di Friedrich Engels Londra, 1 luglio 1874
Le righe precedenti sono state scritte più di quattro anni fa. Ma anche oggi esse conservano la loro validità. Ciò che era giusto dopo Sadowa e la divisione della Germania è confermato dopo Sedan e dopo la fondazione del Sacro impero tedesco di nazione prussiana. Tanto poco i capitali avvenimenti di stato della cosiddetta politica «che scuotono il mondo», possono alterare il corso del movimento storico.
Una cosa questi capitali avvenimenti di stato possono fare: accelerare la velocità di questo movimento. E, a questo proposito, gli autori di questi «avvenimenti che scuotono il mondo» hanno conseguito successi involontari, successi che certamente erano ben lontani dal desiderare, ma a cui, vogliano o non vogliano, devono rassegnarsi.
Già la guerra del 1866 scosse la vecchia Prussia sin dalle sue fondamenta. Era costato già molta fatica, dopo il 1848, ricondurre alla vecchia disciplina gli elementi ribelli dell’industria — borghesi e proletari — appartenenti alle province occidentali, ma ci si era riusciti e l’interesse dei Junker delle province orientali, accanto a quello dell’esercito, era ritornato ad essere l’interesse dominante dello stato. Col 1866 diventò prussiana quasi tutta la Germania nord occidentale e, a prescindere dall’incurabile danno morale che la corona prussiana per grazia di Dio trasse dall’avere inghiottito tre altre corone per grazia di Dio, il centro di gravità della monarchia si spostò considerevolmente verso occidente. E così i 5 milioni di renani e vestfaliani furono rafforzati, con l’Unione germanica del Nord, in un primo tempo e direttamente da 4 milioni, e in un secondo tempo indirettamente da 6 milioni di tedeschi che venivano annessi. Nel 1870, poi, si aggiunsero gli 8 milioni di tedeschi sud oc- – 13 – cidentali; cosicché, nel nuovo Reich ai 14 milioni e mezzo di vecchi prussiani (delle 6 province dell’Elba orientale tra i quali per giunta vi erano 2 milioni di polacchi) stavano di fronte circa 25 milioni che da gran tempo avevano superato il vecchio feudalesimo prussiano dei Junker. Così proprio le vittorie dell’esercito prussiano vennero a spostare completamente la base dell’edificio dello stato prussiano, e il potere dominante dei Junker divenne sempre più insopportabile perfino al governo. Ma contemporaneamente lo sviluppo industriale spaventosamente rapido aveva messo, al posto della lotta tra i Junker e i borghesi, la lotta tra i borghesi e gli operai, cosicché le basi sociali del vecchio stato avevano subito, anche nel loro intimo, una trasformazione completa. La monarchia, che dopo il 1840 si andava lentamente putrefacendo, aveva avuto come sua condizione fondamentale la lotta tra nobiltà e borghesia, nella quale essa manteneva l’equilibrio. Dall’istante in cui non si trattava più di difendere la nobiltà dalla pressione della borghesia, ma di difendere tutte le classi possidenti dalla pressione della classe operaia, la monarchia assoluta fu costretta a trapassare completamente in quella forma di stato che era stata elaborata proprio per questo fine: la monarchia bonapartista. Questo passaggio della Prussia al bonapartismo è stato spiegato da me altrove (Questione delle abitazioni, 2° fasc. , p. 26 e sgg. ). Ciò che io non dovevo mettere in rilievo in quello scritto e che qui invece è essenzialissimo si è che questo passaggio fu il più grande progresso fatto dalla Prussia dopo il 1848: tale era lo stato di arretratezza in cui era rimasta la Prussia rispetto al moderno processo di sviluppo! Essa era tuttora uno stato semifeudale, mentre il bonapartismo è, in ogni caso, una forma moderna di stato che ha come suo presupposto la soppressione del feudalesimo. La Prussia deve dunque decidersi a farla finita con i suoi numerosi residui feudali, e a sacrificare la sua nobiltà campagnola di tipo feudale. Naturalmente questo si compie nella forma più dolce e secondo l’amato ritornello: chi va piano va sano. Prendiamo come esempio il famosissimo ordinamento distrettuale. Esso sopprime i privilegi feudali del singolo Junker sul suo fondo, ma solo per ristabilirli nella forma di privilegi della comunità dei grandi proprietari terrieri per tutto quanto il distretto. La cosa rimane, solo viene tradotta dal linguaggio feudale nel linguaggio borghese. Si costringe il vecchio Junker prussiano a diventare qualcosa come uno squire inglese; ed egli non ha proprio niente da opporre, perché l’uno è stupido quanto l’altro.
Cosicché la Prussia ha il singolare destino di compiere alla fine di questo secolo e nella gradevole forma del bonapartismo la sua rivoluzione borghese, iniziata nel periodo dal 1808 al 1813 e spinta avanti per un certo tratto nel 1848. E se tutto andrà bene, se il mondo avrà la compiacenza di restare tranquillo, e se noi tutti vivremo abbastanza, forse nell’anno 1900 potremo vedere che il governo prussiano ha abbandonato tutte le istituzioni feudali e che la Prussia finalmente giunge al punto in cui la Francia si trovava nel 1792.
Abolizione del feudalesimo vuol dire, esprimendoci positivamente, instaurazione dei regime borghese. Nella misura in cui i privilegi nobiliari cadono, la legislazione diventa borghese. E qui tocchiamo il punto centrale del rapporto tra la borghesia tedesca e il governo. Noi abbiamo visto che il governo è costretto ad introdurre queste lente e meschine riforme. Ma esso presenta alla borghesia ognuna di queste piccole concessioni come un sacrificio fatto per i borghesi, come una concessione strappata con fatica e con forza alla corona, per cui anch’essi, i borghesi, dovrebbero, a loro volta, fare delle concessioni al governo. E la borghesia, quantunque veda abbastanza chiaramente il reale stato delle cose, si presta a lasciarsi ingannare.
Da ciò ha avuto origine quel tacito accordo che costituisce la base sottintesa di tutti i dibattiti del Reichstag e della Camera a Berlino: da una parte il governo, a galoppo di lumaca, riforma le leggi nell’interesse della borghesia, elimina gli ostacoli che provengono all’industria dalla feudalità e dall’esistenza di una congerie di piccoli stati, stabilisce l’unità di moneta, di pesi e di misure, introduce la libertà di esercizio professionale ecc. e, con la libertà di domicilio, mette la forza di lavoro tedesca ad illimitata disposizione del capitale, favorisce il commercio e la truffa; dall’altra parte, la borghesia abbandona al governo ogni effettivo potere politico, vota imposte, prestiti e soldati, e aiuta a redigere tutte le nuove leggi sulle riforme in modo tale che il vecchio potere della polizia sulle persone non gradite resti in piena efficienza. La borghesia compra la sua graduale emancipazione sociale con la pronta rinunzia al proprio potere politico. Naturalmente il motivo principale che rende un tale contratto accettabile dalla borghesia non è la paura del governo, ma la paura del proletariato.
Per quanto la nostra borghesia sul piano politico proceda miserevolmente, non si deve negare che per quello che riguarda l’industria e il commercio, essa finalmente assolve il proprio compito. Lo slancio industriale e commerciale che abbiamo messo in rilievo nell’introduzione alla seconda edizione, da allora si è sviluppato con un’energia ancora molto maggiore. Sotto questo rapporto quello che è avvenuto dopo il 1869 nel distretto industriale renano-vestfalico è assolutamente inaudito per la Germania e ricorda lo slancio che si è avuto nei distretti industriali inglesi al principio di questo secolo. E sarà così anche in Sassonia e nell’Alta Slesia, a Berlino, ad Hannover e nelle città marittime. Finalmente abbiamo un commercio mondiale, una vera grande industria, una borghesia veramente moderna, e perciò abbiamo anche subìto una vera crisi, e parimente abbiamo un autentico e forte proletariato.
Per lo storico futuro il fragore delle battaglie di Spichern, di Mars-la-Tour e di Sedan e le conseguenze che ne sortirono avranno minor valore per la storia della Germania, dal 1869 al 1874, dello sviluppo senza pretese, tranquillo ma ininterrotto, del proletariato tedesco. Pure, nel 1870 gli operai tedeschi subirono una dura prova: la provocazione di guerra di Luigi Bonaparte e il suo effetto naturale, cioè il generale entusiasmo nazionale in Germania. Ma gli operai tedeschi non si lasciarono sviare neanche per un istante: in loro non apparve il più piccolo moto di sciovinismo nazionale. In mezzo alla più folle ebbrezza per la vittoria essi si mantennero freddi e richiesero «condizioni eque di pace con la repubblica francese e nessuna annessione». Neppure lo stato d’assedio li poté ridurre al silenzio. Né la gloria dei combattimenti né l’evocazione della «magnificenza del Reich tedesco» ebbero presa su loro. Il loro unico fine rimase la liberazione di tutto il proletariato europeo. Si può ben dirlo: in nessun altro paese gli operai sono stati sinora sottoposti ad una prova così dura né l’hanno superata così brillante. mente.
Allo stato d’assedio del tempo di guerra, seguirono i processi di alto tradimento, di lesa maestà, di offese a pubblici funzionari, nonché le angherie sempre crescenti della polizia: cose, queste, proprie del tempo di pace. Il Volksstaat aveva regolarmente da tre a quattro redattori in carcere nello stesso tempo, e gli altri giornali in proporzione. Ogni oratore del partito che fosse appena noto era processato almeno una volta all’anno e regolarmente condannato. Bandi, confische, scioglimenti di assemblee si seguivano fitti come la grandine. Ma tutto invano: al posto di chi veniva arrestato o bandito subentrava subito un altro; per ogni assemblea che veniva sciolta ne indicevano altre due e dappertutto si aveva ragione dell’arbitrio della polizia, con la fermezza e con la precisa osservanza della legge. Tutte le persecuzioni ottenevano un effetto contrario al previsto: anziché spezzare il partito operaio o anche solamente piegarlo, facevano accorrere tra le sue file sempre nuove reclute e ne rafforzavano l’organizzazione.
Nella loro lotta contro le autorità così come contro i singoli borghesi, gli operai si mostravano dappertutto intellettualmente e moralmente superiori, e nei loro conflitti con i così detti datori di lavoro, mostravano che ora essi, gli operai, erano gli uomini colti e che i capitalisti, invece, erano degli uomini rozzi. Inoltre essi conducevano la lotta per lo più con un senso di umorismo che è la prova migliore di quanto fossero sicuri della loro causa e consapevoli della loro superiorità.
Una lotta condotta così, su un terreno già storicamente preparato, deve dare grandi risultati. I successi ottenuti nelle elezioni del gennaio restano sino ad ora un esempio unico nella storia del movimento operaio moderno, e lo stupore che essi hanno suscitato in tutta l’Europa era perfettamente giustificato.
Gli operai tedeschi hanno due vantaggi essenziali sugli operai del resto dell’Europa. In primo luogo essi appartengono al popolo più portato alla teoria dell’Europa ed hanno conservato il senso teorico, così totalmente perduto nei così detti «uomini colti» della Germania. Senza il precedente della filosofia tedesca e precisamente della filosofia di Hegel, il socialismo scientifico tedesco – l’unico socialismo scientifico che sia mai esistito – non sarebbe mai nato. Se tra gli operai non ci fosse stato questo senso teorico, il socialismo scientifico non si sarebbe mai cambiato in sangue e carne in così grande misura come è effettivamente accaduto. E quale incommensurabile vantaggio sia questo, si rivela da una parte se si tenga presente l’indifferenza verso tutte le teorie, che è una delle cause principali per cui il movimento operaio inglese, malgrado tutta la notevole organizzazione dei singoli sindacati, avanza così lentamente, e, dall’altra parte, se si tengano presenti la confusione e le storture che il proudhonismo ha provocato, nella sua forma originaria nei francesi e nei belgi, e, più tardi, nella caricatura che ne fece Bakunin, negli spagnoli e negli italiani.
Il secondo vantaggio è costituito dal fatto che i tedeschi sono arrivati quasi ultimi nel movimento operaio dell’epoca. Come il socialismo tedesco non dimenticherà mai che esso, diremo, poggia sulle spalle di Saint-Simon. Fourier e Owen, tre uomini che, con tutta la loro fantasticheria e tutto il loro utopismo, sono tra le teste più fini di tutti i tempi e hanno anticipate infinite cose che noi oggi dimostriamo scientificamente, così il movimento operaio pratico tedesco non può mai dimenticare che esso si è sviluppato sulle spalle del movimento inglese e francese, che può con tutta semplicità trarre profitto dalle loro esperienze acquistate a così caro prezzo, ed evitare ora i loro errori che erano allora inevitabili. Senza il gigantesco impulso dato specialmente dalla Comune di Parigi, dallo sviluppo precedente delle trade unions inglesi e dalle lotte politiche degli operai francesi, a che punto saremmo noi ora?
Si deve riconoscere che gli operai tedeschi hanno sfruttato con rara intelligenza la loro posizione vantaggiosa. Infatti, per la prima volta dacché esiste il movimento operaio, la lotta viene condotta unitariamente, coerentemente e secondo un piano che si svolge su tre linee: teorica, politica e pratico-economica (resistenza ai capitalisti). La forza e l’invincibilità del movimento tedesco sta precisamente in questo attacco che potremmo dire concentrico.
Da una parte per questa loro privilegiata posizione, dall’altra per le particolarità insulari del movimento inglese la violenta repressione del movimento francese, gli operai tedeschi sono per il momento all’avanguardia della lotta proletaria. Per quanto tempo gli avvenimenti lasceranno loro questo posto d’onore non si può dire. Ma sino a quando lo occuperanno, è sperabile che essi eseguiranno il loro compito come si conviene. Per questo occorre che gli sforzi siano raddoppiati in ogni campo della lotta e dell’agitazione. Precisamente sarà dovere di tutti i dirigenti chiarire sempre più tutte le questioni teoriche, liberarsi sempre più completamente dall’influsso delle frasi fatte proprie della vecchia concezione del mondo, e tenere sempre presente che il socialismo, da quando è diventato una scienza, va trattato come una scienza, cioè va studiato. Ma l’importante sarà poi diffondere tra le masse, con zelo accresciuto, la concezione che così si è acquisita e che sempre più si è chiarita, e rinsaldare sempre più fermamente l’organizzazione del partito e dei sindacati. Per quanto i voti socialisti espressi in gennaio rappresentino già un buon esercito, esso è ancora molto lontano dal costituire la maggioranza della classe operaia; per quanto incoraggianti siano i successi raggiunti dalla propaganda tra la popolazione rurale, proprio qui resta ancora infinitamente da fare.
Non c’è da accusare stanchezza nella lotta: c’è invece da strappare al nemico una città dopo l’altra, una circoscrizione elettorale dopo l’altra. E soprattutto c’è da mantenere puro il senso puramente internazionalistico, che non lascia adito a nessuno sciovinismo patriottico e che saluta con gioia ogni nuovo passo in avanti del movimento proletario, senza nessuna differenza, quale che sia la nazione da cui esso provenga. Se gli operai tedeschi così andranno avanti, non perciò marceranno alla testa del movimento – anzi non è affatto nell’interesse del movimento che gli operai di una singola nazione, quale che essa sia, marcino alla testa del movimento – ma tuttavia occuperanno un posto degno di onore nella linea del combattimento; e saranno pronti in armi, se o dure prove inattese o grandi avvenimenti esigeranno maggiore coraggio, maggiore decisione ed energia.