che è. Essa è quindi strettamente collegata con un movimento di forze, che noi abbiamo diritto di considerare come le migliori che la classe operaia italiana ha espresso dal suo seno. È l’avanguardia del proletariato, la quale forma e istruisce i suoi quadri, che aggiunge un’arma – la sua coscienza teorica e la dottrina rivoluzionaria, – a quelle con le quali essa si appresta ad affrontare i suoi nemici o le sue battaglie. Senza quest’arma il Partito non esiste, e senza Partito nessuna vittoria è possibile.
Necessità di una preparazione ideologica di massa 2
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Abbiamo posto il problema nei suoi termini pratici più immediati. Ma esso ha una base che è superiore ad ogni contingenza immediata.
Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico, e quello ideologico. La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; di lotta per l’eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione. Anche la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare una situazione democratica di equilibrio tra le classi che permetta al proletariato di organizzarsi e svilupparsi; lotta per la conquista del potere e per la creazione dello Stato operaio, cioè un’azione politica complessa attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina), e le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del comunismo.
La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l’una né l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica.
Nella sua prima fase sindacale, la lotta economica è spontanea, cioè essa nasce ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletario si trova nel regime borghese, ma non è di per se stessa rivoluzionaria, cioè non porta necessariamente all’abbattimento del capitalismo, come hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i sindacalisti. Tanto vero che i riformisti e persino i fascisti ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella sindacale. I riformisti si differenziano dai fascisti solo in quanto sostengono che se non il proletariato come classe, almeno i proletari come individui, cittadini, lottino anche per la «democrazia in generale», cioè per la democrazia borghese, in altre parole lottino solo per mantenere o creare le condizioni politiche della pura lotta di resistenza sindacale.
Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l’accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le quistioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L’elemento «spontaneità» non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese esistente.
È necessario l’elemento coscienza, l’elemento «ideologico», cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l’operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l’esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili, ecc.
I tre fronti della lotta proletaria si riducono a uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell’umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del Partito. Non ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe utopistico, perché la coscienza della classe come tale si modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe dominante, avrà a sua disposizione l’apparato di produzione e di scambio e il potere statale. Ma il Partito può e deve nel suo complesso, rappresentare questa coscienza superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle masse, non le guiderà, ma ne sarà trascinato. Perciò il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo.
L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari.
Abbiamo visto perciò nel Partito socialista italiano convivere insieme pacificamente le tendenze più disparate, abbiamo visto essere opinioni ufficiali del Partito le concezioni più contraddittorie. Mai le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista e occorresse difenderla da ogni contraffazione. Questa tradizione non è stata, per lo meno, interrotta in modo sistematico e con una attività notevole continuata.
Si dice tuttavia che il marxismo ha avuto molta fortuna in Italia e in un certo senso ciò è vero. Ma è vero anche che una tale fortuna non ha giovato al proletariato, non ha servito a creare nuovi mezzi di lotta, non è stato un fenomeno rivoluzionario. Il marxismo, cioè alcune affermazioni staccate dagli scritti di Marx, hanno servito alla borghesia italiana per dimostrare che per le necessità del suo sviluppo era necessario fare a meno della democrazia, era necessario calpestare le leggi, era necessario ridere della libertà e della giustizia: cioè è stato chiamato marxismo, dai filosofi della borghesia italiana, la constatazione che Marx ha fatto dei sistemi che la borghesia adopera, senza bisogno di ricorrere a giustificazioni marxiste, nella sua lotta contro i lavoratori. E i riformisti, per correggere questa interpretazione fraudolenta, sono essi diventati democratici, si sono essi fatti i turiferari di tutti i santi sconsacrati del capitalismo. I teorici della borghesia italiana hanno avuto l’abilità di creare il concetto della «nazione proletaria», cioè di sostenere che l’Italia tutta era una «proletaria» e che la concezione di Marx doveva applicarsi alla lotta dell’Italia contro gli altri Stati capitalistici, non alla lotta del proletariato italiano contro il capitalismo italiano; i «marxisti» del Partito socialista hanno lasciato passare senza lotta queste aberrazioni, che furono accettate da uno, Enrico Ferri, che passava per un grande teorico del socialismo. Questa fu la fortuna del marxismo in Italia: che esso servì da prezzemolo a tutte le indigeste salse che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini.
Per lottare contro la confusione che si è andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo almeno nei suoi termini più generali.
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Note
1 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 1 aprile 1925, sotto la rubrica «Editoriale».
2 Scritto nel maggio del 1925, pubblicato in Lo Stato operaio del marzo-aprile 1931.