2° Forum della Rete dei Comunisti 24 settembre 2005
Egemonia politica nell’epoca del conflitto di classe globale
La borghesia, nelle sue concrete articolazioni nazionali e nella sua azione storica, ha svolto una funzione egemonica nella trasformazione sociale e nello sviluppo complessivo dell’umanità che ha avuto il suo culmine nell’800. Il ‘900 è stato, invece, il secolo dell’ assalto al cielo della classe operaia, del proletariato e delle classi oppresse di tutto il mondo che hanno trovato il limite alla loro ipotesi di transizione sociale anche nella ritrovata capacità a fine secolo della borghesia di riaffermare quella egemonia persa nel conflitto di classe internazionale novecentesco.
In altre parole di fronte al nascere di un blocco storico alternativo costituito dai paesi del campo socialista, dalle classi operaie occidentali e dai popoli del terzo mondo in lotta contro l’imperialismo la borghesia internazionale, riunificata da un pericolo ritenuto mortale, ha ritrovato il suo ruolo egemonico rilanciando lo sviluppo delle forze produttive, la costruzione di strumenti unitari di gestione internazionale (Il FMI, la Banca Mondiale, il WTO, le alleanze militari regionali come la NATO, etc) ed una ideologia democratica che, beneficiando dei limiti di quella esperienza storica e sfruttandone le insite opportunità, hanno bloccato ogni possibile transizione rivoluzionaria.
Questa ritrovata egemonia non ha, però, ritrovato il “respiro” storico di quella affermatasi nell’800 perché si è manifestata nell’epoca dell’imperialismo, così come la definisce in termini generali Lenin, e dunque ha assunto un carattere reazionario e non certo rivoluzionario come quello avuto contro il feudalesimo e l’aristocrazia.
Per capire la situazione attuale bisogna perciò collocare questa ripresa di egemonia nel contesto concreto della attuale fase imperialistica per definirla più precisamente nelle sue possibilità di sviluppo e nei suoi limiti reali. L’affermazione piena del capitalismo e la nascita dell’imperialismo della prima fase, cioè di quello coloniale, hanno prodotto circa cinquanta anni di pace, relativa, e di competizione pacifica tra le grandi potenze del tempo. Oggi a circa quindici anni della riaffermazione completa e formale del capitalismo, che va sotto il nome di globalizzazione neoliberista, emergono sintomi di una condizione “patologica” che a stento l’ ideologia totalizzante ed i suoi mezzi di comunicazione riescono a nascondere.
Infatti l’ideologia democratica agitata come una clava contro il movimento di classe e quelli per l’ autodeterminazione non nasce da una ritrovata democrazia economica ma viene ideologicamente usata dai gruppi monopolisti che divengono sempre più una cerchia ristretta ed accentratrice del potere mondiale. Alla democrazia formale sempre più screditata, sia nei paesi periferici che nella metropoli, viene associato l’uso della forza, spesso praticata in modo brutale, che denuncia manifestamente l’incapacità della borghesia di essere e rimanere classe dirigente ma di “scivolare”, sempre più, in classe dominante cioè in grado di proporre solo una regressione e non uno sviluppo valido per tutti anche se questo è piegato alla logica del profitto.
Anche il riemergere della guerra come strumento generale di risoluzione delle contraddizioni è un sintomo di crisi di egemonia in quanto il conflitto in corso riguarda certo i paesi della periferia ma coinvolge direttamente i blocchi economici formatisi a cavallo del secolo in un confronto diretto che non è certo “freddo”, come quello avuto con l’URSS, ma diviene direttamente caldo come con la Cina su Taiwan e con la Russia, che ha ancora un potente arsenale nucleare, nel Caucaso e nell’Asia centrale oppure ravvicinato come quello con l’Europa nel Medio Oriente e nell’Africa.
Gli elementi di crisi della pur ritrovata egemonia non sono causati da errori o da semplici scelte politiche ma hanno una loro base materiale nelle dinamiche profonde del modo di produzione capitalistico. Infatti la “Competizione Globale”, subentrata ad una generica ed ideologica “Globalizzazione”, nasce dal conflitto tra le varie frazioni del capitale mondiale per accaparrarsi profitti e superprofitti che tendono a divenire sempre più inadeguati rispetto alle dimensioni ed alle esigenze di sviluppo degli ormai diversificati soggetti imperialisti.
Sintomatica è in questo senso la diversificazione ideologica e della percezione di se e della propria funzione storica che si sta manifestando tra gli USA e la costituenda Unione Europea. I primi ormai si rappresentano come i difensori della democrazia e della libertà, ovviamente borghese, in forme molto vicine a quelle dell’integralismo religioso ed attuano ogni mezzo per affermare questi principi e soprattutto la loro supremazia mondiale. L’ Europa invece, che ha il problema di raggiungere la parità strategica con gli USA, diviene paladina di una visione democratica multipolare nella gestione delle vicende internazionali; ovviamente il multilateralismo è limitato alle sole potenze che siano effettivamente tali e non fa certo riferimento ad una concezione di sviluppo democratico per tutti i paese e per la intera umanità.
Sullo sfondo di questi eventi, che riempiono la cronaca quotidiana dello scenario internazionale, si manifestano una serie di contraddizioni che mostrano come l’ attuale capitalismo sia simile ad un “apprendista stregone” che riesce a mobilitare forze sociali enormi, mondializzate, ma che le vuole poi piegare ai suoi ridotti interessi di classe, cioè alla sola valorizzazione del capitale, estranei e contrapposti a quelli di un mondo interconnesso e “globalizzato”.
Infatti a tutti è chiara la questione ambientale che fa intravedere i limiti dello sviluppo tendenzialmente illimitato, ma altrettanto irreale, del modo di produzione capitalista. Questa realtà è nota non solo a chi è sensibile alle questioni ambientali ma anche ai circolo dominanti del capitalismo che continuano a gestire questa contraddizione avendo come unico riferimento i propri interessi imperialistici.
Riemerge con forza la questione democratica e mostra le tecniche con le quali le sacralizzate elezioni in realtà impediscono ogni effettiva partecipazione democratica utilizzando metodi elettorali altrettanto antidemocratici e funzionali quali quelli del voto per censo. Gli esempi sono infiniti e vanno dai brogli elettorali fatti da Bush nelle presidenziali fatte nel duemila, premiati poi da un maggior numero di voti nel 2004, al rafforzamento dei sistemi bipolari nei paesi capitalisticamente avanzati, che impediscono la partecipazione effettiva di ampi settori sociali, fino all’uso sistematico della corruzione che i paesi imperialisti praticano in caso di elezioni in vari paesi della periferia utilizzando la loro enorme potenza finanziaria. Ovviamente non ci possiamo dimenticare che laddove tutto questo non è possibile si possono sempre fare elezioni “democratiche” grazie agli interventi militari come è avvenuto prima nella ex Jugoslavia o come avviene oggi nell’ Iraq occupato.
Anche la crescita della miseria e della fame, in un mondo che potrebbe produrre condizioni di vita decente per tutta l’umanità, è il prodotto del moderno imperialismo che vede una superfluità delle popolazioni di quelle parti del mondo ricche di materie prime che devono essere messe a totale disposizione delle multinazionali e del profitto. Emigrazione, fame, miseria e soprattutto la guerra, nelle sue molteplici forme, non a caso colpiscono in modo più sistematico che altrove alcune aree del mondo che vanno dall’Africa, ai paesi arabi produttori di petrolio e che arrivano fino all’Asia centrale; aree dove la evidente “inutilità” della popolazione ai fini della valorizzazione del capitale viene risolta in modo drastico eliminando e riducendo al minimo indispensabile ogni forma statuale degna di un tale nome e facendo rinascere forme coloniali che garantiscono la repressione ed il controllo diretto del territorio.
Questi ed altri ancora sono i sintomi che mostrano una inversione di tendenza nella affermazione dell’egemonia borghese che a pochi anni dalla sua “rinascita”si rivela già incapace di risolvere i problemi da essa stessa creati. Ovviamente rifuggiamo da ogni catastrofismo o schematismo ma è anche abbastanza chiaro che la partita per una trasformazione sociale e per la possibilità per i comunisti di ritrovare una funzione storica e politica diviene di nuovo una possibilità reale, anche se non facile da praticare e rendere concreta.
Quale classe dalla nuova fase imperialista?
Una tale possibilità non produce automaticamente coscienza ed organizzazione politica, come invece spesso si è creduto nel movimento comunista astraendo il conflitto di classe dalla sua storia e dal contesto. Sempre, invece, è stata determinante la soggettività, il suo livello di analisi, di coscienza dei problemi e la sua capacità di organizzazione. Quello che vogliamo approfondire in questo secondo Forum della Rete dei Comunisti è sicuramente una ulteriore analisi della oggettività ma riuscire anche a individuare i punti di connessione di questa con la ripresa di una soggettività che mantenga il suo asse di riferimento nella trasformazione sociale e non in un trasformismo quasi incomprensibile e troppo scoperto dato il contesto generale che viviamo in Italia ed a livello internazionale.
Nel Forum fatto nell’Aprile del 2004 abbiamo cercato di tracciare le tendenze in atto nella trasformazione della classe a livello internazionale e cercato di descrivere le forme che la classe assume a livello mondiale ed in relazione alla modifica radicale dei sistemi produttivi. Il paradigma che abbiamo come riferimento è quello che Giorgio Gattei ha definito “l’imperialismo del terzo periodo”; infatti nell’ imperialismo del libero scambio i paesi colonizzati erano funzionali esclusivamente alla esportazione delle materie prime. Nell’ imperialismo di Lenin,cioè quello che abbiamo avuto nel ‘900, l’esportazione di capitale era finalizzata alla produzione per vendere nei paesi della periferia ed allargare così i propri sbocchi di mercato.
L’ imperialismo attuale si basa anch’esso sugli investimenti esteri ma finalizzati alla produzione di merci, con costi della forza lavoro estremamente bassi, da esportare successivamente nei paesi sviluppati; è naturale che una parte della merce rimanga nel paese produttore ed è indirizzata a quelle frazioni della popolazione locale che ha un potere di acquisto simile a quello dei paesi imperialisti. Questa “opportunità” di riduzione dei costi della forza lavoro viene dallo sviluppo scientifico e tecnologico e causa una radicale modifica dei sistemi produttivi.
Questi, infatti, escono dalla fabbrica fordista e si spalmano, in forma modulare, lungo le cosiddette “filiere produttive” che dislocano i centri direzionali e le funzioni più evolute della produzione al centro, cioè ne luoghi finanziariamente più forti e dove ci sono i mercati di sbocco, ovvero nei paesi imperialisti. Mentre la produzione vera e propria della merce avviene nella periferia dove i costi sono immensamente più bassi e dove è possibile, per far rimanere tali costi bassi, mettere in competizione tra loro o controllare in vario modo intere aree del pianeta dove il bisogno di lavoro è più disperato.
Gli effetti di una tale trasformazione sulla classe lavoratrice, soprattutto in una prospettiva di affermazione sempre più ampia di un tale modello, sono evidenti e spiegano bene anche come la riaffermazione della egemonia borghese a fine ‘900 non sia stata causata dalla “politica” ma il prodotto di un salto qualitativo e quantitativo delle forze produttive evidentemente ancora compatibile con la finalità della valorizzazione del capitale.
Questi infatti vanno dalle modifiche avute all’ interno dei paesi avanzati dove la dimensione di mercato, finanziaria e la produzione dei servizi sono divenute le caratteristiche predominanti; mentre nelle periferie si è ulteriormente accelerato il processo di inurbamento dei contadini e la trasformazione di questi in classe operaia vera e propria anche se con condizioni economiche, politiche e soggettive allo stato assolutamente non paragonabili con il passato.
Il salto prodotto ha avuto anche altri effetti materiali e politici, si sono infatti accentuate le differenze all’interno della classe lavoratrice che hanno portato ad una divisione ed indebolimento dell’azione organizzata; questo indebolimento ha portato a sua volta ad uno sfruttamento più esteso e ramificato che segna certamente la condizione dei lavoratori del centro imperialista ma anche, in modo drammaticamente molto peggiore, i lavoratori e la nuova classe operaia della periferia.
C’è però un altro effetto strutturale che peserà nel futuro ed è che quella che era la classe lavoratrice degli stati nazionali del ‘900 si sta trasformando in una inedita classe con dimensioni transnazionali sempre diversificata al suo interno per condizioni materiali e politiche ma anche sempre più parte organica di una produzione internazionalizzata.
Riteniamo, perciò, smentite tutte quelle teorie che negli anni passati affermavano la fine della classe operaia e del lavoro, quello che è cambiata non è la natura dei rapporti capitalistici di sfruttamento ma la “fenomenologia” della classe lavoratrice che oggi non può più essere una mera continuità della classe operaia della grande fabbrica del ‘900 acquistando così una sua specificità storica che peraltro è ancora in via di definizione e di sviluppo.
D’altra parte non ci convince nemmeno la teoria sulle Moltidutini in quanto se è vero che la diversificazione e la disgregazione della vecchia composizione di classe nei paesi a vecchia industrializzazione e i nuovi soggetti nati dall’ ultima fase di industrializzazione della periferia producono una moltidutine di diverse figure è anche vero che la contraddizione tra capitale e lavoro ed il rapporto di sfruttamento che esiste nelle società capitaliste rimane il nodo centrale attorno a cui sta ruotando anche questa nuova grandiosa ristrutturazione mondiale della produzione.
Ci siamo limitati ad evidenziare per sommi capi le tendenze e le nuove caratteristiche della classe lavoratrice perché serve ai ragionamenti politici che vogliamo successivamente fare su queste pagine, ma rinviamo agli atti del convegno del 2004 l’ analisi più approfondita e le conclusioni alle quali, seppure in modo parziale, siamo giunti nel descrivere i dati oggettivi con i quali oggi dobbiamo fare i conti.
Dalla sconfitta alla resistenza globale
La rottura che emerge da questo nuovo quadro con quella che è stata la classe operaia della produzione di massa fordista è netta sul piano del ruolo di questi lavoratori nella produzione complessiva ma non porta affatto alla loro scomparsa, piuttosto ne ridefinisce funzioni produttive e collocazione nelle filiere produttive.
Questo non è stato un dato meramente tecnico ma è il prodotto della reazione delle classi dominanti al conflitto sociale messa in moto dalla fine degli anni ‘70 e che, assieme agli operai della grande impresa, ha ridisegnato le funzioni, i livelli di salario e di vita, le tutele sociali per i miliardi di lavoratori dislocati nei diversi paesi.
L’azione portata avanti con i processi di finanziarizzazione dell’economia a fine secolo ha distrutto economie di interi paesi, privatizzato servizi sociali fondamentali, esternalizzato e delocalizzato la produzione delle grandi e medie fabbriche dei paesi sviluppati, prodotto processi migratori che minano l’unità dei lavoratori dei paesi ospitanti, ridotto al minimo indispensabile le funzioni di quegli stati divenuti subordinati alle dinamiche imperialiste, insomma la modifica della condizione dei lavoratori e delle classi subalterne è stata radicale ed è stata prodotta dalla lotta di classe dall’ “alto” fatta dalla borghesia internazionale.
Ovviamente questo è stato un processo che non ha visto in campo solo gli strumenti economici e finanziari ma anche quelli politici, diplomatici e militari; in sintesi l’offensiva antioperaia è stata a tutto campo ed ha anche raccolto risultati inaspettati come la crisi ed il crollo dell’URSS; ma nonostante questa condizione cominciano ad emergere segnali forti di resistenza in tutto il mondo.
Naturalmente è prematuro parlare di esistenza di ipotesi rivoluzionarie in campo, ma stanno emergendo da una parte i sintomi di quella che abbiamo definito una crisi di egemonia, che non sono altro che la manifestazione dei limiti dell’attuale sviluppo sociale. Dall’altra segnali di ripresa del conflitto di classe e della resistenza allo strapotere delle grandi potenze; ci sembra che si stia delineando una resistenza che possiamo definire anch’essa globale, diversificata da area ad area, ma che ha come denominatore comune la necessità di rispondere alle politiche imperialiste sia che siano attuate nei paesi dominanti che nel resto del mondo.
Le forme di questa resistenza sono ovviamente diverse; il conflitto di classe nei paesi dominanti ha un carattere soprattutto sociale ed economico a difesa dei diritti dei lavoratori e della cittadinanza ma ha anche una valenza di difesa della democrazia e della partecipazione di fronte alla involuzione sistematica dei sistemi istituzionali nei paesi sviluppati. Questo si svolge in forme di lotta non violente essendo ben definiti sia il livello delle contraddizioni materiali sia i rapporti di forza complessivi comunque sfavorevoli alla classe lavoratrice. Pesa in particolare nel nostro paese, ma anche in altri, l’assenza di una soggettività politica indipendente dagli schieramenti istituzionali che impedisce di cogliere appieno sia le contraddizioni dell’attuale sviluppo sia le opportunità di crescita organizzata, sociale e politica, delle forze di classe.
Anche nelle vecchie e nuove periferie industriali e produttive, la parte a monte delle cosiddette “filiere produttive”, i livelli di sfruttamento raggiunti cominciano a far riemergere i segnali di una ripresa del conflitto di classe; questo forse non è ancora vero, oppure non se ne è ancora a conoscenza, per quanto riguarda i paesi dell’est europeo e di quelli asiatici, anche se in India la forte presenza anche elettorale dei partiti comunisti è un segnale positivo, mentre molto più forte e visibile è il conflitto che sta montando in America Latina dove il desiderio di riscatto sociale delle classi subalterne sta facendo nascere molti governi di sinistra, anche se questi hanno spesso il carattere della moderazione.
A questo desiderio di riscatto le vecchie classi dominanti rispondono spesso con la violenza costringendo i lavoratori ad una autodifesa che però non arretra di fronte alle provocazioni; le aggressioni armate in Amazzonia contro le occupazioni dei sem terra, le squadre della morte in Colombia, le provocazioni poliziesche fatte alla classe operaia in Argentina dopo la bancarotta causata dal liberismo di Menem sono alcuni esempi di come non sia oggi possibile bloccare una enorme sommovimento sociale a carattere continentale.
Indubbiamente però la risposta più forte alla aggressività imperialista viene da quei paesi aggrediti militarmente e che si stanno battendo in armi in varie parti del mondo. L’Iraq è sicuramente l’esempio più significativo e sta assumendo il ruolo che negli anni ’60 e ’70 ha avuto il Vietnam; ma ci sono molti altri i popoli che si battono militarmente in tutti i continenti; dalla Colombia al Congo alla Palestina, dalle Filippine all’ Afghanistan fino alla resistenza che la Siria e l’Iran oppongono alla aggressione, per ora solo politica, degli Stati Uniti di Bush.
Esiste e si sta manifestando una “resistenza globale” che in varie forme e modi reagisce ai meccanismi economici, sociali, politici, statuali e militari che le politiche imperialiste delle grandi potenze attuano a danno delle classi sociali subalterne, dei lavoratori e di interi popoli del pianeta. Se questo è un fatto positivo che va sottolineato e sostenuto con forza, va anche messo in evidenza il limite che emerge in questa fase della lotta antimperialista, ovvero che queste lotte spesso hanno una soggettività politica che non si pone l’obiettivo del superamento del capitalismo e che si rappresentano spesso in forme regressive quali quelle religiose o semplicemente nazionali che rendono difficile la costruzione un fronte internazionale di lotta.
Questo lo diciamo con il massimo della modestia possibile e senza permetterci di dare giudizi sui caratteri islamici della lotta contro gli USA in Medio Oriente, sarebbe un errore gravissimo nella situazione attuale, o su qualsiasi altra lotta di liberazione ma vogliamo comunque evidenziare quello che per noi è un limite perché, in quanto comunisti, il problema che ci si pone è si quello della lotta contro lo sfruttamento imperialista ma anche quello di costruire una diversa società. In questa senso è chiaro che lavorare, concepire, ipotizzare un’altra società significa anche costruire la capacità soggettiva di incidere e di orientare il conflitto in corso verso, come oggi si dice, un altro possibile mondo.
Se questa è la condizione generale ci sembra, invece, che ci sia una parte del mondo dove una serie di situazioni obiettive e soggettive convergono e possono riaprire possibilità nuove per una alternativa sociale e politica al capitalismo. Questa parte è il continente Latino Americano; qui infatti si stanno manifestando una serie di eventi positivi che possono rappresentare una reale possibilità di cambiamento. Il conflitto sociale e di classe ormai attraversa tutto il continente e tutti i settori sociali, è chiaro che questo non ha oggi un carattere rivoluzionario ma il ruolo che gli USA vogliono assegnare a quella parte del mondo, dentro il progetto dell’ALCA non potrà che peggiorare ed amplificare le contraddizioni economiche e sociali.
L’ aggressione finanziaria gestita dal FMI contro l’Argentina, le politiche di privatizzazione del gas e perfino dell’acqua, che ha provocato rivolte in Bolivia, la dollarizzazione forzata in alcuni paesi come L’Equador, l’intervento armato in Colombia contro la lotta di liberazione con il pretesto del narcotraffico e molti altri esempi ci dicono che il posto assegnato a quel continente è quello della produzione di merci a basso costo e, forse in prospettiva, in alternativa al monopolio della manifattura oggi detenuta da Pechino. In questo progetto di sfruttamento è chiaro che il conflitto è destinato a durare ed a intensificarsi facendo maturare così l’organizzazione e la coscienza di una classe a dimensione continentale.
Anche sul piano politico la situazione è, dal nostro punto di vista, più avanzato perché le forze di sinistra, comuniste e democratiche non hanno lasciato ilo posto ad espressioni politiche di tipo nazionalista o religioso; ha inciso su questo piano la capacità progettuale e la funzione di Cuba e del suo partito comunista che, nonostante i tentativi di strangolamento, è riuscita a rompere l’accerchiamento USA ed a divenire riferimento politico e strategico per le forze politiche e per i nuovi governi, anche per quelli non rivoluzionari, del continente.
La nascita di governi come quello di Chavez in Venezuela è un altro segnale politico forte in quanto si va affermando e costruendo una identità Latinoamericana democratica ed antimperialista che da forza ad una battaglia continentale articolata in vario modo, dalla lotta armata alle lotte sociali di massa fino a quelle di carattere democratico e di classe, ma che costruisce una prospettiva che non può non avere un carattere socialista in contrapposizione ai progetti imperialisti degli USA.
Infine c’è un’altra condizione decisiva ai fine di una effettiva possibilità di trasformazione ed è il fatto che la dimensione continentale è l’unica che possa rendere credibile una alternativa sociale in quanto ha le dimensione adeguate allo sviluppo delle attuali forze produttive. Gli imperialismi oggi non possono esistere se non superando la loro vecchia dimensione nazionale e proiettandosi sul piano dei blocchi economici. Questo è valido per il progetto di unificazione europea ed è la via seguita anche dagli USA prima con il NAFTA ed ora con l’ALCA; ma questa è in realtà la strada che vogliono percorrere tutti quei paesi che mirano o ad affrancarsi dal potere delle grandi potenze o a divenire essi stessi dei competitori internazionali.
Il continente Latinoamericano ha in se tutte queste potenzialità di sviluppo, dalle materie prime alle risorse energetiche alle forze di lavoro qualificate, da gruppi politici dirigenti ad organizzazioni sociali e politiche di massa fino ad una cultura omogenea su scala continentale, cioè ci sono tutte le condizioni per poter sostenere una fase di sviluppo che tenga conto del livello scientifico e tecnologico raggiunto oggi nel mondo e che lo sappia gestire con fini sociali diversi da quelli della valorizzazione del capitale. Questa è, allo stato dei fatti, solo una potenzialità ed una possibilità, ma se le prospettive che il capitale sta mostrando al mondo sono quelle attuali fatte di fame, guerra e sfruttamento per gran parte dell’umanità è chiaro che le potenzialità possono trasformarsi in realtà.
Politica e classe trasnazionale
La nuova dimensione dell’imperialismo in questo inizio di secolo pone certamente problemi di analisi e di corretta interpretazione ma appare già da oggi evidente che le questioni più complesse sono quelle politiche, sia sul piano interno al nostro paese sia su quello internazionale che interagisce in modo più diretto ed intenso di quanto abbia fatto durante il XX secolo, quando comunque la dimensione internazionale era già fortemente presente se non predominante.
In termini pratici per i lavoratori dei “centri” imperialisti questo ha varie conseguenze sulle loro condizioni che vanno dai processi di flessibilità e precarizzazione generalizzati, alla riduzione sistematica del Welfare tramite privatizzazioni ed incrementi diversificati del fisco fino ad un peggioramento reale e sistematico dei livelli di reddito, vita e di benessere raggiunti nei decenni precedenti.
Il peggioramento viene percepito non solo concretamente ma anche politicamente come una crisi di prospettive che divengono sempre più precarie e non prevedibili. Naturalmente questa condizione e percezione di se dei lavoratori avviene in un contesto dove sul piano quantitativo, per quanto si stiano riducendo i margini di benessere, il livello di vita è, per la gran parte della popolazione, molto al di sopra delle condizioni dei lavoratori del resto del mondo. Tra l’ altro questa “tenuta” del benessere è prodotta anche dalla necessità per il capitale di salvaguardare i mercati di sbocco delle merci e dei servizi di massa in quanto, praticando politiche di bassi e bassissimi salari nelle periferie, è di fatto impossibile sostituire i mercati interni ai paesi sviluppati.
Si manifesta così sul piano politico una prima contraddizione per la nuova dimensione internazionale della classe in quanto se è vero che c’è una continuità organica della produzione dal centro alla periferia, e viceversa, è anche vero che c’è una discontinuità di condizioni materiali evidente a tutti, a cominciare dai lavoratori stessi, che pesa dentro una lavoro di ricostruzione della soggettività di classe, il quale deve tenere presente ambedue gli aspetti per riuscire a portarli ad una inevitabile sintesi superiore se non si vuole essere travolti, al momento giusto, dalla subordinazione alla ideologia predominante dei lavoratori del centro.
Vale qui la necessità di riprendere una discussione sulla questione che Lenin ha posto all’ inizio del ‘900 che è quella della cosiddetta “aristocrazia operaia” che oggi si ripropone sotto vesti non “operaie” ma “salariate”. Questa è una discussione complessa e difficile perché rimette in discussione molti atteggiamenti e concezioni date per acquisite anche dai comunisti ma che devono fare i conti con una dimensione mondiale non solo delle dinamiche economiche ma anche sociali e politiche.
Tracciamo in estrema sintesi la tesi di Lenin elaborata analizzando le vicende del movimento operaio europeo a cavallo tra l’800 ed il ‘900. La tesi sostiene che la divisione del movimento operaio tra riformisti e rivoluzionari non ha un carattere essenzialmente politico ma si basa su una divisione oggettiva della classe operaia. Infatti il passaggio dal capitalismo della libera concorrenza all’imperialismo ha fornito alle borghesie nazionali enormi profitti e superprofitti, generati dalla produzione monopolistica e dall’estendersi delle colonie, che permettono una redistribuzione della ricchezza con la finalità politica di dividere il proletariato del proprio paese.
Questa condizione oggettiva, sommata alla egemonia ideologica della borghesia, produce una spaccatura politica del proletariato su scala nazionale e genera due tendenze nel movimento operaio che possono trasformarsi anche in due partiti.
Infatti se è vero che una parte della classe operaia usufruisce delle “briciole” elargite dall’imperialismo è anche vero che la stragrande parte del proletariato viene ancora più sfruttata grazie a questa divisione politica operata dal capitale e sostenuta dai gruppi dirigenti riformisti.
Quali sono le differenze dall’analisi fatta a inizio ‘900? Le differenze sono tali da rendere obsoleto il concetto di una “aristocrazia” nella classe lavoratrice? Indubbiamente una prima differenza sta nelle tendenze in atto poiché, nella fase “aurea” dell’imperialismo, la redistribuzione anche delle briciole significava all’epoca un miglioramento in termini assoluti della condizione di una frazione della classe operaia ed era vissuta come una opportunità di emancipazione dalla miseria da parte della “aristocrazia operaia” storica.
Oggi dopo la crisi del cosiddetto “compromesso fordista”, della politica degli alti salari praticata nella seconda metà del ‘900 e del welfare si ha un effetto contraddittorio in quanto da una parte si mantiene in assoluto una condizione di privilegio rispetto ai lavoratori che partecipano alla produzione globalizzata, ma dall’altra la perdita di ricchezza monetaria e sociale causata dal nuovo contesto economico vengono percepite come una perdita ed un peggioramento delle proprie prospettive.
Un’altra evidente differenza è il passaggio del proletariato e della classe operaia da una dimensione nazionale ad un transnazionale dove alla scissione, descritta all’epoca di Lenin, di carattere meramente economico si aggiungono anche altri elementi di diversificazione quali i differenti stati dove si produce, le diverse culture e livelli di coscienza ed organizzazione politica, una difficoltà di omogeneizzare soggettivamente in tempi brevi quello che oggettivamente è stato già unificato. Ciò però non vuol dire che esista una linea netta di separazione che ricalca pedissequamente i confini dei paesi imperialisti in quanto i due modi di essere e condizioni materiali della classe lavoratrice sono presenti sia al centro che in periferia anche se in misure diversificate.
Infine quelle che vengono definite le due tendenze politiche del movimento operaio che possono divenire, come poi è storicamente avvenuto, due partiti subiscono oggi lo stesso processo transnazionale dove la soggettività e l’organizzazione di classe, cioè la base per quella che è stata sempre definita la coscienza politica dei lavoratori, se non tengono conto delle trasformazioni in atto rischiano di “scivolarci tra le dita delle mani” come sabbia e di trasferirsi e manifestarsi solo nella periferia, rafforzando così il progetto di divisione funzionale al mantenimento dell’egemonia dominante.
Dunque è ancora valido sostenere l’esistenza di una “aristocrazia salariata” nei paesi imperialisti? Noi riteniamo di si, anche se lo scenario odierno è più complesso e difficile di quello inizio ‘900 dove il dato direttamente economico, la redistribuzione delle briciole, era molto più determinante. Infatti la realtà che si vive oggi nella percezione dei lavoratori non è quella di un miglioramento delle prospettive ma, per la prima volta, di un peggioramento per se e per i propri figli che in alcuni casi può essere anche drammatico. I processi di proletarizzazione e dequalificazione, la precarizzazione del lavoro e della vita, la riduzione del reddito reale e del benessere materiale, la competizione lavorativa con gli immigrati, che fuggono da condizioni drammatiche, i processi di delocalizzazione, che rafforzano il ricatto del posto di lavoro, sono tutti elementi di una tendenza opposta a quella del miglioramento.
A questa percezione del peggioramento si aggiunge però la coscienza, per ampi settori sociali, che, comunque, nel contesto internazionale viviamo una condizione privilegiata prodotta, ancora oggi, dallo status di paese imperialista. Questo, infatti, continua ad usare i propri superprofitti non solo per mantenere la stabilità politica interna ai paesi dominanti ma anche per sostenere quei mercati dove è possibile poter vendere in modo più remunerativo le sue merci e servizi.
In questa condizione di instabilità e di disorientamento quello che decide per i lavoratori nel percepirsi come classe piuttosto che come individuo, che deve difendere i propri relativi privilegi, è quello della soggettività politica, della coscienza e della organizzazione di classe. E’ su questo fronte che va giocata la partita dell’egemonia se non si vuole rimanere travolti da una situazione in prospettiva drammatica. Questo non riguarda solo i settori più radicali, antagonisti e comunisti ma quegli stessi che si definiscono di sinistra e riformisti e che verranno messi in crisi da una affermazione totalizzante della cultura e della politica imperiale che caratterizza non solo gli stati nazionali ma anche, per quanto ci riguarda, la stessa Unione Europea e la sua Carta Costituzionale in via di approvazione nei paesi aderenti.
La nuova dislocazione della classe lavoratrice ha in se enormi possibilità di trasformazione sociale ma ha anche, almeno in questa sua fase iniziale, dei seri pericoli politici che vanno colti subito nella loro gravità. Il più grave di questi è che si riproduca una frattura tra lavoratori del centro e quelli della periferia, cioè una situazione che in altre epoche storiche ha portato ad avventure belliche pagate solo dalle classi subalterne. Non stiamo facendo delle semplici ipotesi teoriche ne, tanto meno, ideologia in quanto i rischi che vediamo emergono già ora con forza dalla realtà.
Non ci riferiamo solo ai folkloristici rappresentanti della Lega Nord che chiedono l’istituzione dei dazi contro i prodotti cinesi, queste sono solo espressioni farsesche di una tendenza molto seria. Quanto sia, appunto, seria lo dimostrano le elezioni Statunitensi dell’anno passato che hanno non solo riconfermato Bush ma che lo hanno premiato con un vantaggio elettorale di tre milioni di voti. Come è possibile che ciò sia accaduto? Dopo i brogli elettorali elettorali del 2000, dopo l’avvio di una guerra costruita sulle bugie pubblicamente ammesse, dopo l’aumento fuori controllo dei cosiddetti debiti gemelli, quello statale e quello commerciale, come è stata possibile una vittoria schiacciante di Bush? Se cerchiamo una risposta “politica” probabilmente non saremo in grado di capire i meccanismi profondi della società americana che hanno portato a questa situazione.
Rinviamo al Forum una analisi più dettagliata e politicamente più precisa del voto negli Usa, quello che ci sembra vada sottolineato ora è che sotto una copertura ideologica fatta di “Dio, Patria e Famiglia” settori molto consistenti della società americana, i cosiddetti ceti medi che non sono altro che i lavoratori salariati oggi in crisi degli Stati Uniti, si sono schierati coscientemente per la brutale politica imperialista di Bush per il semplice ma consistente fatto che ritengono necessario che gli Stati Uniti mantengano il ruolo di potenza dominante a livello mondiale per difendere le loro condizioni economiche e sociali.
Questi consistenti settori della società americana e della classe lavoratrice di quel paese sanno benissimo cosa significa in termini di costi umani e materiali l’aggressione all’Iraq, tant’è che in altri momenti storici come nel caso del Vietnam la risposta di quella società è stata ben diversa, ma stretti tra una concreta prospettiva di arretramento economico e sociale, l’assenza di ogni soggettività antagonista che sappia affermare principi di classe e democratici e la possibilità di mantenere il loro status sostenendo il ruolo imperialista degli Stati Uniti scelgono quest’ultima strada adagiandosi sulla rappresentazione ideologica e religiosa che gli forniscono le sue classi dominanti.
Una prospettiva di questo tipo per ora è difficile che riaffermi anche nel nostro paese ed in Europa ma se i motivi che hanno fatto rieleggere Bush sono strutturali e non contingentemente politici è evidente che il rischio di una completa subordinazione alle politiche imperialiste qui in Europa lo corriamo anche noi con tutti gli effetti conseguenti sul piano politico interno ed internazionale.
Dunque i discorsi che vengono fatti a sinistra sulle guerre umanitarie, il non riconoscere il diritto alla autodeterminazione dei popoli nelle forme e nei modi da loro decisi tacciandoli di terrorismo, pensare comunque che è l’occidente il punto più avanzato dello sviluppo umano e i diffusi sentimenti eurocentrici, che si vivono anche negli ambiti della sinistra nostrana, sono elementi negativi che spingono verso una rottura strategica tra i lavoratori del centro e quelli della periferia indebolendo le possibilità di risposta democratica a ideologie e politiche aggressive.
Ma questa non è una novità
Di fronte a questa prospettiva ed a questi possibili scenari, come comunisti che devono fare i conti con la propria storia è forse utile aprire una parentesi di riflessione teorica, qui appena accennata, sulle modalità della transizione sociale dopo il fallimento dei paesi socialisti a guida URSS. Sappiamo bene che uno degli elementi di crisi della rivoluzione Bolscevica è stata la mancata rivoluzione della classe operaia nel resto dell’ Europa e come questa mancata rivoluzione sia stata il frutto delle possibilità egemoniche dell’imperialismo di inizio ‘900 ma anche delle scelte politiche fatte dalla II° internazionale.
Lenin su questo non solo ha analizzato le caratteristiche del movimento operaio dell’epoca e gli effetti della sua subordinazione alle borghesie nazionali, ma aveva ben compreso anche le conseguenze che una simile situazione avrebbe creato nella costruzione del socialismo, che disponeva in quel momento come unica base un paese non solo arretrato ma anche piegato da anni di guerra civile.
E’ chiaro che molto di quello che è successivamente accaduto, sia in termini concreti di costruzione di una società alternativa al capitalismo ma anche in termini di tenuta teorica del pensiero comunista che una tale mastodontica opera richiedeva, è stato condizionato da quegli eventi che, per certi versi, si sono confermati per tutto il XX° secolo. Le rivoluzioni fatte, a cominciare da quella Cinese, hanno avuto come base sociale sostanzialmente le masse rurali sfruttate e non le classi operaie dei paesi avanzati; classi che, pur conducendo una forte lotta in alcuni paesi come ad esempio nel nostro ma non solo, sono state determinanti per modificare i rapporti di forza nella società e per la conquista di spazi democratici ma che non hanno mai raggiunto il punto di rottura rivoluzionaria come è invece accaduto nell’allora cosiddetto terzo mondo.
Il fatto che a poco meno di un secolo di distanza si riproponga una possibile ma non certa frattura tra lavoratori sul piano internazionale, pur in presenza di una molto più forte integrazione dei sistemi produttivi, crediamo che ci debba spingere a riflettere non tanto e non solo sul piano della contingenza politica, cosa che va comunque fatta, quanto sulle implicazioni teoriche relative alle forme ed ai modi della transizione sociale possibile. Infatti in questo caso si prospetterebbe una transizione dove i caratteri socialisti di un nuovo assetto sociale emergerebbero dentro un percorso complicato, contraddittorio e certo di non breve durata; questa riflessione sarebbe necessaria non solo per capire oggi concretamente come muoverci nel nostro paese e in Europa, ma anche per avere una lettura più obiettiva, e fuori dalle nostre specifiche e diversificate esperienze storiche, di quello che è accaduto nel ‘900.
Il forum che stiamo organizzando non potrà affrontare ovviamente questa questione in modo organico ma riteniamo che sia importante aprire anche su questo livello il confronto perché l’analisi del conflitto capitale-lavoro, che è il centro di questo documento, non può separarsi da un livello di riflessione teorica che rimane uno dei punti principali della battaglia dei comunisti oggi. Come Rete dei Comunisti comunque affronteremo le questioni relative alla transizione sociale ed al movimento comunista in un altro incontro che intendiamo tenere alla fine di quest’anno.
Quale ruolo per i comunisti in Italia?
La nascita della classe transnazionale, la nuova dimensione istituzionale e materiale europea impegnano i comunisti, ed il loro livello di pensiero ed elaborazione teorica, ad andare oltre la sola dimensione nazionale ma anche a capire come questa venga portata politicamente e praticamente dentro il nuovo contesto soprannazionale. Dunque se vogliamo definire un ruolo strategico per i comunisti nel nostro paese possiamo dire che questo è oggi quello di funzionare da “snodo” tra la situazione internazionale e quella interna tenendo conto del nuovo contesto in cui questa funzione viene svolta.
Per i comunisti il ruolo internazionale è stato sempre il punto di riferimento della propria azione ma il dato nuovo che dobbiamo affrontare sono le condizioni diverse in cui agire e dunque anche gli obiettivi che una tale situazione ci impone. Nel corso del ‘900 in una situazione più avanzata intermini di conflitto politico e di classe gli obiettivi erano direttamente generali anche se non si poneva immediatamente il problema della presa del potere. Oggi non possiamo che fare un passo indietro nella ricostruzione di una identità e di una funzione dei comunisti nel nostro paese cercando di capire su quale obiettivo prioritario indirizzare le esigue forze in campo e articolate su diverse collocazioni organizzative.
Nelle analisi fatte su queste pagine e in altre occasioni il paradosso che emerge costantemente è che mentre le condizioni oggettive presentano possibilità per certi versi maggiori che nel ‘900, come appunto quella di una classe con caratteristiche transnazionali e dunque più avanzate di quelle nazionali del secolo passato, quello che manca è la capacità soggettiva sul piano della concezione teorica, della proposta e della organizzazione politica e di massa di orientare le contraddizioni più avanzate verso il superamento del capitalismo. Questa è una condizione che si presenta diversificata nelle diverse aree del mondo, come abbiamo già scritto, ma è certamente la questione principale che abbiamo di fronte.
La possibilità di ricostruzione, nei tempi e nei modi dati dalla realtà, di questa soggettività passa attraverso l’obiettivo dell’accumulo delle forze a tutti i livelli necessari, politico, teorico, sociale,etc. e con un approccio aperto sul piano del confronto e delle relazioni tra comunisti collocati anche in condizioni organizzative diverse. Qui si pongono problemi complessi e di diverso tipo che riguardano il merito delle analisi da fare, le valutazioni sulla storia e sulla politica dei comunisti ma anche la capacità di individuare una tattica che tenga conto delle condizioni in cui può crescere di nuovo un progetto comunista adeguato ai tempi e non con la testa rivolta al passato.
Non è possibile allo stato attuale una sintesi generale per il semplice fatto che questa non può essere il prodotto del volontarismo dei diversi soggetti ma solo della realtà che nel suo sviluppo conferma concretamente una certa prospettiva; dunque se si pensa di trovare risposte belle e pronte o partiti gia “affilati” al punto giusto probabilmente si sbaglia ed è invece più realistico fare un passo indietro ridefinendo i contenuti comuni e su questi poi procedere verso esperienze e verifiche “sul campo” comuni anch’esse.
In questo senso ci sentiamo di sottoporre alla discussione ed al confronto con i compagni alcuni terreni di dibattito e di azione che riteniamo utili a quell’accumulo delle forze che prima dicevamo essere l’obiettivo principale di questa fase storica. Questi sono relativi alle questione dell’organizzazione della classe lavoratrice e del sociale, della necessità di costruire un blocco politico democratico e della funzione di collegamento internazionale che i comunisti debbono e possono oggi svolgere.
Base sociale ed indipendenza politica – Se è difficile svolgere un ruolo generale indubbiamente per i comunisti è possibile lavorare alla organizzazione dei settori di classe, dei lavoratori, di tutti quelle parti della società sempre più consistenti travolte dai meccanismi economici e finanziari che abbiamo descritto nelle pagine precedenti. Le condizioni per svolgere questo lavoro, che è anche di orientamento politico e culturale di massa, ci sono tutte se partiamo proprio da quella modifica della composizione di classe più volte richiamata e che produce una necessità di organizzazione alla quale le organizzazioni storiche del movimento dei lavoratori, non solo i sindacati ma anche tutte le altre forme di organizzazione sociale, non possono ma soprattutto non vogliono dare nella loro prospettiva concertativa.
E’ del tutto adeguato e realistico proporre organizzazioni sindacali e sociali indipendenti dal quadro politico istituzionale e la contraddizione di classe nel mondo del lavoro, così come ora si presenta e nelle sue molteplici forme, è quella che ancora è politicamente più avanzata proprio perchè può attuare quella indipendenza che in altri ambiti è resa impossibile dai meccanismi istituzionali e che spesso è, invece, praticata in modo spontaneo da settori consistenti di lavoratori.
Se facciamo riferimento alla analisi fatta è chiaro che la dimensione lavorativa, non solo quella del rapporto di lavoro stabile, segue anche le nuove forme di organizzazione della produzione flessibile, precaria e socializzata. E’ stato creato un nesso tra il lavoro tradizionale e le nuove forme socializzate della produzione, che vanno oltre il tempo di lavoro e che invadono le stesse condizioni di vita dei soggetti coinvolti. In questo senso il luogo dove avvengono sia la connessione che la pratica di queste nuove forme di lavoro per noi sono le aree metropolitane che vanno riconsiderate in funzione del ruolo produttivo che sono andate acquisendo.
Le esternalizzazione attuate dai luoghi produttivi, le privatizzazioni dei servizi sociali, i processi di terziarizzazione, la ristrutturazione continua della produzione nei paesi dominanti vivono e si “riproducono” nella dimensione metropolitana e della flessibilità totale del lavoro, e non è certo un caso che nel nostro paese oltre il 31% del PIL viene prodotto proprio dalle 11 aree metropolitane nazionali. Con il convegno vogliamo fornire un ulteriore contributo su una tale tematica che miri ad evidenziare meglio il ruolo economico e sociale di questa nuova condizione della forza lavoro ma anche a capire quali forme possa assumere l’organizzazione di classe in queste condizioni, coscienti anche che questa dimensione non è affatto condizionabile ed è fuori dalla portata delle forze sociali concertative.
Anche su questo ritorna il leit motiv della soggettività in quanto le condizioni oggettive da sole non producono organizzazione ma al massimo ribellione. Appare perciò del tutto chiaro che in questo lavoro i comunisti non solo possono svolgere un ruolo avanzato sul piano sociale, ma che da questo ne possono uscire forze ed energie funzionali al suddetto accumulo delle forze.
Per costruire un blocco politico – Il conflitto diretto tra capitale e lavoro ha bisogno, dal punto di vista delle forze di classe, di esprimersi anche su un livello politico e di una alleanze sociali e politiche più vaste. Questa è stata la storia del movimento operaio che, quando è riuscito a creare queste condizioni, ha saputo affermarsi e superare molte barriere.
Oggi è possibile riaprire direttamente questo discorso e prospettiva di lavoro? In termini diretti la risposta ci sembra essere negativa, ma le condizioni affinché questa prospettiva si riapra ci sembra che si stiano creando. Il punto di partenza di questa riflessione non può che partire dalla latente crisi di egemonia del capitale che abbiamo cercato di descrivere all’inizio di questo documento; gli elementi che da li emergono sono quelli legati alle grandi questioni del mondo moderno e che il nostro “apprendista stregone” capitalista non riesce a dominare nonostante che sia lui il diretto responsabile.
La guerra permanente, la questione ambientale e la regressione democratica, tanto nei paesi dominanti che in quelli dominati, sono le emergenze più evidenti, anche se esistono altri nodi altrettanto strategici, che escono dalla “teoria” di ristrette elite e gruppi ed entrano nella vita quotidiana dei popoli e delle nazioni assieme alle questioni del lavoro, del salario, delle tutele sociali cioè delle questioni materiali in generale legate alle condizioni di vita. Attorno a queste necessità fondamentali dell’umanità è possibile definire una alleanza politica che sia allo stesso tempo democratica ed anticapitalistica di fatto in quanto queste contraddizioni negano lo sviluppo basato sulla valorizzazione del capitale.
Da qui è possibile dedurre delle ipotesi e delle proposte politiche praticabili in Italia? Di nuovo la risposta non può che essere negativa e per motivi abbastanza evidenti. Esiste infatti da noi un sistema elettorale ed istituzionale che blocca ogni possibilità di espressione alternativa al sistema bipolarismo, almeno fino a quando non emergeranno contraddizioni dirompenti, ma anche forze e soggettività politiche a sinistra che, nonostante le dichiarazioni di antagonismo e di sostegno dei movimenti, di fatto si adeguano al sistema vigente. Ciò avviene nonostante che dalla estrema destra si cerchi, invece, di rompere proprio questo bipolarismo; speriamo che alla mancanza di coraggio politico non corrisponda pure una miopia sulla capacità di tenuta del bipolarismo e sulla pazienza dei settori sociali.
Per uscire perciò dalla morsa tra le manifestazioni sempre più evidenti delle contraddizioni “globali” ed il blocco politico imposto dal sistema bipolare va valutata la possibilità di dare vita ad una pratica politica e di mobilitazione a carattere intermedio; ovvero di fronte alle questioni poste se non è possibile ancora costruire una rappresentanza politica democratica, di massa ed unitaria però riteniamo sia possibile individuare livelli di mobilitazione e di rapporti organizzati in modo stabile che consolidino nel tempo punti di vista ed identità diverse da quelle istituzionali ormai ampiamente screditate.
E’ dentro questo spazio praticabile già da ora che è possibile ritrovare un ruolo ai comunisti, anche se diversamente collocati, e soprattutto lavorare in modo unitario ad un ampio arco di forze diverse per costruire delle solide gambe ai movimenti politici che già si esprimono nel nostro paese e per far avanzare il processo di accumulo delle forze anche in un ambito dove politica, cultura e teoria svolgono una funzione centrale.
Un “ponte” internazionalista – L’azione politica e sociale però non può prescindere dal quadro generale che abbiamo trattato e dalla potenziale contraddizione tra i lavoratori del centro e della periferia. Questo è un terreno dove l’avversario di classe “bombarda” quotidianamente tramite l’informazione dei mass media e una formazione ideologica pervasiva; i limiti materiali che abbiamo da questo punto di vista sono enormi però non possiamo abbandonare un terreno strategico come quello della battaglia culturale.
Riteniamo perciò che vada svolta anche una funzione di “ponte” e di collegamento, tra le due parti della classe transnazionale, che riteniamo rivesti oggi un ruolo strategico; per questo non solo vanno fatti sforzi possibili ma bisogna anche avviare strutture e campagne unitarie che vedano un ampio uso degli strumenti informativi disponibili ed una battaglia culturale da portare anche dentro il movimento politico del nostro paese. Questo è un terreno difficile da praticare perché gli strumenti a disposizione sono troppo limitati ma dove, in positivo, lo spazio politico è enorme in quanto nella sinistra, più o meno, radicale l’eurocentrismo è una convinzione molto diffusa ed è un limite rispetto alla presa di coscienza delle trasformazioni in atto.
Conclusioni
Questo nuovo convegno sul conflitto tra capitale e lavoro tenta di portare più avanti la parte analitica sulle condizioni oggettive in cui si svolge un tale confronto, su quelle che abbiamo definito le “terre di nessuno”, la cosiddetta “aristocrazia salariata” e le aree metropolitane, etc. ma inevitabilmente deve affrontare anche il nodo di una politica di classe nel nostro paese.
E’ evidente per noi che non è possibile scindere il dato oggettivo da quello della soggettività politica in quanto la teoria non può essere soltanto una semplice lettura della realtà “esterna” a noi ma soprattutto una guida per l’azione. In questo senso ci appare sempre più evidente e insopportabile il paradosso che vede contrapposti da una parte una oggettività che amplia le possibilità di azione delle forze coerentemente democratiche, di classe ed anche comuniste, dall’altra una cecità, una impotenza delle soggettività politiche chiuse dentro uno schema di pensiero sterile che non ha alcuna autonomia rispetto alla ideologia dominante.
Coscienti dei nostri limiti politici e pratici abbiamo svolto un lavoro di analisi e di elaborazione in questi ultimi anni che non ha cercato solo di capire ma anche di individuare delle vie di uscita da una situazione di stallo che diviene sempre più insostenibile e con uno spirito politico unitario non come generica “etica” politica ma come necessità che viene imposta dalla realtà.
La nostra scelta ci sembra che venga rafforzata dagli sviluppi della situazione interna alla sinistra nel nostro paese i particolare alla situazione che si sta determinando rispetto al Partito della Rifondazione Comunista che rappresenta la componente maggiore della eredità lasciata nel nostro paese dal PCI e dalla sinistra di movimento degli anni ’70 ed ’80 e che per questo sopporta oggi le maggiori responsabilità politiche per una ipotesi di sinistra e di classe.
La svolta data da Bertinotti e dalla sua maggioranza al PRC è gravida di conseguenze anche per la stessa capacità di tenuta politica ed elettorale di questo partito come hanno dimostrato le recenti elezioni regionali dove si è avuta una verifica politica negativa delle scelte operate nell’ultimo congresso.
L’adesione totale della proposta politica della “Unione” di centrosinistra, le accettate responsabilità di governo in caso di vittoria alle elezioni politiche del 2006, il duro attacco fatto a tutte le opposizioni interne, dopo aver per anni “cavalcato” il movimento ed aver criticato per noi giustamente coloro che rimanevano nell’Ulivo professando l’autonomia del PRC, dimostrano non solo la ristrettezza del progetto politico e la strumentalità manifesta nei confronti dei movimenti in generale ma anche la inadeguatezza del “pensiero debole” nel nuovo contesto politico ed internazionale.
Infatti il tatticismo estremo, il piegare i principi di fondo alle contingenze politiche, vedi le posizioni sulla non violenza e le “esternazioni” sulla religione di Bertinotti, cambiare posizione in funzione della sopravvivenza dell’apparato non tanto di partito, praticamente oggi debolissimo, ma di quello istituzionale a lungo andare mostrano la loro debolezza ed inconsistenza non solo agli addetti alla politica ma anche ai settori più ampi della sinistra.
Il mancato sfondamento nell’elettorato dei DS verificatosi nelle regionali, e per il quale si è aperto uno scontro con le opposizioni interne rifiutando ogni mediazione, dimostra che l’azione politica prodotta dal “pensiero debole” è altrettanto debole e non convince nemmeno chi è potenzialmente un interlocutore sociale e politico del quale si è data per scontata l’adesione così come si è stata dato per scontata la vittoria elettorale.
Questa verifica è un risultato negativo che riguarda non solo il PRC ma anche la sinistra antagonista più generalmente intesa ma contiene anche degli elementi di chiarezza che hanno un valore generale. La sconfitta della prospettiva Bertinottiana dimostra a tutti che la strada del compromesso a tutti i costi e della rinuncia di un progetto strategico, per quanto possa essere difficile, non paga perchè nel ricatto del bipolarismo prevalgono le forze moderate e non quelle radicali.
La nostra non è una posizione di principio e preconcetta perché pensiamo che la verifica non avrà tempi lunghi; infatti dopo le lezioni politiche del 2006 ed il probabile avvento del nuovo governo Prodi molti nodi verranno al pettine,da quello delle politiche sociali e del lavoro a quello degli interventi militari umanitari fino agli spazi di agibilità democratica, in quanto peseranno non tanto le eredità disastrose del governo Berlusconi quanto le condizioni politiche ed economiche internazionali che offrono oggi molto meno spazi di manovra di quanto ce ne siano stati per il primo governo Prodi, fatto cadere dal PRC, del 1996.
Non si tratta perciò di approfittare della crisi di una tattica per sostituirla con quella di un’altra soggettività politica ma piuttosto di prendere atto, da parte di tutti, che le condizioni obiettive e le tendenze in atto costringono a riassumere un atteggiamento strategico che diventi predominante sulla tattica. Non prendere atto di questo significa candidarsi alla superfluità politica nello scenario italiano segnato dal prevalere delle forze moderate e liberiste,variamente mascherate.